Com’è cambiata la vita in Israele con l’inizio della guerra
Le città vicino alla Striscia sono quasi disabitate, le università sono ferme, c'è molta insicurezza ed è aumentata la vendita di armi
Dagli attacchi di Hamas in Israele è passato poco più di un mese, ma il trauma per quello che è successo, senza precedenti nella storia israeliana, sta continuando a produrre conseguenze rilevanti: una delle più raccontate dai giornali locali è un diffuso senso di insicurezza dovuto alla scarsa fiducia sia verso il governo di Benjamin Netanyahu, già molto contestato prima degli attacchi, sia verso l’intelligence e l’esercito, accusati di essere stati presi completamente alla sprovvista e di non avere avuto avvisaglie dell’attacco.
La guerra in corso sta avendo anche effetti diretti sulla vita quotidiana di molti israeliani, amplificati dall’incertezza sugli esiti e la durata del conflitto. Nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas, in Israele sono state chiuse scuole, ristoranti, centri commerciali e locali. I dipendenti di aziende e uffici hanno lavorato quando possibile a distanza, è stato registrato un aumento delle vendite nei supermercati, soprattutto di cibo, mentre le città sono rimaste per lo più deserte, come ai tempi della pandemia.
Oggi Israele sta provando a tornare alla normalità, con alcune complicazioni, tra cui il fatto che circa il 5 per cento della popolazione ha abbandonato studi e lavoro per rispondere alla chiamata dell’esercito (soprattutto persone fra i 21 e i 40 anni).
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Dalla fine di ottobre le scuole sono ricominciate in presenza: sono state riaperte a condizione che fosse disponibile nelle vicinanze un rifugio contro razzi e missili. Alcune, parte di quelle senza rifugi, stanno andando avanti con la didattica a distanza, mentre sono rimaste chiuse quelle nelle aree vicino alla Striscia di Gaza e al Libano. Le chiamate dei riservisti hanno ridotto anche il corpo docente, con vari problemi organizzativi e orari ridotti per alcuni studenti.
Le università invece sono rimaste per lo più senza studenti: quasi tutti gli israeliani di quella fascia d’età non di etnia araba sono stati chiamati dall’esercito. Le lezioni non sono ripartite nemmeno per il 20 per cento di arabi israeliani: l’inizio dell’anno accademico è stato per ora posticipato al 3 dicembre, con l’idea di prolungarlo in estate.
La maggior parte di ristoranti e locali ha riaperto, soprattutto a Tel Aviv. Anche nello Shuk, il grande mercato di Gerusalemme, la vita notturna sta tornado gradualmente alla normalità. Dopo alcune settimane di chiusura, alcuni locali stanno riaprendo, anche se la musica normalmente ad alto volume per il momento è tenuta in sottofondo, per «creare ambiente».
L’edilizia sta incontrando molte difficoltà per la chiusura dei confini con Gaza e la Cisgiordania, visto che una buona parte dei 150mila permessi di lavoro concessi ai cittadini palestinesi riguardava questo settore. L’assenza di molti immigrati asiatici, che sono rientrati nei rispettivi paesi nei giorni successivi agli attacchi, si è fatta sentire soprattutto nelle campagne, dove la molta manodopera mancante è stata sostituita da volontari provenienti dalle città.
Nei posti più turistici gli effetti della guerra sono stati particolarmente evidenti. A un mese dagli attacchi la città vecchia di Gerusalemme, normalmente affollata di visitatori da tutto il mondo, è ancora quasi totalmente vuota. I viaggi, i voli e i tour guidati sono stati cancellati, la maggior parte dei negozi legati al turismo è ancora chiusa e le strade sono pressoché deserte.
Dopo gli attacchi sono stati evacuati dalle zone vicino al confine con la Striscia di Gaza e con il Libano oltre 200mila israeliani. La città di Sderot (che aveva 35mila abitanti) e le piccole comunità vicino a Ashkelon sono oggi quasi totalmente disabitate, mentre altre località hanno il problema opposto: a Eliat, sul Mar Rosso, sono arrivati oltre 60mila profughi, gli hotel dell’area sono pieni e le scuole si sono dovute organizzare su doppi turni per accogliere tutti i bambini. A Gerusalemme sono arrivate 25mila persone, di cui 7mila dal confine con il Libano: la città ha allestito una serie di misure di aiuto per le famiglie sfollate, fra cui un database di babysitter volontari.
Anche chi è rimasto nella propria casa ha spesso cambiato le proprie abitudini: i giornali israeliani raccontano molte storie di cittadini traumatizzati che hanno problemi a uscire dalle proprie abitazioni o che dormono nelle safe room, le stanze di sicurezza.
L’effetto più visibile è però un’aumentata diffusione delle armi da fuoco, che sempre più israeliani portano con sé come strumento di difesa: sono molto diffuse le pistole, ma si vedono anche fucili semiautomatici. Secondo i dati del ministero di Sicurezza nazionale di Israele, dal 7 ottobre sono state richieste 120mila licenze di porto d’armi: sono tante quante ne erano state richieste nei due anni precedenti. I poligoni di tiro sono particolarmente affollati e in varie città gruppi di vicini si sono organizzati in squadre armate di risposta d’emergenza in caso di attacco terroristico.
Il senso di insicurezza ha reso anche più complessa la convivenza con le minoranze arabe all’interno del paese. Lo storico e scrittore israeliano Gideon Avital-Eppstein ha detto al quotidiano spagnolo El Pais: «La maggioranza degli israeliani oggi vive una dissonanza cognitiva: fino a poco tempo fa erano convinti che ci fosse qualcosa di simile alla pace e che stesse funzionando».