La scomparsa dell’autunno
«La prima volta che sono stata a New York, nel 2013, ho trovato la stagione inventata da Nora Ephron nei suoi film. Gli alberi gialli, arancioni e rossi, i tappeti di foglie lungo Central Park, stivaletti ai piedi e una sciarpa calda. L’ultima volta che sono stata a New York, l’anno scorso, l’estate pareva avere l’intenzione di non finire mai. L’agosto 2022 si era classificato come il terzo più caldo mai registrato in città. Quest’anno è andata persino peggio. La scomparsa dell’autunno ci dimostra che abbiamo bisogno di un nuovo immaginario delle stagioni»
Dicono che Nora Ephron abbia inventato l’autunno. Affermazione folle. L’autunno è una stagione dell’anno che nell’emisfero boreale dura dal 23 settembre al 20 dicembre, due date che corrispondono a particolari posizioni del Sole nel suo apparente movimento intorno alla Terra. Come si può assegnare la sua invenzione alla creatività di una regista e sceneggiatrice? Impossibile, anche se si tratta di una delle più grandi autrici della commedia americana.
Eppure la prima volta che sono stata a New York, nel 2013, non ho trovato l’autunno boreale ma quello inventato da Ephron nei suoi film. I filari ingialliti, i tappeti di foglie lungo Central Park, stivaletti ai piedi e una sciarpa calda. Sopra la città incombeva un cielo grigio, gli alberi erano arancioni e rossi, la pioggia notturna non mi incrociava mai ma veniva giù a sufficienza, ogni sera. Oltre il muretto di pietra che divideva il parco dalla città, sugli alberi c’erano scoiattoli che si strofinavano il naso come personaggi dei cartoni animati. Io avevo camminato sino all’Upper West Side. C’erano 13 confortanti gradi centigradi. Indossavo un impermeabile, una gonna lunga, stivaletti. Mi sentivo Meg Ryan dentro un film di Nora Ephron: anche a me New York in autunno aveva fatto venire voglia di comprare un bouquet di matite ben temperate.
Nel 1989 Harry ti presento Sally arriva in sala nel momento in cui Wall Street guida la rinascita urbana e sociale di New York: tra il finire degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, dopo decenni di abbandono e criminalità (la metropoli era stata rinominata Fear City, la città della paura), tutti volevano vivere nella Grande Mela. C’è posta per te è del 1998, ambientato in una New York che inizia già a sentire la crisi dell’immobiliare e il peso della gentrificazione ma ancora si mostra fiduciosa: il mercato si autoregolerà, il capitalismo trionferà e “la città che non dorme mai”, con la sua bellezza, continuerà ad abbracciare la gente da tutte le parti del mondo. In fondo, chi può mai volere male a New York? Tre anni dopo, l’11 settembre. Nel 2002 Ephron scrive e dirige Julie & Julia, il suo ultimo film, un lungo flashback dedicato a una città che ha smesso di esistere. Nora Ephron è morta nel 2012 di leucemia e non ha fatto in tempo a vedere scomparire, insieme alla sua città, la sua più grande invenzione. L’autunno.
L’ultima volta che sono stata a New York, l’anno scorso, l’estate pareva avere tutta l’intenzione di non finire mai. L’agosto 2022 si era classificato come il terzo più caldo mai registrato in città (dopo il 1980 e il 2005) con temperature comprese tra 30 °C e 22 °C e a inizio settembre si toccavano ancora massime di 27 °C. Quest’anno è andata persino peggio. Secondo il Goddard Institute for Space Studies (Giss) della Nasa, l’estate 2023 è stata la più calda sulla Terra dal 1880: i mesi di giugno, luglio e agosto hanno raggiunto una temperatura di 0,23 gradi superiore a qualsiasi altra estate registrata dalla Nasa, mentre a settembre 2023 i dati riportavano 1,75 gradi in più della media. Ha fatto caldo, un caldo anomalo e inquietante, anche a ottobre. Il caldo estremo ha fatto registrare nuovi record per il mese di ottobre anche nella nostra Europa, con picchi di temperature in Spagna, Francia e persino in Inghilterra, Paesi Bassi e Germania. Da noi, in Italia, le temperature sono state anche di 30 °C fino a 33 °C da Nord a Sud ancora fino a metà del mese: poi, come da previsioni, finalmente l’autunno è arrivato. Con circa un mese di ritardo rispetto alla tradizione.
Ennio Flaiano scriveva «Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno». Un pensiero che oggi suona come una maledizione. A un’estate senza fine non segue il graduale abbassarsi delle temperature ma sopraggiunge improvvisamente il freddo e gli alberi non hanno nemmeno il tempo di finire di assorbire i nutrienti contenuti nelle foglie verdi prima dell’arrivo delle prime gelate. Nella cultura contadina l’autunno è sempre stato il mese del raccolto, della vendemmia, dell’approvvigionamento alimentare prima dell’inverno. Lo stesso nome deriva dal latino auctumnus, che a sua volta ha in sé il verbo auctus, participio di augere, aumentare, arricchire: un tempo questa stagione, la più ricca di frutti della terra, rendeva sazi i contadini. Oggi, invece, quello che tradizionalmente era un periodo in cui essere grati per l’abbondanza arriva sempre più tardi e dura pochissimo.
– Leggi anche: Che cos’è una talea
La vegetazione pare essere preda di un’esistenza dissociata: non è raro vedere, infatti, tra i rami già seccati e pronti all’inverno, qualche gemma appena spuntata. Si potrebbe pensare che fioriture frequenti siano un bene, ma non è così. Alcuni studi sulla salute degli alberi hanno dimostrato che a causa del cambiamento climatico le piante sono più stressate e, di conseguenza, perdono le foglie rapidamente senza passare dai colori autunnali: le alte temperature fanno sì che le foglie rimangano verdi più a lungo, ritardando l’esplosione di arancione e rosso o, talvolta, saltandola del tutto. Niente più chiome imbrunite e tappeti di foglie. Niente più maniche corte di giorno, giacchette di sera, impermeabili leggeri. Da qualche anno l’autunno dura nell’emisfero boreale un mese, circa. Quanto tempo ci vorrà prima che scompaia per sempre? E una volta che non esisterà più, saremo in grado di ricordarcene o di inventare qualcosa di nuovo?
– Leggi anche: Perché in autunno cadono le foglie
Da qualche anno sui social network esiste il trend Meg Ryan Fall, che i più spietati chiamano “l’autunno delle Ragazze Bianche su Instagram e TikTok” citando l’ormai celebre White Woman’s Instagram del comico statunitense Bo Burnham. È persino comico a vedersi: hashtag a senso unico tengono insieme reel e caroselli di foto in cui si succedono maglioni dolcevita, tazze fumanti, libri appoggiati tra coperte di tartan, stivaletti che saltellano in mezzo a foglie incredibilmente arancioni. In sottofondo, immancabile, It Had to Be You di Harry Connick Jr. Non voglio essere snob, ma le tendenze social appiattiscono ogni cosa e, in mezzo a decine di video tutti uguali, anche Meg Ryan perde il suo fascino. Ci sono articoli su articoli, più o meno ironici, che si interrogano sull’ossessione del mondo occidentale, dell’emisfero boreale, per l’autunno. Qualcuno dice che questo genere di estetica non è molto diversa dal minimalismo dei cataloghi di Zara, che vende a tutti perché in realtà non piace a nessuno, e che appartiene all’immaginario di un’autrice proveniente da un altro secolo, da una città che non esiste più in un mondo che non è mai esistito.
A me, che per anni ho provato piacere a vedere Nora Ephron diventare un trend su TikTok, pareva che, tutto sommato, la sua fosse un’estetica elegante e trovavo confortante che le generazioni più giovani entrassero in contatto con la scrittura di un’autrice che ritengo geniale. Ma da quando l’autunno è scomparso, non riesco a non provare una densa malinconia ogni volta che il 23 settembre si avvicina. Occorre fare i conti con la realtà: accettare il fatto che sarà difficile mangiare una zucca come si deve e avere voglia di caldarroste bollenti se fuori ci sono 27 °C. Convincersi che passeggiare sul foliage significherà impantanarsi in una poltiglia marrone, fatta di foglie volate via dagli alberi e marcite nel fango dopo scrosci di pioggia torrenziale seguiti a settimane aride. Ammettere una volta per tutte che l’autunno delle ragazze bianche lo ha davvero inventato Nora Ephron, e certamente non per noi italiane. E che nel mondo dei prossimi anni, sempre più simile ad Arrakis, il deserto del pianeta Dune, diventerà difficile ambientare una storia d’amore in stile Nora, a meno di avere per protagonisti una coppia di vermi della sabbia.
La letteratura e il cinema di finzione influenzano la narrazione del cambiamento climatico, e l’immaginario condiziona la percezione che abbiamo delle catastrofi naturali o delle malattie: basti pensare a quanto spesso, durante la pandemia, venivano citati 1984 o Io sono leggenda. Le storie di finzione, su carta come su schermo, si sono dimostrate mezzi importanti per aiutare lettori e spettatori a comprendere cambiamenti epocali in corso, altrimenti inaccessibili. Gli autori e le autrici, insomma, hanno strumenti per raggiungere le persone in un modo in cui gli scienziati non possono. Si parla ancora poco, però, dell’influenza che il cambiamento climatico ha sulle storie e, in particolare, sugli immaginari.
Se il riscaldamento globale, con i 27 °C fissi a ottobre e la scomparsa del foliage, ci priva delle immagini autunnali che abbiamo tradizionalmente impresse nelle mente, con che cosa le rimpiazzeremo? Gli scenari sono due. Il primo è quello che abbiamo visto: il Meg Ryan Fall, l’attaccamento alla nostalgia e al cliché, al foliage da cartolina come al Natale sotto la neve (quanti anni sono che, in Italia, non cade più nemmeno un fiocco sotto le feste?). Il secondo è la creazione dell’inesistente. La Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien ci ha regalato un’enciclopedia di creature e piante e lo stesso si potrebbe dire per l’universo di Dune, se deserto deve essere a tutti i costi. In queste narrazioni gli ecosistemi sono immaginari ma coerenti, i cicli di vita di piante e animali perfettamente credibili, ispirati a luoghi della Terra più o meno reali, più o meno minacciati, più o meno scomparsi.
L’immaginazione ha il potere di modellare il mondo ma, come dice Donna Haraway, «è importante quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; è importante capire quali nodi annodano nodi, quali pensieri pensano pensieri, quali descrizioni descrivono descrizioni, quali legami intrecciano legami. È importante sapere quali storie creano mondi, quali mondi creano storie». La scomparsa dell’autunno ci dimostra, anno dopo anno, con tutto il suo romanticismo e anche con la satira che ne consegue, che abbiamo bisogno di un nuovo immaginario delle stagioni poiché quello di cui disponiamo adesso è inadeguato e ha fatto presto a diventare grottesco.
Paul B. Preciado ha scritto che viviamo un periodo di «rivoluzione epistemica in cui il significato delle cose sta cambiando, i nomi delle cose stanno cambiando» e che abbiamo il potere di creare il mondo in cui desideriamo abitare attraverso il modo in cui interagiamo con esso e lo raccontiamo. Possiamo scegliere se trasformare l’autunno (come già successo per il Bianco Natale) in un brand, in un hashtag, in uno stile estetico adatto alla categoria “commedie romantiche” di Netflix, oppure considerare l’immaginazione un’opportunità e provare a riscriverne la sceneggiatura, anche senza Nora Ephron, ovviamente.
– Leggi anche: 15 cose che non sapete di “Harry ti presento Sally”