E il PD cosa pensa su Israele e Palestina?
Capirlo è difficile perché Elly Schlein ci va cauta, mentre gli altri leader di sinistra europei esprimono a volte posizioni più nette
Dopo gli attacchi di Hamas contro i civili israeliani del 7 ottobre e la successiva risposta di Israele, nei principali partiti di sinistra in Europa è nato un dibattito molto vivace che in alcuni casi ha generato forti tensioni. In Francia e in Regno Unito i leader di sinistra o di centrosinistra hanno preso posizione in maniera netta, uno a sostegno della Palestina e l’altro di Israele, e generando in entrambi i casi forti polemiche. In Spagna la definizione di una linea comune sul Medio Oriente si è intrecciata con le trattative per la formazione del nuovo governo di centrosinistra. In Italia, invece, la dialettica interna alla sinistra e in particolare al Partito Democratico avviene perlopiù sottotraccia, con valutazioni e opinioni meno definite.
La segretaria Elly Schlein ha tenuto finora una cauta posizione di equilibrio, principalmente perché deve tenere insieme diversi orientamenti all’interno del suo partito. Da un lato di “ferma condanna”, come si dice in questi casi, del massacro di civili compiuto da Hamas ai danni di Israele, e dall’altro in favore dei diritti umani dei palestinesi. Il suo posizionamento sta in un certo senso a metà tra chi, come il presidente del governo spagnolo, il socialista Pedro Sánchez, chiede espressamente un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, e chi, come il cancelliere tedesco socialdemocratico Olaf Scholz o il leader laburista britannico Keir Starmer, esprime un sostegno più convinto allo stato di Israele e alla sua volontà di continuare con le operazioni militari.
La cautela di Schlein può sembrare sorprendente, visto che lei stessa in passato aveva dimostrato una certa sensibilità nei confronti della causa palestinese, sia da europarlamentare sia da vicepresidente dell’Emilia-Romagna. Peraltro questo suo impegno era stato talvolta ritenuto contraddittorio rispetto all’origine ebraica della sua famiglia. «È vero: mio babbo è ebreo. Non è particolarmente credente né praticante, onestamente», aveva detto Schlein lo scorso dicembre quando le era stata posta la questione. «E quindi non lo sono io, perché si dovrebbe sapere che le due cose non sono automatiche». Schlein si riferiva al fatto che nell’ebraismo ortodosso la trasmissione è matrilineare: è automaticamente ebreo chi discende da madre ebrea.
Tra i dirigenti del PD c’era chi si aspettava che Schlein avrebbe indirizzato il partito su una linea più apertamente filopalestinese. Ma quando le è stato chiesto se stesse «con Israele o con la Palestina», Schlein ha risposto «con Israele e Palestina», e ha mantenuto un approccio simile nei suoi recenti interventi alla Camera. Ha apprezzato il fatto che Giorgia Meloni abbia tentato una via diplomatica partecipando al “Summit per la Pace” in Egitto, ma ha criticato il fatto che l’Italia si sia astenuta alla risoluzione dell’ONU che chiedeva una tregua immediata.
Giovedì scorso Schlein ha partecipato alla tradizionale riunione del Partito socialista europeo (PSE) che si tiene parallelamente ai Consigli europei, cioè gli incontri ufficiali dei capi di Stato e di governo dei paesi membri dell’Unione Europea. In quell’occasione Schlein ha invocato «una pausa umanitaria» nella Striscia di Gaza, e ha poi aggiunto: «Non è possibile vedere colpiti obiettivi come scuole, ospedali e chiese, servono “safe zone” e più garanzie per i civili».
Al di là dei convincimenti personali, la cautela di Schlein ha ragioni fondamentalmente politiche, che hanno a che vedere con le diverse sensibilità all’interno del suo partito.
Schlein ha vinto le primarie del PD nel febbraio scorso anche in virtù del suo orientamento più radicale rispetto a Stefano Bonaccini, che esprimeva invece istanze più moderate e riformiste. Nel comporre la sua segreteria, cioè il massimo organo esecutivo del partito, Schlein ha incluso alcuni rappresentanti della cosiddetta “minoranza interna”, ovvero quegli esponenti del PD che al congresso avevano sostenuto Bonaccini: 4 su 21 componenti. Così facendo Schlein si è accordata con Bonaccini per guidare il partito in maniera sostanzialmente unitaria, e infatti lo stesso Bonaccini è stato nominato presidente, una carica prestigiosa anche se molto meno importante di quella del segretario.
Da questa intesa deriva l’esigenza per Schlein di trovare una linea sulle principali questioni che sia il più possibile condivisa dalle varie componenti del partito. Una di queste questioni è la politica estera, su cui i principali esponenti più “centristi” del PD, spesso definiti anche riformisti, temevano di scontrarsi maggiormente con Schlein. La stessa scelta del responsabile Esteri nella segreteria è stata delicata.
Nella segreteria del predecessore di Schlein, Enrico Letta, questo ruolo apparteneva a Lia Quartapelle, deputata lombarda allineata alle posizioni dell’Occidente e della NATO, riassumibili sotto la definizione di “atlantismo”. Sui giornali si era parlato del deputato Arturo Scotto come suo sostituto, cosa che aveva generato forti malumori nel partito. Scotto, coordinatore di Articolo 1, partito che è nato da una scissione a sinistra del PD, era stato spesso critico nei confronti della linea estera del PD di Letta, ritenendola troppo succube della NATO nel sostegno all’Ucraina.
Alla fine Schlein ha scelto come responsabile Esteri il deputato Peppe Provenzano, ex ministro del Sud nel secondo governo di Giuseppe Conte. Da sempre vicino alla corrente di Andrea Orlando, che dentro al partito si colloca abbastanza a sinistra, Provenzano in questi mesi ha dovuto mediare tra diverse posizioni ed è riuscito a trovare soluzioni di compromesso.
Lo si era già visto con la guerra in Ucraina, quando Schlein, a dispetto delle previsioni, aveva tenuto una linea in sostanziale continuità con Enrico Letta. Subito dopo la sua vittoria al congresso, alcuni esponenti riformisti del PD avevano avvertito Schlein: Lorenzo Guerini, ex ministro della Difesa, aveva detto che il sostegno militare alla resistenza ucraina contro l’invasione russa era una «linea rossa», cioè una cosa su cui un eventuale cambio di linea avrebbe portato a una rottura.
Schlein aveva risposto con una faticosa ricerca di equilibrio. Da un lato aveva cercato con insistenza il dialogo coi movimenti cosiddetti “pacifisti”, ma allo stesso tempo aveva mantenuto il PD sulla stessa linea di fermezza nella condanna all’invasione russa, condivisa dalla maggioranza del Partito socialista europeo. Aveva adottato un lessico nuovo, ribadendo spesso la sua speranza per una riduzione dell’intensità del conflitto e invitando l’Unione Europea a promuovere una soluzione diplomatica. Ma la posizione del PD in parlamento è rimasta coerente col passato, sempre a sostegno della resistenza ucraina, anche sull’invio di armi.
A complicare il tutto ci sono gli altri partiti di opposizione. Sia il Movimento 5 Stelle sia Alleanza Verdi e Sinistra possono permettersi posizioni meno sfumate, più nettamente a favore della diplomazia e contro l’invio di armi, e criticano la linea del PD ritenuta eccessivamente atlantista. Poche settimane fa Conte, leader del M5S, ha provocato su questo punto Schlein dicendo: «Enrico Letta ha messo l’elmetto al PD ed Elly non ha avuto il coraggio di toglierlo».
La stessa dinamica si ripropone ora con il Medio Oriente. Anche in questo caso, M5S e Alleanza Verdi e Sinistra sostengono con maggiore convinzione la causa palestinese, condannando i bombardamenti di Israele contro la Striscia di Gaza in reazione al massacro di civili fatto da Hamas. Mentre Schlein si ritrova a dover mediare nel suo partito, come abbiamo visto.
Un esempio di quanto sia complessa la ricerca di questo equilibrio è una piccola polemica che c’è stata dentro al PD di recente, riguardo a una manifestazione indetta dalla Rete italiana pace e disarmo insieme ad Amnesty International. Alcuni esponenti della segreteria vicini a Schlein, come Marco Furfaro e Marina Sereni, avevano proposto che il PD inviasse una sua delegazione ufficiale alla manifestazione. Altri esponenti riformisti, però, avevano espresso contrarietà a questa ipotesi perché il manifesto alla base dell’iniziativa veniva ritenuto troppo timido nella condanna agli attacchi di Hamas. Inoltre, in precedenti manifestazioni a sostegno di Israele, il PD aveva rinunciato a inviare una propria delegazione, lasciando che i singoli parlamentari partecipassero «a titolo personale». Ed è stata questa alla fine la soluzione di compromesso anche stavolta, una partecipazione volontaria ma senza delegazione.
Naturalmente in questi casi è più che altro una questione di forma, rilevante soprattutto per chi sta dentro al partito, ma è comunque un esempio della costante mediazione che Schlein è costretta a cercare, anche nelle questioni più marginali.
Le tensioni nel PD sulla questione mediorientale non sono comunque un’anomalia nel contesto della sinistra europea. In Francia la Nupes, la coalizione che raccoglie vari partiti di sinistra nata nel maggio del 2022, rischia concretamente di dissolversi. Il presidente della coalizione, Jean-Luc Mélenchon, leader del partito La France Insoumise, si è rifiutato di condannare esplicitamente Hamas. Questo ha portato molti esponenti della coalizione, a partire da quelli del Partito Socialista, a invocare l’interruzione dell’alleanza con Mélenchon.
Nel Regno Unito le tensioni nel Partito Laburista sono state determinate dal fatto che, al contrario, il leader Keir Starmer ha assunto una posizione molto netta a favore della reazione militare di Israele nei confronti di Hamas e di Gaza. In un’intervista radiofonica, Starmer ha sostenuto che fosse nel diritto di Israele assediare la Striscia di Gaza, anche a costo di tagliare le forniture di acqua e di energia elettrica. Ne sono seguite forti critiche da parte di esponenti Laburisti più radicali, e Starmer si è poi parzialmente corretto, in maniera un po’ imbarazzata. Una ventina di rappresentanti locali Laburisti di religione musulmana ha abbandonato il partito. Starmer ha assicurato che non intende punire gli esponenti che invocheranno un cessate il fuoco a Gaza, ma la questione ha fatto comunque riemergere i conflitti mai del tutto risolti all’interno del partito, più volte accusato nel recente passato di antisemitismo.
Anche in Germania il cancelliere Olaf Scholz ha espresso un risoluto e convinto sostegno a Israele, senza avventurarsi in richieste di cessate il fuoco o proposte per evitare l’invasione di Gaza. Questa sua fermezza ha generato perplessità tra i Verdi, il partito che governa in coalizione con i socialdemocratici dello stesso Scholz e i liberali, ma è anche vero che in Germania questo dibattito ha una sua particolarità ed è diverso dagli altri. Generalmente, al netto delle sfumature e delle eccezioni, in Europa la causa palestinese è sostenuta dalla sinistra mentre la destra e il centrodestra difendono i diritti dello stato di Israele. In Germania, invece, a causa del genocidio degli ebrei europei compiuto dal regime nazista nella Seconda guerra mondiale, c’è un sentito e trasversale senso di responsabilità nei confronti di Israele e si fa molta attenzione alle manifestazioni contemporanee di antisemitismo.
– Leggi anche: Il dibattito su Israele e Palestina in Germania è diverso
Al contrario, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez è stato il leader che più di tutti si è speso per chiedere una «tregua umanitaria» e un «cessate il fuoco», criticando il modo con cui Israele sta assediando la Striscia di Gaza. In parte questa scelta di Sánchez, che è uscente e in cerca di una riconferma, potrebbe essere dovuta alla necessità di definire un accordo di governo tra il Partito socialista (PSOE), di cui è leader, e una coalizione di sinistra più radicale, Sumar, i cui membri sostengono convintamente la causa palestinese. La leader di Sumar, Yolanda Díaz, ha definito «apartheid» le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi.