Nell’accordo fra Italia e Albania sui migranti ci sono molte cose che non tornano
Fra problemi logistici e norme probabilmente incostituzionali, il governo deve ancora chiarire molti punti
Lunedì la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama hanno firmato un accordo di collaborazione fra Italia e Albania per la gestione di alcuni migranti soccorsi nel Mediterraneo. L’accordo non era stato anticipato né ai giornali né, a quanto sembra, all’Unione Europea. Finora nessun paese dell’Unione ha stretto un accordo simile per esternalizzare, di fatto, la gestione dei richiedenti asilo che sbarcano nei propri porti.
Meloni e Rama hanno detto di averci lavorato per mesi, ma il testo sembra avere diversi punti che andranno chiariti nelle prossime settimane, come lasciato intendere dai funzionari di Palazzo Chigi contattati dal Post. In compenso, anche sulla base di quello che sappiamo al momento, l’accordo contiene diversi aspetti potenzialmente problematici: sia dal punto di vista logistico, sia del rispetto del diritto internazionale e delle leggi italiane ed europee in materia di immigrazione.
Il contenuto dell’accordo, in breve
L’Albania metterà a disposizione dell’Italia due aree del proprio territorio per la realizzazione di due centri per migranti. Secondo Meloni le strutture saranno realizzate e gestite dall’Italia, a proprie spese e sotto la propria giurisdizione.
Le due strutture potranno accogliere in tutto fino a un massimo di tremila persone contemporaneamente. Tra queste non potranno esserci minori, donne incinte e altre persone considerate vulnerabili, ha detto Meloni: di conseguenza dopo una operazione in mare le navi italiane dovrebbero sbarcare una parte delle persone soccorse in Italia – minori, donne incinte, e persone vulnerabili – e poi portare le altre in Albania.
Una delle due strutture verrà realizzata nei dintorni del porto di Shengjin, circa 70 chilometri a nord di Tirana, la capitale albanese. Qui dovrebbero svolgersi le procedure di sbarco e di identificazione: la stessa area dovrebbe ospitare anche un centro per richiedenti asilo, ma a cui potranno accedere solo alcuni di loro. A Gjader, venti chilometri più a nord e nell’entroterra, verrà infatti allestita una struttura che svolgerà funzioni simili a quelle dei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR). In questo secondo centro dovrebbero andare solo le persone che a un primo esame sommario non sembrano avere i requisiti per ottenere una forma di asilo.
Nelle intenzioni del governo italiano in Albania finiranno le persone soccorse dalle autorità italiane coinvolte nel soccorso in mare: cioè essenzialmente la Guardia Costiera, la Guardia di Finanza, o la Marina Militare. Quindi non le persone soccorse dalle ong (non è chiaro esattamente il perché di questa distinzione). Il governo dice di volere aprire i due centri entro la primavera del 2024.
I problemi logistici
Non sarebbero pochi, per le autorità, le persone e le navi coinvolte.
Al momento i migranti soccorsi dalle autorità italiane vengono sbarcati nei porti italiani più vicini al Mediterraneo centrale, dove avviene la stragrande maggioranza dei soccorsi: su tutti quello di Lampedusa, e alcuni porti di Sicilia e Calabria. Imporre alla Guardia Costiera e alla Guardia di Finanza di sbarcare alcune persone a Shëngjin significa costringerle a un lungo viaggio: dalle coste meridionali della Sicilia, il porto di Shëngjin dista almeno 700 chilometri. Poco meno della distanza fra Genova, in Liguria, e Trapani, in Sicilia. Da Shëngjin poi dovrebbero fare il percorso inverso per tornare in servizio nel Mediterraneo centrale. In tutto parliamo di 3-4 giorni di navigazione fra andata e ritorno. Da Lampedusa il tragitto sarebbe ancora più lungo.
Le navi della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza che si occupano di soccorso in mare, poi, sono imbarcazioni medio-piccole, inadatte per compiere tragitti così lunghi. Sarebbero decisamente più adatte le navi della Marina militare, che già oggi fanno avanti e indietro fra Lampedusa e gli altri porti italiani per svuotare periodicamente il centro di prima accoglienza di Lampedusa.
In ogni caso, mandare le navi italiane in Albania significherebbe lasciare sguarnito il Mediterraneo centrale: sia per altre operazioni di soccorso (anche a imbarcazioni che portano migranti) sia per svuotare il centro di Lampedusa, che ha una capienza di poche centinaia di persone e in estate è quasi sempre sovraffollato.
Anche la fase successiva presenta diverse complicazioni: per compiere tutte le procedure necessarie allo sbarco ed esaminare le richieste d'asilo, l'Italia dovrà inviare decine e forse centinaia di funzionari, che inoltre dovranno collaborare in maniera molto stretta con le autorità albanesi. Sembra assai difficile mettere in piedi una struttura del genere in pochi mesi.
I molti punti problematici per il diritto
Un primo problema riguarda la procedura di sbarcare nei porti italiani soltanto alcune persone soccorse – cioè quelle in condizioni più fragili come minori, donne incinte e persone in condizioni di salute precarie – e portare altrove le altre.
A febbraio il TAR di Catania ha dichiarato illegittima una decisione del governo Meloni presa in un contesto simile. Nel novembre del 2022 il governo aveva deciso di far sbarcare dalla nave Humanity 1 della ong SOS Humanity soltanto le persone in condizioni più fragili. A bordo erano rimaste 35 persone, tutti uomini, considerate in buona salute: il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi le definì «carico residuale».
Qualche giorno dopo furono fatte scendere, ma nel frattempo SOS Humanity aveva già impugnato il decreto interministeriale che permetteva lo sbarco soltanto di alcune persone. A febbraio il Tribunale di Catania ha deciso che il decreto era stato illegittimo. In base all'appendice 2.1.10 della Convenzione di Amburgo sul soccorso in mare, entrata in vigore nel 1979 e firmata dall'Italia, le persone in difficoltà in mare vanno soccorse e portate in un porto sicuro «senza tener conto della nazionalità o dello statuto di detta persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata». Citando questa norma, il Tribunale ha stabilito che «fra gli obblighi internazionali assunti dal nostro paese vi è quello di fornire assistenza ad ogni naufrago, senza possibilità di distinguere, come sancito dal decreto ministeriale applicato nella circostanza, in base alle condizioni di salute».
Se il governo decidesse di rendere strutturale la procedura degli sbarchi selettivi in base alle condizioni di salute e al profilo dei migranti, insomma, si esporrebbe a ricorsi e annullamenti, come già avvenuto nel caso di Catania.
Anche la decisione di inviare le navi italiane in un porto così lontano potrebbe violare diverse norme del diritto internazionale che regolano il soccorso in mare e prevedono che debba concludersi nel più breve tempo ragionevolmente possibile: Shëngjin è molto lontana dal Mediterraneo centrale, e sarebbe difficile dimostrare che sia il porto sicuro più vicino e adatto per un'operazione del genere. Anche il fatto che il viaggio verso l'Albania possa durare fino a due giorni, per persone traumatizzate dalla traversata e già in condizioni estremamente precarie, potrebbe rappresentare un trattamento inumano e degradante: esplicitamente vietato dall'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU).
Una volta arrivati in Albania, inizierebbero una serie di problemi derivati dalla condizione pressoché unica di avere un centro italiano, sotto la giurisdizione italiana all'interno di un altro stato, che per di più non fa parte dell'Unione Europea.
«La possibilità di prevedere un’applicazione extraterritoriale è complessa e interesserà gli specialisti per molto tempo», ha spiegato al Manifesto Maurizio Veglio, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). «È tutto da verificare cosa debba fare l’autorità albanese per garantire che un territorio di sua giurisdizione sia espropriato e soggetto a norme italiane e Ue nei cui confronti l’Albania non ha alcun vincolo».
Di fatto non esistono precedenti per una situazione simile. Il governo italiano sta insistendo molto sul fatto che all'interno dei centri albanesi la giurisdizione sarà italiana, e che le domande d'asilo saranno valutate da commissioni italiane in base alle leggi italiane ed europee.
Questa insistenza fa pensare che l'Italia non voglia trovarsi nella stessa situazione del Regno Unito, che ormai da mesi sta cercando di esternalizzare al Ruanda la gestione di alcuni richiedenti asilo che arrivano sulle proprie coste: finora però la Corte europea per i diritti dell'uomo, che ancora oggi ha giurisdizione sul Regno Unito in quanto parte della CEDU, ha sempre annullato i trasferimenti dei richiedenti asilo. Fra le altre cose la Corte contesta al governo britannico il fatto che i richiedenti asilo trasferiti in Ruanda dovrebbero chiedere asilo in Ruanda, in base alle leggi ruandesi: di fatto quindi nei loro confronti il Regno Unito farebbe un respingimento indiscriminato, vietato da diverse norme del diritto internazionale fra cui l’articolo 33 della convenzione sullo status dei rifugiati firmata a Ginevra nel 1951, e il protocollo 4 che integra la CEDU, entrato in vigore nel 1968.
Al momento però non è chiaro esattamente dove finiranno le competenze dell'Italia e dove inizieranno quelle dell'Albania: per esempio sulla sorveglianza del centro. Meloni ha detto che le autorità albanesi si occuperanno di pattugliare l'esterno del centro, mentre al suo interno la sicurezza sarà garantita dalle autorità italiane. Ma non è difficile immaginare una sovrapposizione delle due competenze, e casi che andranno definiti di volta in volta. In caso di problemi di ordine pubblico, per esempio «un migrante arrestato comparirà davanti a un giudice italiano o albanese?», si chiede il Corriere della Sera.
Diversi altri aspetti della procedura sintetizzata da Meloni sembrano altrettanto problematici.
Meloni sostiene che una volta sbarcati in Albania i richiedenti asilo che provengono da paesi considerati "sicuri" dovrebbero finire in centri appositi, in cui la loro domanda venga esaminata con una non meglio identificata "procedura accelerata" nel giro di un mese. La definizione di paese “sicuro” è contenuta in una direttiva europea del 2013: oggi il ministero dell’Interno italiano considera “sicuri” 16 paesi, l'elenco viene aggiornato periodicamente (qui ci sono le valutazioni del ministero degli Esteri su ogni singolo paese “sicuro”, ottenute da ASGI con una richiesta di accesso agli atti).
Questo punto dell'accordo ricalca un decreto attuativo approvato dal governo a settembre nell'ambito del più ampio "decreto Cutro". Secondo il decreto Cutro, le persone migranti provenienti da paesi “sicuri” non devono fare lo stesso percorso di tutti gli altri, poiché è molto probabile che la loro richiesta d’asilo verrà respinta. Una volta identificati non vanno inseriti nel normale sistema di accoglienza, ma trasferiti in “Centri per le procedure accelerate di frontiera” in stato di detenzione amministrativa, in attesa della risposta alla propria richiesta di asilo. Se la richiesta viene accolta, il migrante viene trasferito in un centro di accoglienza; se respinta, viene iniziata la procedura di espulsione e rimpatrio.
Questa trafila presenta moltissimi punti controversi e giudicati incostituzionali. Qualche settimana fa Fulco Lanchester, professore emerito di Diritto costituzionale italiano e comparato alla Sapienza, ha detto al Corriere della Sera che «la mera provenienza da un paese sicuro non può automaticamente escludere dalla richiesta di asilo» ordinaria, in base all'articolo 10 della Costituzione, che protegge il diritto di chiunque a presentarla una volta entrato nel territorio italiano. Lanchester aggiungeva che anche la detenzione amministrativa nei nuovi centri sarebbe incostituzionale, perché l'articolo 13 «non ammette alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria».
In altre parole: sembra difficile prevedere un meccanismo automatico per cui le richieste di asilo di persone provenienti da un "paese sicuro" vengano esaminate con una procedura diversa, e le persone che le presentano siano detenute senza l'apposita decisione di un giudice. In Albania come in Italia. I centri previsti dal decreto Cutro non sono ancora operativi, perciò i tribunali non si sono ancora espressi sulla loro legittimità.
Non è nemmeno chiaro cosa succederà ai richiedenti asilo la cui richiesta verrà respinta: si applicheranno gli accordi per i rimpatri stretti dal governo italiano o da quello albanese? E le persone che saranno rimesse in libertà per via delle note difficoltà di realizzare i rimpatri verranno trasferite in Italia o rimarranno in Albania?
La situazione prevista dall'accordo fra il governo italiano e albanese è talmente complessa che non era prevista nemmeno in un documento interno della Commissione Europea, elaborato nel 2018, che ipotizzava alcuni accordi per soccorrere le persone in mare e sbarcarle in paesi al di fuori dell'Unione Europea.
Lunedì un portavoce della Commissione Europea ha detto alla Stampa di non avere ancora ricevuto «informazioni dettagliate» sull'accordo fra Italia e Albania. «Sappiamo che questo accordo operativo deve essere ancora tradotto in legge e ulteriormente implementato», ha aggiunto il portavoce, lasciando intendere che prima di giudicare la Commissione attenderà la versione definitiva del testo, che a meno di sorprese dovrebbe passare dal Parlamento italiano.