Come le cucine a vista hanno cambiato i ristoranti
Assecondano l'esibizionismo degli chef e garantiscono trasparenza e convivialità, ma si portano dietro anche nuovi problemi
Negli ultimi anni le cucine a vista – dette anche open kitchen, visibili dal bancone o dalla sala dove mangiano i clienti – sono sempre più presenti nei ristoranti: in alcuni casi si tratta semplicemente di una moda, in altri è una scelta consapevole di trasparenza o apertura. Comunque sia, la loro diffusione riflette una nuova idea di convivialità e ha cambiato le regole su come si lavora nei ristoranti, il modo in cui si progettano e i motivi per cui ci si va.
Le cucine a vista, in realtà, sono sempre esistite in alcuni tipi di locale, perlomeno in alcune parti del mondo. Per esempio, nei diner americani i clienti si siedono al bancone che dà sulla cucina, dove si preparano hamburger e patatine fritte e altri piatti semplici ed economici. Oppure in molti locali orientali che prevedono piatti espressi, come la cucina giapponese teppanyaki, dove lo chef griglia e serve sul momento, oppure ancora nei locali che servono il sushi, assemblato pochi secondi prima di essere servito. Nei fast food il cibo viene spesso preparato a vista per rassicurare i clienti sulla freschezza degli ingredienti e sul rispetto degli standard sanitari. In Italia, poi, ci sono molti locali con le griglie a vista o all’aperto, mentre nelle pizzerie gli impasti sono fatti volteggiare e infornati sotto gli occhi di tutti.
Invece le trattorie e i ristoranti occidentali di livello medio e alto – legati alle preparazioni lunghe ed elaborate della tradizione francese e italiana – hanno sempre avuto una separazione rigida tra la cucina, dove i piatti vengono preparati, e la sala, dove il personale di servizio li porta a tavola, magari sotto una cloche sollevata solo davanti al cliente.
La moda recente delle cucine a vista riguarda, quindi, questo tipo di locale. Secondo il sito Eater è legata non tanto a esigenze di spazio, praticità o trasparenza, ma a una nuova idea della figura dello chef. Negli Stati Uniti la prima cucina a vista di questo tipo fu quella del ristorante Spago, che aprì nel 1982 a Hollywood, in California: «il modo in cui era concepito, con le cucine aperte che mostravano lo chef Wolfgang Puck e la sua squadra mentre grigliavano tonno fresco o saltavano in padella funghi champignon, era metà del motivo per cui ci andavi», spiega Eater. Il ristorante venne progettato da Barbara Lazaroff, ora ex moglie di Puck, che fino a quel momento si era occupata di set teatrali e di illuminazione: l’obiettivo era esaltare la bravura e la personalità istrionica di Puck e dei suoi cuochi e stupire i clienti, trasformando l’atto di cucinare in uno spettacolo, come accade quotidianamente oggi nei programmi televisivi o su TikTok.
Roberta Abate – che ha diretto il sito gastronomico Munchies Italia e ha fondato, con Victoria Small, la newsletter e il progetto di consulenza per la ristorazione Commestibile – è d’accordo con l’idea che il successo delle cucine a vista sia legato all’esibizionismo degli chef.
«Ho iniziato a scrivere di cibo 10 anni fa, quando in Italia le cucine a vista erano sentite come una grande novità», ricorda. Il loro successo «è coinciso negli anni Dieci con l’apertura del mondo della cucina alle masse, per esempio quando Carlo Cracco è andato a Masterchef. Prima il maître [il responsabile della sala, ndr] era il protagonista della cena dal punto di vista del cliente, ora lo è lo chef, che si è messo al centro della narrazione legata al cibo».
Le open kitchen sono anche un «modo di fare intrattenimento», aggiunge. Al bancone da cui si vede la cucina si siedono spesso «persone sole, coppie e clienti che non vanno al ristorante per la socialità ma che vogliono essere intrattenuti: da lì puoi vedere come si impiatta, gli ingredienti scelti, come ci si parla». Grazie ai programmi tv e ai video di cibo sui social, infatti, sempre più persone conoscono e sono interessate alla preparazione dei piatti in sé: non si va più al ristorante solo per festeggiare un’occasione o per incontrarsi ma anche per imparare e per osservare dal vivo quello che si guarda abitualmente sullo schermo.
Abate racconta che, nella sua esperienza di consulenza, quando la cucina a vista è richiesta dagli chef è per una «questione di ego». Quando invece lo è dagli imprenditori è perché vogliono «replicare il design o il concetto di cultura conviviale di altri posti». La cucina a vista, infatti, ha «vantaggi enormi e indiscussi», spiega lo chef Francesco de Francesco, che da anni fa consulenza ai ristoratori. «Fa marketing» perché «vedere un cuoco cucinare fa venire fame», e poi anche «nelle foto tutto rende di più». Di contro però «deve essere pulitissima», «devi imparare a cucinare senza sporcarti» o avere delle giacche di riserva (cosa che fa aumentare i costi perché servono più divise e bisogna lavarle più spesso). Costringe a lavorare in modo diverso, dando meno in escandescenze, rivolgendosi in modo più educato ai colleghi e trasmettendo meno stress, che sarebbe negativo anche per i clienti. Può anche comportare delle difficoltà con gli spazi perché «deve essere ariosa», e la zona dove si lavano i piatti andrebbe nascosta.
Progettare una open kitchen è quindi «più complesso, ci sono molti tecnicismi dietro perché devi creare un ambiente che sia perfetto e che non dia fastidio al cliente», conferma Nicolò Spina di oooh_studio, che ha progettato molti ristoranti di Milano con cucina a vista, tra cui Frangente, l’Osteria alla Concorrenza e il giapponese Masayume. «È una stanza in più che va progettata perché la vedi: deve essere ergonomica, rispondere alle esigenze dello chef e anche esteticamente bella». «È come una giacca fatta su misura», dice Spina.
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In tempi recenti la cucina a vista viene scelta anche per sovvertire le regole restrittive della ristorazione tradizionale, costruire un senso di comunità con i propri clienti e normalizzare il gesto del cucinare.
«Io lavoro solo in cucine aperte: per come sono cresciuto io professionalmente è fondamentale avere un dialogo con i colleghi di sala e sentire le persone: ho imparato così e non sono capace di lavorare alla cieca» spiega per esempio Tommaso Melilli, uno chef di 33 anni che fa parte di quella generazione che ha iniziato questa carriera più per scelta consapevole e per passione che per necessità legata alla situazione economica e familiare di partenza. Nel ristorante che ha da poco aperto a Milano, Gloria, «non c’è una cucina a vista per ragioni strutturali, era difficile abbattere i muri. Però si può mangiare al bancone e abbiamo aperto una porta della cucina che è separata dal resto della sala da un carrello: io sto dietro, appoggio la roba e da lì ho modo di guardare la sala. È un compromesso per facilitare il lavoro e anche una questione di contatto, che per me è sempre stato fondamentale».
Questa apertura alla sala non è senza conseguenze. Melilli racconta che a una volta, a Roma, un cliente entrò arrabbiato in cucina per lamentarsi che gli erano state servite poche bruschette. Un’altra volta a Parigi, in una cucina con una finestrella che dava su un tavolo, «ero là che stavo tirando fuori dalla padella un pezzo di carne incandescente, incrocio lo sguardo dei clienti al tavolo sotto e penso: guarda che bello, staranno sognanti a guardarmi. Invece mi chiedono un altro cestino di pane mentre io sono lì, con un’anatra in mano per aria».
Guglielmo Fedele lavora come chef da quattro anni da Tipografia Alimentare, un locale milanese aperto nel 2018 che ha la cucina visibile sia dalla sala attraverso una porta sia dalla strada, dove si affaccia con un finestrone. Anche lui trova l’esperienza positiva: è vero che «ogni tanto un po’ di privacy non sarebbe male» e che «dobbiamo stare più attenti a lavorare in modo preciso e pulito» ma «hai più contatto con i clienti, riesci a vedere come sta andando in sala, a volte alla cassa ci ringraziano: non stai in un loculo bianco senza finestre con le luci a neon. In più avendo la vetrata sulla strada vedi anche la gente che passa e ti sembra di lavorare in uno spazio all’aperto: a volte si affacciano i bambini con i genitori, tu ci scherzi, ti fa anche staccare un po’».
Fedele aggiunge che «guardare la sala alleggerisce il lavoro, capita che facciamo pettegolezzi su chi viene; certo se ti accorgi che qualcuno non mangia un piatto ti dà delle preoccupazioni in più. Comunque vederci cucinare è anche un biglietto da visita: è una finestra di studio su noi e sugli altri».
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La cucina a vista della Tipografia Alimentare risponde a una volontà di trasparenza che è, insieme all’esibizionismo degli chef, un’altra ragione importante per cui spesso viene scelta. Per questo, spiega sempre Fedele, «il sistema di lavaggio si può vedere, non nascondiamo niente: se facciamo i colli di pollo ripieni li appendiamo in vetrina anche se sono un po’ macabri e qualcuno si spaventa, così come si vede il ragazzo che lava i piatti. Più si vede meglio è».
Carla De Girolamo, che ha aperto il locale nel 2018 insieme alla figlia Martina Laura Miccione, racconta che «il periodo del Covid è stato più complicato, tutti erano più attenti, non potevamo mai stare un attimo senza guanti, ma in generale non abbiamo mai avuto problemi coi clienti», anche grazie all’atmosfera rilassata e familiare. «Una volta c’erano due signori anziani che bevevano il caffè e guardavano la cucina; il nostro cuoco infila il dito nel sugo e lo assaggia, la signora lo vede e dice “bravo meno male bisogna sempre assaggiarle le cose anche io faccio sempre così”; io ho tirato un sospiro di sollievo».
Per tutte queste ragioni, è probabile che le cucine a vista continueranno a essere scelte nei ristoranti più piccoli, curati e attenti alla cucina. «Oggi», spiega Melilli, «ci sono due forme predominanti di ristorazione: i posti grandi e alienati, dove il cameriere prende le ordinazioni con i tablet e non vedi chi sta in cucina, nella maggior parte dei casi persone non europee che non si vogliono mostrare, e poi i nostri posti piccoli, spesso con un qualche tipo di cucina aperta». Anche secondo Abate la cucina a vista è una garanzia: «non credo vedrai mai un ristorante mediocre con cucina a vista. Il ristorante mediocre lesina sul cibo e su chi assume in cucina: se non c’è uno chef professionista te ne accorgi, così come se non hai una brigata fissa ma tanti che coprono i turni. Soltanto chi vuole investire su una cucina di forte impatto sceglie di aprirla».