I maschi vivono meno a lungo nei posti dove devono dimostrare la propria mascolinità
Una ricerca condotta in 62 paesi ha mostrato una correlazione significativa tra gli stereotipi sulla virilità e i comportamenti rischiosi
La relazione tra gli stereotipi di genere nei gruppi maschili e le pressioni sociali e culturali a riflettere quegli stereotipi mostrando aggressività, tenacia e coraggio nei comportamenti e negli atteggiamenti è da diversi anni oggetto di studi interdisciplinari, noti nel contesto anglosassone come men’s studies. In questo ambito di studi la mascolinità è descritta come un attributo da dimostrare, precario perché costantemente esposto all’approvazione del gruppo e al rischio dello smascheramento e del fallimento: non essere all’altezza del ruolo di genere, non essere un “vero uomo”.
Una ricerca di psicologia condotta in 62 paesi e pubblicata sulla rivista scientifica Psychology of Men & Masculinities ha approfondito le implicazioni della diffusione dello stereotipo culturale della «mascolinità precaria» per la salute degli uomini. I risultati indicano che nei paesi in cui lo stereotipo è più presente gli uomini hanno tendenzialmente un’aspettativa di vita inferiore rispetto a quelli che vivono in paesi in cui lo stereotipo è meno sostenuto. Hanno inoltre più spesso abitudini dannose e comportamenti rischiosi (fumo, abuso di alcol, contatto con animali velenosi e disturbi legati all’uso di sostanze) e condizioni correlate a quei rischi (tra cui cancro ai polmoni, mortalità per cirrosi epatica, annegamento, lesioni e incidenti su mezzi di trasporto).
«I paesi che considerano la mascolinità più precaria probabilmente esercitano una maggiore pressione sugli uomini affinché sostengano le norme di genere maschile sulla tenacia e sul coraggio attraverso attività abituali di assunzione di rischi, esecuzione di lavori pericolosi e minori comportamenti di prevenzione e promozione della salute», hanno scritto i ricercatori e le ricercatrici. Le relazioni tra gli stereotipi di genere, i comportamenti e le condizioni di salute degli uomini sono emerse anche quando i risultati venivano ponderati in rapporto agli indicatori di sviluppo e di uguaglianza di genere in ciascuno dei paesi presi in considerazione.
La ricerca è stata principalmente condotta da un gruppo del dipartimento di psicologia della University of South Florida, guidato dal ricercatore Joseph A. Vandello e dalla ricercatrice Jennifer K. Bosson. Furono loro a coniare l’espressione «mascolinità precaria» in uno studio del 2011 per descrivere la natura «sfuggente» della mascolinità. Secondo Vandello e Bosson, qualunque sia il modo di definirla in ogni specifica cultura, la mascolinità è uno status che richiede continue dimostrazioni attraverso azioni e manifestazioni di aggressività e dominio.
È una condizione «precaria» perché è difficile da raggiungere e facile da perdere, specialmente se l’uomo non riesce a superare le varie difficoltà che affronta nel corso della vita, che siano prove di coraggio fisico o competizioni con altri uomini per il riconoscimento della mascolinità. Da questa prospettiva il comportamento eroico e temerario è quindi visto come un’opportunità di mettere in mostra le capacità necessarie per respingere qualsiasi affronto al proprio status di “vero uomo”.
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Per la ricerca pubblicata su Psychology of Men & Masculinities il gruppo guidato da Vandello e Bosson ha posto a 33.417 studenti universitari di 62 paesi diversi una serie di domande sui loro comportamenti e le loro convinzioni relative ai pregiudizi di genere. I dati raccolti risalgono a un periodo compreso tra gennaio 2018 e febbraio 2020. Gli studenti potevano indicare quanto fossero d’accordo con quattro diverse affermazioni: «La gente si chiede spesso se un uomo è un “vero uomo”», «Alcuni ragazzi non diventano mai uomini, indipendentemente dalla loro età», «È abbastanza facile per un uomo perdere il suo status di uomo», «La mascolinità non è assicurata: può essere perduta».
Sulla base delle risposte il gruppo di ricerca ha stimato il livello di convinzione collettiva riguardo alla mascolinità precaria per ciascuno dei 62 paesi. Albania, Iran, Nigeria, Ucraina, Kazakistan e Ghana sono risultati i paesi con i livelli più alti, mentre Finlandia, Spagna, Germania, Svizzera, Norvegia e Svezia quelli con i livelli più bassi. In Italia – che costituisce il campione più numeroso di intervistati (2.419) insieme a Belgio, Germania, Turchia, Spagna e Brasile – il livello di convinzione sulla mascolinità precaria è risultato nella media dei 62 paesi.
Il gruppo ha quindi cercato di capire se i livelli di convinzione nei paesi fossero associati a comportamenti pericolosi, tra quelli di cui aveva a disposizione registri storici significativi: fumo, abuso di alcol, contatto con animali velenosi e disturbi legati all’uso di sostanze. Seguendo questo stesso metodo, ha controllato anche eventuali correlazioni tra mascolinità precaria e variazioni nelle conseguenze sanitarie dei comportamenti rischiosi per la salute: cancro ai polmoni, mortalità per cirrosi epatica, annegamento, morte causata da animali velenosi, morte per lesioni, morte per incidenti su mezzi di trasporto, infezioni da Covid e morti per infezioni da Covid.
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Nei paesi con convinzioni più estese e radicate sulla mascolinità precaria c’era una maggiore tendenza ad assumere comportamenti pericolosi e a soffrire di condizioni di salute correlate ai comportamenti pericolosi. A partire da queste due correlazioni il gruppo di ricerca si è poi chiesto se quelle convinzioni fossero legate anche a una ridotta aspettativa di vita maschile, e ha riscontrato una correlazione ancora più forte. Con qualche eccezione – tra cui il Giappone, in cui l’aspettativa di vita è alta e lo stereotipo della mascolinità è condiviso – la diffusione dello stereotipo della mascolinità precaria ha una forte correlazione negativa con l’aspettativa di vita maschile in generale e con l’aspettativa di vita maschile in buona salute.
Nei paesi con livelli di convinzione superiori alla media (di un certo valore standard) gli uomini vivono in media 6,69 anni in meno e 6,17 anni in buona salute in meno. Per provare la solidità delle correlazioni il gruppo di ricerca ha controllato l’influenza di possibili fattori confondenti come il numero di medici ogni mille persone, l’indice di sviluppo umano (HDI, un indicatore statistico multifattoriale che considera aspettativa di vita, istruzione e reddito pro capite) e l’uguaglianza di genere secondo i dati del Global Green Growth Institute (GGGI, un’organizzazione internazionale che promuove una crescita economica inclusiva e sostenibile nei paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti). In tutti i casi i risultati non sono cambiati in modo significativo quando si controllava una qualsiasi di queste variabili contestuali legate alle risorse e all’uguaglianza di genere in ciascun paese.
La precarietà della mascolinità è una convinzione ampiamente diffusa in tutto il mondo, ha concluso il gruppo di ricerca: «Se gli abitanti di un paese sostengono questa convinzione in generale, possono esercitare pressioni sociali su ragazzi e uomini affinché dimostrino e difendano la loro mascolinità davanti alle altre persone». In culture che sostengono questo stereotipo gli uomini possono quindi «imparare a mettere in atto comportamenti rischiosi che hanno conseguenze a breve e lungo termine per la loro salute». Definendolo il risultato più potente emerso dalla ricerca, gli autori e le autrici hanno infine ribadito che il livello di approvazione della convinzione che la mascolinità sia uno status precario «prevede in modo univoco e forte quanto tempo gli uomini vivranno in quel paese e quanto in buona salute».
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L’aggressività è da tempo descritta in molti studi come un tratto interculturale associato agli stereotipi di genere maschile e in grado di determinare comportamenti pericolosi per sé e per le altre persone. Secondo una citata meta-analisi dello psicologo inglese John Archer, sebbene ci siano alcune prove di una possibile maggiore inclinazione femminile verso forme di aggressione indiretta come l’esclusione sociale, esiste una differenza di genere profonda – e coerente tra le culture – nella tendenza alle aggressioni fisiche violente che possono provocare dolore o lesioni ad altre persone.
Gli uomini commettono oltre l’85 per cento di tutti gli omicidi, il 91 per cento di quelli tra persone dello stesso genere e oltre il 97 per cento di quelli tra persone dello stesso genere non imparentate tra loro. E la comprensione di queste differenze di genere nell’aggressività umana, come sostenuto dal sociopsicologo statunitense Francis T. McAndrew in uno studio del 2009, richiede una comprensione delle numerose e complesse interazioni tra predisposizioni evolutive, influenze ormonali e fattori sociali e culturali.
La promozione culturale consapevole o inconsapevole dello stereotipo della mascolinità precaria contribuisce inoltre a definire un ambiente ulteriormente penalizzante per le donne. Educando gli uomini a essere «uomini duri», come scritto dalla sociologa Graziella Priulla nel libro La libertà difficile delle donne, diamo della virilità una definizione molto ristretta e insegniamo agli uomini ad «avere paura della paura, della debolezza, della vulnerabilità». E più un uomo si sente costretto a essere duro, più la sua autostima sarà fragile: condizione che si riflette in un torto ben più grave alle donne, a loro volta educate a prendersi cura dell’ego fragile degli uomini.