Sánchez ha fatto troppe concessioni agli indipendentisti catalani?
Se ne discute molto in Spagna e le critiche al primo ministro per la concessione dell’amnistia non sono arrivate solo da destra
In Spagna i partiti che sostengono il primo ministro uscente Pedro Sánchez hanno presentato lunedì una proposta di legge di amnistia per gli attivisti indipendentisti catalani e per le persone coinvolte nel referendum dell’ottobre 2017 e in altri contesti di azioni politiche illegali. L’amnistia è l’elemento principale dell’accordo di governo fatto tra il Partito Socialista di Sánchez e il partito indipendentista catalano Junts per Catalunya, i cui voti sono fondamentali per consentire a Sánchez di ottenere un nuovo mandato.
La nuova legge, che dovrà essere approvata dal parlamento, prevede la cancellazione della «responsabilità penale, amministrativa e contabile» per più di 300 leader e attivisti indipendentisti incriminati di vari reati, e anche per 73 poliziotti sotto processo per le eccessive violenze commesse contro i manifestanti indipendentisti nei giorni del referendum del 2017. A meno di grosse sorprese, la nuova legge dovrebbe essere approvata rapidamente, ma l’accordo di governo con Junts sta suscitando comunque polemiche e scetticismi. Domenica sera in varie città spagnole ci sono state grosse manifestazioni organizzate dai partiti di centrodestra contro l’amnistia, come era già successo nei fine settimana precedenti. Gli scetticismi non riguardano soltanto l’opposizione.
In questi giorni vari esponenti delle istituzioni spagnole hanno sostenuto che le numerose concessioni fatte da Sánchez a Carles Puigdemont, il leader di Junts, potrebbero rischiare di provocare una crisi istituzionale in Spagna e riattivare il problema dell’indipendentismo catalano, che negli scorsi anni si è notevolmente ridotto. Al contrario, Sánchez e i socialisti sostengono che l’accordo consentirà di dare alla Spagna un governo capace di risolvere la questione catalana con il negoziato e il compromesso, e non con l’imposizione giudiziaria come era avvenuto finora.
Il voto di fiducia per il nuovo governo si terrà mercoledì e giovedì, e nella seconda votazione, quando saranno sufficienti più voti favorevoli che contrari, ci si aspetta che Sánchez sia riconfermato primo ministro.
L’elemento più discusso dell’accordo riguarda appunto l’amnistia per tutti i leader e gli attivisti indipendentisti catalani che negli scorsi anni sono stati incriminati o hanno subìto procedimenti giudiziari per le loro azioni a favore dell’indipendenza, soprattutto dopo il referendum illegale per l’indipendenza dell’ottobre 2017 ma anche in altri casi, come per esempio un referendum analogo fatto nel 2014. L’amnistia riguarderebbe più di 300 persone: non soltanto i più celebri leader indipendentisti catalani (come Puigdemont stesso), ma anche moltissimi attivisti che hanno subìto negli scorsi anni procedimenti giudiziari minori o amministrativi.
Già di per sé l’amnistia è estremamente controversa in Spagna: secondo una parte consistente della classe politica, non soltanto di centrodestra ma anche dentro allo stesso Partito Socialista, sarebbe una concessione eccessiva nei confronti di un movimento che, con il referendum del 2017, attaccò direttamente la Costituzione spagnola, tanto più che attualmente nessun indipendentista catalano è in prigione, dopo che i vari leader condannati per sedizione erano stati graziati proprio da Sánchez.
Secondo i sondaggi, più della metà dei cittadini spagnoli è contraria alla concessione dell’amnistia, ed è pronta a ripetere le elezioni se concederla fosse il prezzo da pagare per ottenere un governo. Lo stesso Sánchez, prima delle elezioni di luglio, sosteneva di essere contrario all’amnistia, e il fatto che adesso sia pronto a concederla è percepito come un tentativo di rimanere al potere a tutti i costi.
Ma oltre all’amnistia in sé è piuttosto criticato anche il modo in cui l’accordo prevede che sia implementata. Puigdemont sostiene da tempo che tutto il movimento indipendentista sia vittima di accanimento giudiziario. L’accordo cita esplicitamente la parola «lawfare», una crasi inglese tra law (legge) e warfare (arte bellica), con cui si indicano fenomeni in cui il diritto viene usato come arma per colpire dissidenti e nemici politici. Puigdemont cita piuttosto spesso il concetto di lawfare per indicare il fatto che, secondo lui, il sistema giudiziario spagnolo sarebbe prevenuto ingiustamente contro l’indipendentismo catalano.
Per questo nell’accordo è presente un linguaggio un po’ ambiguo che lascia intendere che saranno formate delle commissioni parlamentari per supervisionare il lavoro dei giudici: di queste commissioni non si parla nella legge presentata lunedì, ma davanti alla possibilità che saranno formate in un secondo momento varie associazioni di magistrati hanno protestato duramente, sostenendo che potrebbe essere una violazione dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.
Politico ha scritto che anche la Commissione Europea ha fatto sapere che sta controllando il testo dell’accordo per vigilare su eventuali violazioni dello stato di diritto, mentre il Partito Popolare Europeo (a cui appartiene l’opposizione a Sánchez) ha indetto un dibattito nel Parlamento Europeo per i prossimi giorni. Il Partito Socialista ha però detto molto chiaramente che l’indipendenza del sistema giudiziario non sarà toccata in nessun modo.
Oltre all’amnistia, Sánchez è criticato per aver fatto grosse concessioni economiche alla Catalogna: ha promesso a Junts che il governo regionale della Catalogna potrà tenere per sé il 100 per cento di tutte le tasse e imposte che raccoglie sul suo territorio. La Catalogna è una delle regioni più ricche e avanzate della Spagna, e l’idea che sarà del tutto esente da ogni forma di redistribuzione ha provocato le forti proteste degli ispettori del fisco spagnoli, secondo cui una norma del genere sarebbe «un trattamento di favore, senza alcuna giustificazione legale» nei confronti dei cittadini catalani.
Più in generale alcuni analisti stanno accusando Sánchez di aver riportato l’indipendentismo catalano al centro del dibattito, dopo anni in cui il conflitto era di fatto dormiente. Alle elezioni di luglio i due principali partiti indipendentisti catalani, Junts ed ERC, erano andati estremamente male e tra tutti e due in Catalogna non erano arrivati nemmeno al 25 per cento dei consensi, rispetto al 36 per cento di quattro anni prima. È vero che le elezioni erano nazionali e che quindi la questione locale catalana non era oggetto del voto, ma il risultato era stato visto, assieme ad altri fattori, come una conferma del fatto che il movimento indipendentista avesse ormai perso la sua spinta.
Ora che Sánchez ha stretto accordi sia con Junts sia con ERC (quest’ultimo partito sosteneva Sánchez già nella legislatura precedente) e che si appresta a diventare dipendente dai loro voti per governare, la questione catalana rischia di tornare un elemento polemico e divisivo. Sánchez e buona parte del Partito Socialista sostengono invece che, quanto meno, un accordo con Junts porrà fine all’unilateralismo del movimento indipendentista, cioè al fatto che, fino a qualche anno fa, gli indipendentisti portavano avanti la propria causa in maniera appunto unilaterale, anche uscendo dalla legalità e senza accordi preventivi con lo stato. Il referendum del 2017, che fu celebrato contro il volere del tribunale costituzionale spagnolo, è l’esempio principale di questa strategia, che secondo i socialisti sarà abbandonata.
Il problema è che nell’accordo non c’è nessuna rinuncia esplicita all’unilateralità da parte di Junts. Un portavoce di Puigdemont ha detto a Politico: «Non so dove la Moncloa [l’ufficio del primo ministro spagnolo] veda una rinuncia a tentativi unilaterali futuri per ottenere l’indipendenza».