L’ecoansia è diversa dalle altre ansie
L’angoscia dovuta alle conseguenze presenti e future del cambiamento climatico potrebbe essere in una certa misura funzionale, e richiedere soluzioni collettive più che individuali
La consapevolezza crescente delle conseguenze del cambiamento climatico sul presente e sul futuro del pianeta e delle forme di vita che ospita è alla base, oltre che di frequenti azioni di protesta e di un dibattito esteso e polarizzato, di concrete forme di disagio psicologico. Le varie reazioni emotive suscitate da questa consapevolezza in molte persone, soprattutto giovani, includono preoccupazione, rabbia, disperazione e senso di impotenza e di colpa, e rientrano in una condizione spesso definita “ecoansia”, da anni oggetto di riflessioni sui media e approfondimenti nella letteratura scientifica.
All’interno di una generale crisi della salute pubblica mentale acuita dalla pandemia, l’ecoansia è considerata un rischio emergente per centinaia di migliaia di persone nel mondo, in particolare le fasce più giovani. Sebbene non definita come un disturbo nei manuali diagnostici, è una forma di ansia associata a pensieri negativi e sensazioni invalidanti che richiedono in molti casi cure specialistiche. Interessa soprattutto adolescenti, attivisti, scienziati e altri gruppi di persone angosciate dalla prospettiva futura di disastri ambientali che percepiscono come inevitabili e irreversibili.
«Tra gli scienziati la questione dell’ecoansia non viene discussa apertamente, ma percepisco una maggiore negatività e abbiamo assunto atteggiamenti più cinici come strategia di adattamento», disse a gennaio al quotidiano El País in forma anonima un esperto che si occupa di raccolta dei dati sul cambiamento climatico. «Ogni aumento di un decimo di grado significa che milioni di persone soffriranno e le specie si estingueranno», aggiunse l’esperto, che disse di aver superato un periodo in cui non riusciva più a dormire né a trovare motivazioni nel lavoro.
La parola “ecoansia” è quella che si è affermata maggiormente in un gruppo di altri termini (“ecoparalisi”, “sindrome psicoterratica”, “lutto ecologico”) che circolano da oltre un decennio e con varie sfumature definiscono aspetti diversi di uno stesso fenomeno psichico e psicosociale. Uno dei primi e più citati articoli scientifici sull’argomento, pubblicato nel 2011 sulla rivista American Psychologist, descrisse gli effetti negativi del cambiamento climatico sulla salute mentale e sul benessere delle persone. Fu scritto da una ricercatrice e un ricercatore statunitensi, Susan Clayton e Thomas J. Doherty, esperti in un campo di studi che unisce psicologia e scienze ambientali.
Clayton e Doherty distinsero tre tipologie principali di possibili effetti del cambiamento climatico sul piano psicologico. Una riguarda il trauma acuto e diretto di vivere e in alcuni casi sopravvivere a disastri ambientali, ed è associata ad altri disturbi noti (tra cui il disturbo da stress post-traumatico e la depressione). Un’altra tipologia riguarda la paura, l’ansia e l’incertezza suscitate dall’esposizione mediatica agli effetti del cambiamento climatico nel mondo e dal pensiero costante dei rischi per la sopravvivenza degli esseri umani e delle altre specie. E una terza tipologia riguarda gli effetti psicosociali su larga scala, in grado di determinare cambiamenti radicali nel tessuto delle comunità (fenomeni di violenza, conflitti sulle risorse, migrazioni).
L’idea centrale dell’articolo, scrissero Clayton e Doherty, è che il cambiamento climatico sia «tanto un fenomeno psicologico e sociale quanto una questione di biodiversità e geofisica, con impatti che vanno oltre quello biofisico». Diverse loro previsioni furono successivamente confermate da studi che, per esempio, riscontrarono correlazioni sostanziali tra disastri naturali e disturbo da stress post-traumatico. E in un rapporto pubblicato nel 2017 l’American Psychological Association, la più importante associazione di psicologi negli Stati Uniti, definì formalmente l’ecoansia «una paura cronica della catastrofe ambientale».
Clayton scrisse in un articolo pubblicato nel 2020 sulla rivista Journal of Anxiety Disorders che l’esposizione a eventi meteorologici estremi può influenzare sia la salute fisica e mentale che le relazioni sociali delle persone. Citando le risposte emotive intense riconducibili a quell’esposizione, tra cui disperazione, rabbia e dolore, descrisse l’ansia come la più significativa, perché può rimanere entro limiti che la rendono funzionale e quindi utile, oppure superarli: essere cioè adattiva o disadattiva, ed è qui che si complica il discorso.
L’ansia può diventare disadattiva quando nell’individuo la differenza tra la situazione attesa e quella da affrontare è eccessiva: quando cioè la sensibilità rispetto alle possibili fonti di pericolo è sproporzionata, e attiva una risposta emotiva paralizzante. È però opportuno evitare di considerare l’ansia per gli effetti del cambiamento climatico una patologia in sé, secondo Clayton, perché questo approccio potrebbe portare a una sottovalutazione del problema più ampio e collettivo del cambiamento climatico: mitigarne gli effetti potrebbe infatti includere azioni urgenti mediate proprio dall’ansia, purché quell’ansia sia funzionale e adattiva.
Di fatto si parla di ecoansia quando l’ansia diventa un fenomeno clinicamente significativo, difficile da controllare e in grado di interferire con la capacità di una persona di dormire, lavorare o socializzare. Non ha una distribuzione uniforme, ma tende a essere più diffusa tra persone che per ragioni professionali o di altro tipo si occupano di questioni ambientali e altre che hanno esperienza diretta delle conseguenze di eventi meteorologici estremi associati al cambiamento climatico. La sensibilità all’ecoansia varia anche a seconda della personalità, secondo alcune ricerche citate da Clayton che suggeriscono una correlazione con le nevrosi e con altre vulnerabilità a particolari disturbi psichiatrici.
All’interno dei diversi gruppi più interessati dal fenomeno, l’ecoansia è diffusa in particolare tra le fasce più giovani della popolazione. Nel 2021 la rivista scientifica Lancet pubblicò uno dei più ampi studi di sempre sulla diffusione dell’ecoansia nella popolazione mondiale giovanile, condotto su un campione di 10mila persone di età compresa tra 16 e 25 anni in dieci paesi (Australia, Brasile, Finlandia, Francia, India, Nigeria, Filippine, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti). Ai partecipanti fu chiesto di esprimere attraverso un questionario idee e sentimenti riguardo al cambiamento climatico e alle risposte dei governi al cambiamento climatico. Il 59 per cento si definì «molto o estremamente preoccupato» e l’84 per cento almeno «moderatamente preoccupato».
Oltre il 50 per cento dei partecipanti espresse sentimenti di tristezza, ansia, rabbia, impotenza, debolezza e senso di colpa, e più del 45 per cento disse di provare riguardo al cambiamento climatico sensazioni che avevano influenzato negativamente la vita quotidiana. In questo sottogruppo il 75 per cento disse di considerare il futuro «spaventoso» e l’83 per cento pensava che le persone avessero fallito nel prendersi cura del pianeta. I partecipanti valutarono negativamente anche le risposte dei governi al cambiamento climatico, giudicandole inadeguate e ingannevoli.
«Sono cresciuta con la paura di annegare nella mia camera da letto», disse Mitzi Tan, un’attivista ventitreenne delle Filippine, in un comunicato stampa diffuso da una delle università che lavorarono allo studio. «La società mi dice che questa ansia è una paura irrazionale che deve essere superata, una paura che la meditazione e opportune strategie di adattamento possono “risolvere”. Ma alla sua radice la nostra ecoansia deriva da una profonda sensazione di tradimento dovuta all’inazione del governo», aggiunse Tan.
Esperienze simili a quelle vissute da Tan sono spesso presentate nel dibattito sul cambiamento climatico sia come testimonianze delle possibili conseguenze del riscaldamento globale sul piano geofisico (sebbene accertare rapporti di causa-effetto con specifici eventi meteorologici richieda particolare cautela), sia come prove dirette degli effetti psichici e sociali dei disastri ambientali. «Tutta la terra della mia famiglia è stata sepolta dall’acqua. Non soffro di ecoansia, che è una paura razionale, ma di disturbo da stress post-traumatico, dopo aver perso quattro cugini nelle recenti alluvioni. È di questo tipo di sofferenza che stiamo parlando», disse a El País a novembre 2022 l’attivista ambientalista pakistana Ayisha Siddiqa, invitata alla conferenza sul clima a Sharm el Sheikh, in Egitto.
Nei primi anni Duemila, prima che l’ecoansia emergesse come parola più utilizzata per descrivere la paura e il disagio associati al pensiero ricorrente di possibili disastri ambientali futuri, il filosofo australiano ed esperto di sostenibilità ambientale Glenn Albrecht aveva coniato la parola “solastalgia” per descrivere una sensazione in parte simile all’ecoansia. Formata dall’unione della parola latina sōlācium (“conforto”) e della radice greca -algia (“dolore, sofferenza”), indica il senso di disagio emotivo o esistenziale dovuto a un cambiamento distruttivo in atto di un ambiente familiare, per effetto di un’azione umana diretta.
Albrecht coniò questa parola dopo aver osservato e intervistato oltre 50 residenti della regione della Hunter Valley, a nord di Sydney, preoccupati per le conseguenze visibili e invisibili dell’intesa attività mineraria in tutta la zona. Mentre la nostalgia è la sensazione che si prova quando ci si trova lontano dalla propria casa, scrisse Albrecht, la solastalgia è il disagio causato dalla distruzione umana di un ambiente, provato dalle persone che sono ancora in quell’ambiente e per cui quell’ambiente è familiare e domestico.
In un articolo pubblicato a giugno sulla rivista Yale Journal of Biology and Medicine un gruppo di ricercatori e ricercatrici in psichiatria, neuroscienze e antropologia, alcuni dei quali dell’università La Sapienza e dell’università Cattolica di Roma, ha scritto che l’attuale fase di instabilità e trasformazione del clima sta generando «una condizione psicologica di “insicurezza sistemica” e un sentimento condiviso di incertezza», che mette in discussione «il rapporto degli esseri umani con la natura e il significato dell’essere umano nell’Antropocene». In questa situazione caotica, ha aggiunto il gruppo, le risposte emotive problematiche derivano quindi non soltanto «dall’esperienza della perdita ecologica in sé», ma anche dalla difficoltà di vivere con la consapevolezza della scala mondiale e della complessità del fenomeno.
A fronte di questa situazione sta emergendo anche la necessità di nuove categorie psicologiche, prosegue l’articolo, e di nuovi strumenti di valutazione che siano più utili sia nella ricerca che nell’attività clinica. Il New York Times ha recentemente scritto delle difficoltà di molti psicoterapeuti che si sentono impreparati nel curare pazienti che presentano sintomi riconducibili all’ecoansia. Fino a una decina di anni fa, ha detto Andrew Bryant, un terapista di Seattle, il cambiamento climatico emergeva a volte durante le sedute ma quasi sempre nell’ambito di altri problemi individuali o di coppia, come per esempio i litigi tra coppie incapaci di decidere se fosse ancora etico avere figli o no.
La situazione è progressivamente cambiata man mano che gli incendi in Canada e in California hanno cominciato a provocare danni fisici e psicologici, diretti e indiretti, a parti sempre più estese della popolazione. A volte, a causa del fumo, alle persone veniva consigliato di tenere le finestre chiuse e non fare esercizio all’aperto per settimane. Molte di loro, soprattutto attivisti e scienziati, hanno cominciato a chiedere aiuto agli psicoterapeuti e a descrivere durante le sedute il cambiamento climatico come una nuova realtà disorientante e spaventosa, rispetto alla quale provavano sentimenti di impotenza, rabbia, tristezza e senso di colpa.
Bryant ha detto che la sua formazione clinica, per esempio, includeva molte conoscenze nell’ambito della terapia familiare e dell’abuso di sostanze, ma nessuna indicazione su come curare pazienti la cui salute mentale sia compromessa per effetto della crisi climatica. Altri psicoterapeuti e altre reti di specialisti da lui contattati erano nelle stesse condizioni. Uno dei principali limiti dell’approccio psicoterapeutico tradizionale rispetto all’ecoansia, ha detto Bryant al New York Times, semplificando molto, è che cerca di «aggiustare l’individuo»: tratta i pazienti come entità separate che lavorano sulla loro crescita personale.
Il cambiamento climatico, al contrario, è andato via via definendosi come un problema che riguarda tutta la specie umana: «un promemoria continuo di quanto siamo tutti profondamente integrati in sistemi complessi – atmosferici, biosferici, economici – che sono molto più grandi di noi», ha scritto il New York Times. Da questo punto di vista può essere visto, secondo Bryant, anche come un’opportunità per sostituire vecchi paradigmi terapeutici limitati con approcci e strumenti di valutazione più efficaci.
Nell’approccio tradizionale, come scritto anche da Clayton, l’obiettivo della cura dei disturbi d’ansia è in molti casi aiutare il o la paziente a capire quanto la sua ansia sia proporzionata rispetto alla realtà affrontata. Ma l’ecoansia è un problema diverso, ha detto al New York Times Rebecca Weston, un’assistente sociale che lavora a New York, perché le persone preoccupate per il cambiamento climatico spesso vivono un’esperienza che ha motivazioni opposte rispetto al classico disturbo d’ansia. Le loro preoccupazioni non sono infondate: sono razionali e basate sull’evidenza scientifica, ma questa reazione emotiva provoca isolamento e frustrazione perché avviene all’interno di una società che tende a rimuovere quelle preoccupazioni.
Diversi specialisti concordano sul fatto che l’ansia sia una risposta inevitabile e persino salutare, in una certa misura, a fronte del rischio esistenziale posto dal cambiamento climatico per gli esseri umani e per le altre specie viventi. «Non sono le persone ecoansiose a dover essere curate, ma il cambiamento climatico a essere contrastato», disse ad aprile al quotidiano Le Monde la psichiatra infantile Laelia Benoit, ricercatrice franco-brasiliana della Yale University e dell’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica francese (INSERM), che si è occupata dell’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute mentale di bambini e adolescenti.
Medicalizzare l’ecoansia cercando un rimedio o addirittura una cura, secondo Benoit, rischia di rendere individuale un problema che invece alla sua radice è collettivo: «l’equazione in realtà è abbastanza semplice: nessun cambiamento climatico, nessuna ecoansia». Escludendo i bambini che provengono da contesti estremamente svantaggiati e non hanno idea del cambiamento climatico, disse Benoit, tutti i bambini e gli adolescenti si preoccupano una volta che apprendono del problema, perlopiù a scuola. Ma l’ansia non è la loro unica reazione: vogliono trovare soluzioni e sono spesso felici di essere coinvolti in attività di responsabilizzazione, perché ciascuno di loro desidera fare la propria parte.
Discutere con bambini e adolescenti di cosa gli adulti stiano facendo per mitigare il cambiamento climatico, secondo Benoit, può fornire rassicurazione e ispirare comportamenti prosociali e investimenti emotivi appropriati e proporzionati rispetto al problema collettivo che bisogna affrontare. Per questa ragione sminuire le preoccupazioni dei giovani riguardo al cambiamento climatico è un comportamento generalmente sconsigliato dagli specialisti, che considerano il dialogo intergenerazionale e il sostegno da parte degli adulti un modo migliore per ridurre l’ecoansia.
«Molti bambini sono colpiti dalle informazioni che ricevono dai media e dalle scuole, ma anche dai commenti che pensiamo che non ascoltino», disse al País la psicologa infantile spagnola Nuria Casanovas, che ha avuto in cura 12 bambini turbati da pensieri riconducibili all’ecoansia. Per quanto critica possa essere una situazione, secondo Casanovas, è necessario fare attenzione a non incentivare in bambini e adolescenti sentimenti di impotenza e frustrazione, e fornire loro modelli di comportamento e tecniche di autocontrollo in grado di favorire lo sviluppo della loro intelligenza emotiva.
Riguardo all’ecoansia diffusa tra gli attivisti per l’ambiente le organizzazioni non governative dispongono solitamente di terapisti a disposizione del personale in qualsiasi momento, tutti i giorni dell’anno. Proprio per la natura del loro lavoro – sensibilizzare un’opinione pubblica il più delle volte insensibile – molte ONG sono già da anni attrezzate per cercare di prevenire l’ecoansia tra i dipendenti più giovani ed evitare che diventi ingestibile e determini successivi lunghi congedi per malattia.
La maggior parte degli attivisti è composta da persone giovani, che di fronte alla mancanza di risultati e di risposte da parte dei governi possono provare frustrazione e senso di colpa per non aver fatto abbastanza, e sono inclini ad assumersi la responsabilità dell’inazione collettiva. Come disse al País l’attivista spagnolo Pablo Chamorro, laureato in scienze ambientali all’Università autonoma di Madrid e responsabile dei gruppi di gestione emotiva per Greenpeace in Spagna, uno dei modi per rendere sopportabili i sentimenti di frustrazione è condividerli con colleghi e colleghe, pensarci sopra e cercare di relativizzare gli eventi, comprendendo che l’azione individuale è sufficiente e preziosa.