Il criticato progetto di restauro del graffito di Banksy a Venezia
Lo vogliono i proprietari del palazzo e il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, ma molti credono non sia il caso
Nella notte tra l’8 e 9 maggio 2019, in vista dell’imminente apertura della Biennale d’Arte contemporanea, sul muro di un palazzo storico appartenente a privati nel sestiere Dorsoduro a Venezia fu dipinto un graffito con una bomboletta spray. Raffigurava un bambino migrante dal volto affranto nell’atto di attirare l’attenzione dei soccorsi con un razzo di segnalazione che emette fumo fucsia, nella speranza di essere salvato dall’acqua che sale.
“Il bambino migrante” fu realizzato dal più famoso street artist al mondo, Banksy, noto oltre che per le sue opere che spesso hanno un esplicito messaggio politico anche perché non se ne conosce ufficialmente l’identità. Quattro anni dopo la sua realizzazione il murale è già in cattive condizioni. Essendo stato dipinto a pelo d’acqua, in quella parte inferiore dei palazzi veneziani nota come “area sacrificale”, che di norma viene lasciata appositamente non decorata, negli ultimi anni è stato infatti rovinato dalle maree e dal moto ondoso provocato delle tante imbarcazioni a motore che percorrono tutti i giorni il canale, il trafficato Rio Novo.
Interrogato al riguardo, il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi si è assunto la responsabilità di organizzare il restauro dell’opera e ha già trovato una banca disposta a finanziare l’intervento, nonché un restauratore esperto di graffiti che possa farlo. Vari architetti veneziani ed esperti d’arte criticano però da settimane l’iniziativa, un po’ perché sembra andare contro le intenzioni artistiche dello stesso Banksy, un po’ perché ritengono che segnali una scala di priorità della politica che non condividono, e che trascura i più grandi problemi di Venezia, legati al cambiamento climatico, allo spopolamento e al turismo eccessivo.
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Già pochi giorni dopo l’apparizione del graffito, nel 2019, la proprietà dell’edificio aveva provato a chiedere che fosse messo in atto un intervento di difesa dell’opera dal deterioramento. Questo nonostante il graffito, come quasi tutte le opere di street art, fosse stato dipinto senza il consenso dei proprietari dell’immobile. Quest’anno, notando il rapido peggioramento delle condizioni del murale – che è una delle due sole opere di Banksy che al momento esistono in Italia, ed è diventato un’attrazione turistica alternativa in una città visitata ogni anno da milioni di persone – i proprietari dell’edificio hanno chiesto l’intervento della Soprintendenza Beni Culturali di Venezia, l’ente che ha il compito di tutelare e valorizzare il patrimonio culturale della città.
La Soprintendenza ha risposto loro che non ha la competenza di occuparsene perché l’autore dell’opera è ancora in vita e l’opera è troppo contemporanea, e non rispetta quindi la scadenza dei settant’anni dopo i quali l’ente può agire per la sua tutela, conservazione e messa in sicurezza. Il sindaco della città, Luigi Brugnaro, e il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, si sono quindi rivolti a Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura del governo di Giorgia Meloni con delega all’arte contemporanea, per sapere se il governo potesse fare qualcosa per il restauro.
Sgarbi ha quindi deciso di portare avanti l’operazione di restauro, dicendo che l’opera ha un’interesse pubblico e va quindi preservata. A inizio ottobre Sgarbi ha presentato in una conferenza stampa i primi dettagli dell’operazione di restauro, dicendo di aver individuato una banca con sede a Venezia che finanzia regolarmente progetti della Biennale (Banca Ifis) disposta a finanziare i lavori, e in una recente intervista ha aggiunto che il restauro sarà affidato a Federico Borgogni, che ha già lavorato al restauro di uno stencil di Banksy a Bristol. Il presidente della banca, Ernesto Fürstenberg Fassio, ha detto di aver accettato perché «la banca che rappresento ha sede a Venezia e l’opera di Banksy è pubblica, di tutti; ecco perché l’intervento di conservazione e restauro del murale e della facciata che lo ospita diventa ancora più importante; abbiamo la responsabilità, nel collaborare con istituzioni pubbliche e private, di conservare l’arte e la cultura a Venezia».
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Non è ancora chiaro come avverrà il restauro: per via della sua posizione delicata, costantemente a contatto con l’acqua, potrebbe essere particolarmente complesso lavorare sull’opera sul posto, e potrebbe quindi essere necessario distaccarla dal muro e farla conservare in un museo, sostituendola con una riproduzione posta sull’edificio dove si trova ora.
La decisione è stata accolta da molte discussioni sia tra chi non ritiene che un graffito meriti un investimento di quel tipo, sia tra varie persone che si occupano di beni culturali, a Venezia ma non solo. Parte delle critiche si concentra sul modo in cui l’operazione è stata gestita: sulla rivista specializzata Artribune, per esempio, la storica dell’arte Fabiola Naldi scrive che l’intervento di Sgarbi «elimina qualsiasi altra possibile riflessione. Lo vuole Sgarbi e quindi si fa, non lo vuole Sgarbi e quindi non si fa. Se servono soldi e Sgarbi vuole, i soldi si trovano, se servono soldi e Sgarbi non vuole, i soldi non ci sono più».
In larga parte, però, le critiche si concentrano sull’idea stessa di restaurare un graffito, che per sua natura è esposto alle intemperie ed è pensato quindi per durare relativamente poco. «Come storica dell’arte, ho dei dubbi su questo progetto: in passato, praticamente tutti i palazzi veneziani erano adornati di affreschi, che nel tempo sono scomparsi», ha detto a Euronews la storica dell’arte e guida turistica veneziana Monica Gambarotto.
A questo si aggiunge il fatto che, con una certa probabilità, Banksy ha deciso di dipingere “Il bambino migrante” sul pelo dell’acqua con la consapevolezza che non sarebbe durato a lungo, e quindi il restauro non dovrebbe avvenire se non con il suo consenso. «Prima di intraprendere un’operazione di restauro, è fondamentale consultare l’artista, ma anche la comunità locale, altrimenti non può che trattarsi di un’operazione calata dall’alto, sfruttando la fama di Banksy», ha detto Rosanna Carrieri, attivista di Mi Riconosci, associazione di professionisti del settore culturale. «Opere di questo genere non devono essere restaurate perché la natura della street art è effimera: si deteriora, il muro viene abbattuto, un altro artista copre. Sono cose che, generalmente, noi street artist accettiamo come compromesso», ha commentato invece lo street artist veneziano Peeta, «è un’azione fatta in un luogo preciso, con un suo significato. È l’azione, il luogo che parla. Il tempo passa, le cose cambiano».
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Sgarbi ha detto di essere contrario a interpellare Banksy, spiegando che «non ci interessa avere il consenso al restauro, dal momento che, tra l’altro, il murales è stato realizzato abusivamente. Chi agisce in modo abusivo su un edificio storico vincolato non può pretendere che qualcuno rispetti quello che lui non ha rispettato». Secondo un dirigente del ministero della Cultura, Angelo Piero Cappello, l’opera ha «assunto una dimensione pubblica», ed è quindi nell’interesse pubblico metterla in sicurezza e valorizzarla.
In passato era già successo che opere di Banksy – come accade d’altronde a migliaia di opere di street art da anni – venissero cancellate perché dipinte in spazi considerati non adatti ai graffiti. Nel 2020, per esempio, l’azienda responsabile dei trasporti pubblici di Londra aveva detto di aver rimosso la sua opera If you don’t mask, you don’t get dalla metro di Londra perché «è stata trattata come qualsiasi altro graffito sulla rete di trasporto», e gli aveva proposto di «realizzare per i nostri clienti una nuova versione del suo messaggio, in un posto adatto».
Diversi esperti veneziani sostengono che l’attenzione data alla preservazione del “Bambino migrante” e la velocità con cui si è cercato di trovare una soluzione sia eccessiva. «Il palazzo [dove si trova ora il graffito] è vuoto da decenni in un momento in cui la città è a corto di alloggi per i residenti: dovremmo preoccuparci della direzione che sta prendendo Venezia, i cui equilibri vengono profondamente stravolti dal turismo, anziché del restauro di un’opera nata per scomparire», ha detto a Euronews Matteo Pandolfo, membro dell’Ordine degli Architetti di Venezia.
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