Valutare le richieste d’asilo dei migranti è un lavoro complicato
Storie, testimonianze e spiegazioni dalle commissioni territoriali del ministero dell’Interno, che se ne occupano tra molte critiche
di Alessandra Pellegrini De Luca
Ahmed Arab ha 21 anni e fa l’operaio a Bologna. Viene da Giggiga, capitale della regione etiope del Somali, e dice di ricordare molto bene il giorno della sua audizione alla commissione territoriale, incaricata di valutare la sua richiesta di protezione internazionale: «Mi ero preparato moltissimo, temevo che non mi credessero e che mi negassero l’asilo, oppure che non mi capissero: mi chiedevo se l’interprete di fianco a me stesse traducendo esattamente tutto quello che dicevo sulla mia storia». Arab racconta che i funzionari della commissione gli fecero molte domande: sui motivi della sua partenza, sulla sua famiglia, sui fatti che avevano preceduto il suo viaggio, sulle persone che aveva incontrato, sul percorso fatto per arrivare in Italia.
La commissione territoriale che ascoltò Arab è una delle venti presenti su tutto il territorio italiano. Sono organi che fanno parte del ministero dell’Interno e che furono istituiti nel 2002, con la cosiddetta “legge Bossi-Fini”. Il loro compito è stabilire se una persona migrante debba o meno ricevere una forma di protezione internazionale, cioè se possa vivere e ricevere accoglienza in Italia. Oggi nelle commissioni lavorano funzionari descritti come «altamente qualificati», in base al decreto-legge 13 del 2017, ma il loro non è un lavoro semplice per diversi motivi, tra cui la mancanza di risorse e di traduttori all’altezza. I funzionari inoltre sono decisamente pochi rispetto alla quantità di lavoro che hanno in carico.
Con quell’audizione di circa cinque anni fa Arab ottenne lo status di rifugiato e successivamente un permesso di soggiorno per asilo politico. Per legge lo status di rifugiato si accorda a una persona che «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato».
Ai funzionari della commissione territoriale di Bologna, che ritennero credibile il suo racconto, disse di aver lasciato l’Etiopia per sfuggire ai tentativi del Fronte di liberazione nazionale dell’Ogaden (ONLF) di arruolarlo nelle proprie milizie, in guerra contro il governo del paese. L’ONLF rivendica l’indipendenza della regione del Somali, prima nota come Ogaden, che è etiope ma è abitata soprattutto da somali. Arab appartiene all’etnia somala Issa: quando se ne andò dall’Etiopia aveva 14 anni e se non se ne fosse andato con tutta probabilità sarebbe diventato un soldato.
Partì di nascosto, contro la volontà dei suoi genitori, e iniziò un viaggio che sarebbe durato oltre due anni attraversando tre stati (Etiopia, Sudan e Libia). Si spostò a bordo di camion e a piedi nel deserto, e vide morire tre compagni di viaggio della sua età. Arab dice che durante l’audizione davanti alla commissione territoriale non riusciva a guardare dritto negli occhi i funzionari che lo intervistavano: «Avevo 16 anni, e dopo quello che avevo visto nel campo di detenzione non mi fidavo delle persone, pensavo che chiunque avrebbe potuto farmi del male».
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I funzionari delle commissioni territoriali devono avere competenze giuridiche, politiche, economiche o di relazioni internazionali: gli servono per valutare al meglio la credibilità e veridicità dei racconti dei richiedenti asilo, e infine per capire se rientrano o meno nella categoria di chi ha diritto a una forma di protezione internazionale. L’esame delle richieste avviene attraverso un’audizione, cioè un colloquio individuale, uno per ogni singolo richiedente asilo, e poi con una serie di accertamenti successivi. Per esempio, si confronta il racconto dei richiedenti asilo con le cosiddette COI, le Country of Origin Information, le informazioni sul paese da cui provengono, compilate e aggiornate dall’EUAA, agenzia dell’Unione europea che si occupa di diritto all’asilo.
«Se una persona ti dice di essere partita da una certa regione della Nigeria per fuggire a persecuzioni di tipo religioso, o dalla Tanzania perché perseguitata in quanto albina, le COI servono a verificare che in quelle zone siano effettivamente in atto quel tipo di persecuzioni», dice una funzionaria di una commissione territoriale del Nord Italia.
La funzionaria in questione ha parlato con il Post per raccontare il suo lavoro chiedendo di rimanere anonima, così come altri due funzionari sentiti per questo articolo. Per dare interviste funzionari e funzionarie dovrebbero ottenere un permesso apposito dal ministero dell’Interno: il Post ha contattato per mail 19 delle 20 commissioni territoriali italiane, 17 non hanno risposto e due non sono state autorizzate a parlare con la stampa.
I funzionari valutano la credibilità, fondatezza e veridicità del racconto dei richiedenti asilo anche basandosi su leggi nazionali e fonti internazionali. Sono però criteri generali che vanno applicati a singoli casi particolari, spesso molto specifici. Questa parte del lavoro è resa complicata dal fatto che funzionarie e funzionari non hanno quasi mai prove documentali per verificare le informazioni fornite dai richiedenti asilo.
«Tutto si basa sulle loro dichiarazioni, sul loro racconto orale e sull’eventuale documentazione che portano con sé quando vengono convocati», dice una funzionaria. Tra i documenti che presentano i richiedenti asilo ci sono per esempio articoli di giornale su fatti successi nel paese che hanno deciso di lasciare, certificati medici che attestano che una certa ferita è stata inflitta da un’arma, o magari mandati d’arresto. Anche questi documenti vanno valutati molto attentamente, perché possono essere falsi: una funzionaria racconta di aver visto falsi mandati d’arresto evidentemente autografi e stampati in una copisteria, o nel caso di un richiedente asilo afghano un certificato di collaborazione con le Nazioni Unite pieno di errori ortografici, secondo la commissione certamente non autentico.
La presenza di un documento falso non pregiudica necessariamente l’ottenimento della protezione internazionale: il racconto di chi ha chiesto asilo va valutato nel suo insieme, e il giudizio sulla sua credibilità, oggetto di numerosi studi e sentenze, deve risultare da una valutazione complessiva di tutti gli elementi.
«È molto difficile che una bugia regga all’interno di un’audizione con la commissione territoriale». Elena Garelli, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), assiste i e le richiedenti asilo nella preparazione per le audizioni: «All’audizione verranno messi sulla graticola: nella preparazione io dico sempre di raccontare la verità, la propria storia, anche se nell’immediato può sembrare meno evidentemente “drammatica” di altri». Ahmed Arab dice di ricordare molto bene queste raccomandazioni, che nel suo caso gli vennero date dagli operatori del centro di accoglienza in cui si trovava poco dopo essere arrivato in Italia.
Un elemento usato dai funzionari per valutare la veridicità del racconto è il livello di soggettivizzazione delle esperienze che il richiedente asilo dice di aver vissuto: «Il racconto deve “uscire dallo stereotipo” per così dire, da una narrazione dei fatti generica e applicabile a chiunque: bisogna che la storia raccontata dal richiedente sia proprio la sua e non quella di un altro», spiega una funzionaria.
Un’altra funzionaria racconta il caso di un richiedente asilo giordano che diceva di aver lasciato il proprio paese in quanto cristiano. Le molte domande della commissione servivano a capire come lui si fosse avvicinato a quella religione, che persone avesse incontrato e perché fossero state importanti nel suo percorso, cosa l’avesse portato a diventare cristiano e ad abbracciare una confessione condivisa solo da una minoranza nel suo paese. Gli avevano anche chiesto quanto il suo percorso fosse stato graduale, come fosse stata vissuta quella scelta da lui e dalle persone che lo conoscevano, per esempio i familiari. Anche eventuali episodi di violenza subìti raccontati dai richiedenti asilo vanno circoscritti il più dettagliatamente possibile.
Nel caso del richiedente asilo giordano il racconto era stato valutato come credibile e veritiero, oltre che congruente con la condizione di molti cristiani in quella parte di Giordania, che la funzionaria conosceva per via dei suoi studi e su cui aveva fatto tutte le verifiche necessarie attraverso le COI.
L’audizione è molto spesso l’ennesima sede in cui i richiedenti asilo devono raccontare la propria storia e le violenze subite: per questo c’è la possibilità che alcuni abbiano quella che viene chiamata credibility fatigue, stanchezza da credibilità. «Quando hai ripetuto la tua storia venti volte a venti estranei diversi, da quando sei sbarcato, arrivi all’audizione che spesso non ne hai più voglia, sei stanco, affaticato e scoraggiato», dice l’avvocata Garelli.
Altre volte i richiedenti asilo provengono da contesti per cui non è detto che abbiano i mezzi linguistici e culturali per elaborare la propria storia con tutti i particolari e le sfumature necessarie a convincere i funzionari: «ci sono volte in cui ti chiedi se quel racconto è stato fatto male perché la persona non sa spiegarsi bene o perché non è vero», dice una di loro.
C’è poi la questione dell’interprete e della traduzione. Come molti altri aspetti dell’accoglienza è molto spesso affidata a cooperative ed enti esterni, con bandi che puntano soprattutto a spendere meno soldi possibili. Ci sono diverse testimonianze di episodi in cui gli interpreti non sono minimamente preparati a gestire un’audizione, la sottovalutano o comunque non hanno le competenze adatte a fare certe traduzioni. Per i richiedenti asilo invece è un momento fondamentale.
Garelli racconta per esempio di un minorenne curdo a cui era capitato un interprete che definisce «disastroso»: non parlava il suo dialetto e quel poco che capiva lo traduceva senza scandire le parole. Garelli dice di aver scoperto solo più tardi che l’interprete in questione era stato scelto all’ultimo momento, in una situazione di emergenza perché non ce n’erano altri disponibili: «Mi ha detto che lavorava in un kebab lì vicino e che non aveva mai fatto l’interprete in vita sua». Su questo singolo caso, molto recente, la commissione non ha ancora comunicato la sua decisione.
Sempre Garelli cita il caso di una donna che aveva subìto violenze e molestie da parte di un gruppo criminale che la pedinava nel suo paese d’origine: «L’interprete usava la formula “mi davano fastidio” per tradurre “mi perseguitavano” o “mi molestavano”: sembra una sfumatura linguistica ma cambiava completamente la dimensione e la portata del racconto dell’esperienza della richiedente in questione». In quel caso la commissione negò alla richiedente la protezione internazionale, che le fu successivamente riconosciuta dopo un ricorso in tribunale (succede spessissimo, anche con casi molto diversi da questo, ma i ricorsi richiedono anni: a Bologna per esempio il tribunale sta esaminando ora i ricorsi del 2020).
Ci sono casi in cui la protezione viene negata perché i fatti raccontati non rientrano nella categoria di casi per cui i funzionari valutano ammissibile la richiesta: «Tantissimi casi riguardano problemi fondiari, di contadini che litigano coi propri vicini per il controllo del terreno», dice una funzionaria. In questi casi, anche se ci sono state violenze, l’ambito in cui si sono verificate è privato e non ha a che fare con questioni ritenute meritevoli di protezione internazionale, come ad esempio persecuzioni motivate da ragioni etniche, religiose, sociali o politiche.
Molti migranti dicono poi chiaramente di essere partiti per motivi economici, per cercare di migliorare le proprie condizioni. La distinzione tra “migrante economico” e “rifugiato” è ampiamente discussa e criticata da diversi esperti di immigrazione: una distinzione netta, come molto spesso si tende a fare nel dibattito pubblico, nei fatti spesso non è possibile. È una distinzione puramente politica, non giuridica, e le valutazioni dipendono da caso a caso: molti migranti che dicono di volere venire in Italia esclusivamente per lavorare e migliorare le proprie condizioni di vita provengono da situazioni delicate e controverse, e alle spalle hanno torture, violenze o condizioni estreme che li hanno spinti a migrare.
«In quei casi però noi abbiamo le mani legate», dice una funzionaria, riferendosi alle volte in cui un richiedente asilo dice di essere partito per ragioni economiche. «Non solo non possiamo accogliere la richiesta, ma dobbiamo anche dichiarare la manifesta infondatezza della richiesta d’asilo».
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Garelli e altri sono piuttosto critici nei confronti delle commissioni territoriali, che a loro dire potrebbero essere più flessibili nella valutazione dei casi, come nel caso dei tribunali. «Avrebbero tutti gli strumenti, tra precedenti creati da sentenze dei tribunali e linee guida di organi internazionali, per interpretare la definizione giuridica di “rifugiato” e vederla anche in contesti in cui appare meno immediata».
Garelli fa l’esempio di un richiedente asilo proveniente da uno stato dell’Africa occidentale a cui la commissione aveva negato la protezione internazionale. Durante il colloquio aveva raccontato di essere stato ferito da un colpo di machete durante uno scontro con alcuni pastori Fulani [etnia nomade presente in vari paesi africani] e di non ricordare più nulla: aveva addosso «evidenti segni dell’aggressione» ma non aveva saputo descriverla dettagliatamente, dice Garelli. Secondo lei «non era compito suo raccontare ai funzionari le dinamiche sociali e politiche e i violenti conflitti inter-etnici a cui era esposto: dovevano farlo i funzionari, che avevano tutti i presupposti per capire che per quell’uomo sarebbe stato pericoloso tornare nel proprio paese».
Una delle funzionarie, d’altra parte, dice che il loro compito si limita a valutare caso per caso se ci siano i presupposti sufficienti per applicare la precisa definizione giuridica di “rifugiato” a questo o a quel caso. C’è anche chi critica le commissioni per la «mancanza di indipendenza», come dice Thomas Santangelo, altro avvocato di ASGI.
Secondo Santangelo il fatto che le commissioni territoriali dipendano così direttamente dal ministero dell’Interno ne limita il pieno svolgimento dei propri compiti: «Se un tribunale accoglie un ricorso sulla base del fatto che ritiene che la lista ministeriale dei cosiddetti “paesi sicuri” non sia aggiornata, documentandolo, non puoi continuare a usare quella lista solo perché è ministeriale». Santangelo ha aggiunto comunque che ci sono grosse differenze tra commissione e commissione, e che è difficile generalizzare.
Anche se la protezione viene concessa a un numero molto limitato di persone, per le commissioni territoriali passa la maggior parte dei migranti arrivati in Italia (quasi il 70 per cento delle persone arrivate via mare tra il 1997 e il 2017 ha chiesto asilo). Anche perché chi non la chiede ha un’alta probabilità di finire in un Centro di permanenza per il rimpatrio, strutture detentive note per le condizioni disumane e degradanti in cui vengono detenute le persone al loro interno. Funzionari ed esperti di flussi migratori ascoltati per questo articolo hanno descritto le commissioni come una specie di “imbuto a maglie strettissime”: un luogo in cui passano quasi tutti, con un enorme carico di lavoro per i funzionari, ma da cui pochi escono con un riconoscimento del diritto all’asilo.
Il prossimo 17 novembre i funzionari e le funzionarie delle commissioni territoriali italiane hanno proclamato uno sciopero generale per protestare contro le proprie condizioni lavorative. Anzitutto il poco personale: nel 2017 i funzionari e le funzionarie delle commissioni territoriali erano oltre 400, oggi sono circa 200, a fronte di 85mila richieste d’asilo arrivate nel 2022. Molti hanno cambiato lavoro, scegliendo condizioni lavorative ritenute migliori, per esempio nelle prefetture. A fronte di questa carenza di personale, il ministero dell’Interno sta interpellando le commissioni più ampie per chiedere a singoli funzionari di coprire le carenze di altre commissioni, in cui ci sono meno dei 4 funzionari previsti, con assegnazioni temporanee.
Il problema è che, in caso di mancate adesioni, il ministero ha detto che valuterà la possibilità di sostituire i funzionari mancanti – che come detto devono necessariamente essere molto qualificati per svolgere quel lavoro – con funzionari amministrativi generici, da formare successivamente al loro ingresso in ruolo. Adelaide Benvenuto, coordinatrice nazionale della CGIL Funzione pubblica, ha detto che dalla commissione territoriale di Catania è arrivata una segnalazione su una funzionaria non specializzata che non solo starebbe già facendo audizioni, ma che non avrebbe nemmeno ricevuto la formazione necessaria per poterle fare.