Lo sport ora ha i suoi psicologi e i suoi “coach”
Sono figure sempre più utilizzate dagli atleti e in Italia se ne sta parlando per il caso delle scommesse illegali
di Alessandro Austini
Per ottenere risultati nello sport professionistico, talento e allenamento possono non essere sufficienti, specialmente per mantenersi ad alti livelli. È anche per questo che negli ultimi anni gli atleti hanno iniziato a rivolgersi con maggiore frequenza agli psicologi e ai “coach” con l’obiettivo di prepararsi al meglio anche dal punto di vista mentale cercando di risolvere problemi psicologici che possono condizionare le loro prestazioni.
Rispetto al passato si nota anche una maggiore disponibilità da parte degli stessi atleti a parlare pubblicamente dei temi legati alla salute mentale, a differenza di un tempo in cui era diffusa la convinzione che fosse meglio, se non necessario, mostrarsi inattaccabili. Questa apertura però non riguarda tutti gli sport allo stesso modo: nel calcio, per esempio, la grande popolarità del gioco e la continua esposizione mediatica possono ancora inibire.
In Italia l’importanza della salute mentale in ambito sportivo è tornata d’attualità con il caso che ha coinvolto alcuni calciatori indagati dalla giustizia ordinaria e sportiva per aver effettuato delle scommesse illecite. Fra loro ci sono Nicolò Fagioli della Juventus e l’ex centrocampista del Milan Sandro Tonali, che ora gioca nel Newcastle, in Inghilterra. Entrambi hanno parlato apertamente di ludopatia, una specifica forma di dipendenza psicologica per il gioco d’azzardo, e di recente hanno accettato i consulti degli specialisti.
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«Gli sportivi di alto livello sono più portati a sperimentare il gioco d’azzardo e questo deriva da alcuni tratti di personalità specifici. Gli atleti, infatti, sono abituati a gestire le loro prestazioni davanti a migliaia di spettatori e avvertono meno le emozioni rispetto al resto delle persone. Quindi per alcuni di loro l’unico modo per “sentire qualcosa” è sperimentare emozioni ancora più forti» spiega Marco Naman Borgese, psicologo dello sport che segue diversi atleti e fa parte dello staff della Vero Volley Milano, oltre a tenere lezioni come docente della Federcalcio (FIGC) per aspiranti allenatori.
In Italia non esiste un albo nazionale degli psicologi dello sport, ma per poter ottenere formalmente il titolo bisogna affrontare uno specifico percorso di studi: si comincia con la laurea in psicologia, poi si passa all’esame di stato per abilitarsi alla professione e infine, per specializzarsi, è necessario frequentare un master in psicologia dello sport.
Gli psicologi che lavorano nello sport, come gli altri loro colleghi, sono tenuti a rispettare un codice deontologico che li obbliga, fra le varie norme previste, a mantenere il segreto professionale. Sono inoltre autorizzati a somministrare dei test psicologici validati a livello scientifico, a utilizzare determinate tecniche durante le sedute e a intraprendere un percorso clinico insieme agli atleti qualora emergano dei disturbi mentali su cui è necessario intervenire.
Un’altra figura professionale piuttosto recente a cui molti atleti si affidano è il coach. Il termine in questo caso non è da intendersi come “allenatore”, ma come il professionista che aiuta a sviluppare la propria personalità e a riuscire nella vita, negli studi, nel lavoro.
«Un coach aiuta le persone a riconoscere il loro potenziale e a definire quali sono gli obiettivi che vogliono raggiungere. Lavorando insieme a un atleta in ambito sportivo, ad esempio, lo accompagna in un processo per diventare consapevole delle proprie capacità e di ciò che eventualmente lo sta bloccando nella performance sportiva. Spesso si tratta di pensieri definiti “convinzioni limitanti”, che influenzano in modo inconsapevole le azioni nel corso di una gara» dice Lara Miglietta, psicologa del lavoro che da diversi anni lavora come coach in vari ambiti, tra cui lo sport.
Miglietta assiste alcuni atleti del ciclismo, del tennis e delle arti marziali. «Il coach non può sottoporre le persone a test psicologici, né fare alcun tipo di diagnosi. Se il coach percepisce che la persona che ha di fronte soffre di un disturbo mentale, ha l’obbligo di fermarsi e la responsabilità di suggerire un percorso psicologico da affiancare a quello di coaching. Tra le due figure professionali può anche nascere una collaborazione» spiega Miglietta.
Gli incontri organizzati tra le persone e i coach vengono definite “sessioni” e non “sedute”, durano una o due ore e si possono svolgere anche all’interno di ambienti informali. Le persone assistite vengono chiamate “partner di coaching” (o “coachee” in inglese) e mai “pazienti”. A differenza di uno psicologo, il coach non propone soluzioni riguardo ai comportamenti da tenere o le azioni più opportune da fare per risolvere un problema, ma attraverso un metodo basato sulle domande accompagna la persona a trovare le risposte e le soluzioni da sola.
«Noi ascoltiamo le persone e rielaboriamo con loro gli obiettivi e le strategie per raggiungerli, dividendo ad esempio il percorso in tappe intermedie e più facili da raggiungere prima di arrivare alla meta finale. In questo modo non si crea un rapporto di dipendenza, in cui il professionista si pone in una posizione di guida. Piuttosto il coach e la persona impostano la relazione come una partnership tra due adulti» spiega Miglietta.
I coach non sono tenuti a seguire un percorso accademico definito e articolato come quello degli psicologi. Inoltre non esistono né un albo né una regolamentazione specifica della categoria, tantomeno si riscontra uniformità nella metodologia applicata e nella definizione della professione stessa. Da questa assenza di confini chiari derivano anche i diversi modi in cui questi professionisti si fanno chiamare: a volte non è semplice capire che differenza ci sia fra chi si definisce un “coach”, un “mental coach”, un “motivatore” o un “mentore”.
Psicologi e coach si occupano sia di assistere gli atleti individualmente, sia di studiare le dinamiche di gruppo negli sport di squadra. Nel percorso compiuto insieme a un singolo atleta, lo psicologo lavora ad esempio sulla gestione dello stress e dell’ansia, applicando diverse metodologie, fra cui le tecniche di respirazione e di meditazione. In questo contesto è sempre più utilizzato il “mental imagery”, una tecnica di allenamento basata sulla simulazione mentale di un movimento. Per un atleta consiste nell’immaginare di compiere un determinato gesto tecnico, prevedere quali emozioni possa comportare e come gestire l’ansia da prestazione e il nervosismo.
«Prima di effettuare ogni colpo vado al cinema nella mia testa. Inizialmente vedo la palla dove voglio che finisca, poi vedo il suo percorso, la sua traiettoria e persino il suo comportamento all’atterraggio. La scena successiva mi mostra il tipo di oscillazione che trasformerà l’immagine precedente in realtà. Questi filmati mentali sono una chiave per la mia concentrazione e per il mio approccio positivo ad ogni colpo» raccontò Jack Nicklaus quando era golfista. Uno degli scopi del “mental imagery” è aiutare l’atleta a essere pronto a rispondere ai diversi scenari possibili durante la gara: se è mentalmente preparato a un imprevisto, sarà meno probabile che reagirà in modo emotivamente incontrollato alla situazione.
Anche il famoso ex allenatore di calcio Alex Ferguson parlò dell’utilizzo del “mental imagery” all’interno dei suoi metodi di lavoro: «Ho sempre cercato di aggiungere la parte dell’immaginazione al mio coaching, perché ritenevo che i giocatori dovessero avere un’immagine nella loro mente e visualizzare come potessero avere un impatto creativo su uno schema di gioco» spiegò anni fa. Un altro esempio è quello dell’ex nuotatore americano Michael Phelps, il più vincente di sempre, che nel libro No Limits. Volere è vincere aveva descritto la sua capacità di immaginare in anticipo tutti gli scenari di gara possibili. Ogni capitolo del libro corrisponde infatti a una parola d’ordine legata a ognuna delle otto finali olimpiche vinte nel 2008 a Pechino: perseveranza, determinazione, fiducia, coraggio, volontà, riscatto, impegno, sicurezza di sé.
Ma in seguito fu lo stesso Phelps a raccontare di aver affrontato gravi problemi di salute mentale nel corso della sua carriera. Nel 2018 l’ex nuotatore ammise di soffrire di depressione sin dal 2004 e che al termine di ogni Olimpiade a cui aveva partecipato i suoi disturbi mentali lo avevano portato ad abusare di alcol e a pensare al suicidio. In seguito alla sua esperienza personale Phelps si è impegnato a dibattere il tema della salute mentale degli sportivi e ha criticato apertamente il Comitato olimpico statunitense per lo scarso aiuto offerto agli atleti.
Un altro aspetto su cui gli psicologi dello sport e i coach intervengono è la cosiddetta “gestione del dialogo interno”, ovvero come gli atleti raccontano a loro stessi quello che sta accadendo durante una gara, ad esempio dopo aver commesso un errore. In questo modo vengono aiutati a riconoscere i pensieri negativi ricorrenti come “non ce la farò”, o “sbaglierò ancora”, e a capire come interrompere questo meccanismo mentale.
Esistono inoltre degli strumenti terapeutici che possono essere utilizzati per allenare la mente degli atleti a essere più efficace. Uno di questi è il “neurofeedback”, che attraverso degli elettrodi applicati sulla testa consente di registrare l’attività cerebrale dello sportivo e di visualizzarla graficamente in tempo reale durante le sedute, allenandola attraverso l’utilizzo di animazioni o ultrasuoni. In questo modo l’atleta può osservare insieme allo psicologo le risposte cerebrali e scoprire come e quanto si attivano le diverse aree del suo cervello. Una volta individuate quelle che necessitano di essere stimolate maggiormente, l’atleta può fare degli esercizi, ad esempio di concentrazione e respirazione, che facilitano l’attivazione di determinate funzioni del cervello.
«L’attenzione è uno dei temi più importanti nella psicologia dello sport. Bisogna capire se l’atleta durante una gara si concentra su una cosa poco importante in quel momento oppure se è proprio deconcentrato. A seconda della specifica disciplina sportiva viene utilizzato un approccio diverso. Negli sport di resistenza si deve lavorare su un’attenzione sostenuta più a lungo, perché durante le gare c’è tanto tempo per pensare. Nel tennis, ad esempio, non puoi evitare di commettere errori nel corso di una partita, ma devi imparare a gestirli mentalmente» aggiunge Borgese.
Alcuni atleti si confrontano con lo psicologo o il coach appena prima di affrontare una gara, altri preferiscono invece analizzare a posteriori quello che è successo.
Negli sport di squadra, soprattutto nel calcio, è meno frequente che gli atleti parlino pubblicamente dei problemi di salute mentale o del lavoro che fanno insieme agli psicologi e ai coach. Ma qualche eccezione esiste. L’attaccante della Nazionale brasiliana Richarlison, nel corso di una partita giocata lo scorso settembre contro la Bolivia, era stato ripreso dalle telecamere mentre piangeva in panchina dopo una sostituzione. «Ho attraversato un periodo davvero difficile negli ultimi cinque mesi, le persone a cui interessavano solo i miei soldi mi hanno lasciato solo. Adesso mi farò aiutare da uno psicologo per lavorare sulla mia mente» aveva dichiarato Richarlison al termine di quella gara.
Il calciatore inglese Dele Alli ha invece raccontato di aver sofferto di gravi problemi psicologici in seguito ad abusi subiti nella sua infanzia e di aver sviluppato in seguito una dipendenza dall’alcol e dai sonniferi. Dopo aver giocato nella squadra turca del Besiktas, è rientrato in Inghilterra e si è curato in una struttura specializzata.
Diverse squadre di calcio negli ultimi anni hanno ingaggiato psicologi e coach e li hanno messi a disposizione degli allenatori e dei singoli giocatori. In questo caso i professionisti osservano gli allenamenti e le partite, studiano le dinamiche che si instaurano fra i calciatori e si occupano di produrre dei report da consegnare allo staff tecnico. Ma è raro che i giocatori si fidino davvero degli psicologi o dei coach scelti dalle squadre e si rivolgano a loro per organizzare degli incontri privati, perché li considerano figure troppo vicine alla società. Per questo i calciatori preferiscono eventualmente rivolgersi a professionisti esterni.
«Ogni gruppo di persone che lavorano assieme, e quindi anche una squadra, ha delle precise dinamiche di gruppo al proprio interno. Molto spesso veniamo chiamati a compiere interventi negli sport di squadra, come il calcio, solamente in situazioni di emergenza e ci viene chiesto di trovare la soluzione in poco tempo. Ma questo non è fattibile, c’è una prima fase tipica di ogni gruppo sociale in cui elementi provenienti dall’esterno vengono percepiti come intrusivi e respinti, serve tempo per essere accettati» dice Borgese.
Più di recente, inoltre, anche la gestione dei social media è diventata una delle maggiori cause dei problemi psicologici che accomunano gli atleti indipendentemente dal loro sport. «Da quando esistono i social, gli atleti soffrono di più perché ricevono continuamente critiche e insulti. Le persone non si rendono conto di quanto sia difficile dover sopportare un livello di pressione così alto. Al tempo stesso, però, i social stanno aiutando noi psicologi a farci conoscere e a normalizzare il fatto che ci si possa affidare a noi» dice Borgese.
«Quando si parla di pressioni derivanti dai social il tema centrale è la paura del giudizio, con cui devono fare i conti tutte le persone. Nel caso degli atleti famosi, i giudizi sconfinano nel contesto virtuale sotto forma di commenti scritti e per affrontarli bisogna comunque lavorare sul timore di essere giudicati e sull’autostima» conclude Miglietta.
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