Il posto da tenere d’occhio per capire cosa succederà alla legge di bilancio
È la commissione Bilancio del Senato, appunto, che la analizzerà a lungo e dove la maggioranza ha un margine risicato
Lunedì sera il governo ha inviato al Senato il testo del disegno di legge di bilancio, con un certo ritardo rispetto al termine del 20 ottobre fissato per legge: ma è un ritardo che è ormai diventato prassi, negli anni, a prescindere dal governo in carica. Dopo 14 giorni dalla sua approvazione da parte del Consiglio dei ministri, e dopo una lunga trattativa tra le forze di maggioranza che ha portato a scrivere e poi correggere diverse bozze, il provvedimento che definirà la politica economica del governo per l’anno prossimo inizia il suo percorso parlamentare che finirà entro il 31 dicembre con il voto di entrambe le camere del parlamento. Per capire come andrà questo percorso, il posto da tenere d’occhio è soprattutto la commissione Bilancio del Senato, dove avrà luogo la gran parte dell’analisi del disegno di legge.
Per consuetudine, Camera e Senato si alternano di anno in anno in questa analisi, nel 2022 sono stati i deputati a ricevere per primi il testo e ora tocca ai senatori: la commissione responsabile e più competente è, appunto, la Bilancio, che però al Senato è già impegnata su un altro importante provvedimento: il decreto fiscale, approvato in Consiglio dei ministri il 18 ottobre. Ci vorranno probabilmente un paio di settimane prima che si esauriscano i lavori su questo testo, dopodiché si potrà iniziare a votare sui singoli articoli della legge di bilancio.
Nel frattempo la commissione Bilancio potrà procedere con le cosiddette audizioni: verranno invitati, cioè, enti e istituzioni a esprimere il proprio parere sul disegno di legge di fronte alla commissione. Sono pareri non vincolanti, ma che comunque hanno un certo peso nella dialettica politica, soprattutto quelli dei soggetti più autorevoli come la Banca d’Italia, l’Ufficio parlamentare di bilancio, la Corte dei Conti, la Confindustria e i sindacati. È spesso da questi giudizi che le forze politiche traggono lo spunto per legittimare le proprie posizioni riguardo a certi aspetti della legge finanziaria: l’opposizione darà risalto agli appunti più critici per attaccare il governo e chiedere modifiche; la maggioranza, al contrario, farà lo stesso con i commenti più favorevoli per dimostrare di aver lavorato bene.
Al termine di questo ciclo di audizioni, che verosimilmente andrà avanti fino a metà novembre, inizierà l’esame effettivo del disegno di legge, che quest’anno sarà un po’ diverso dal solito. I partiti di maggioranza hanno deciso infatti di non consentire ai propri parlamentari di presentare emendamenti al testo, cioè proposte di modifica, su richiesta della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Forza Italia e Lega inizialmente erano contrari a questa ipotesi, che poi si è comunque affermata nel corso di una riunione tra i leader della maggioranza, lunedì mattina.
A questa riunione, a cui ha partecipato la stessa Giorgia Meloni, è stata definita la linea: sarà il governo a proporre eventuali emendamenti – come è nelle sue facoltà – raccogliendo le sollecitazioni che dovessero arrivare dai partiti di maggioranza. È una decisione insolita e senza precedenti nella storia parlamentare recente. Nelle intenzioni del governo è giustificata però dalla volontà di rendere più spediti e lineari i lavori per approvare il disegno di legge di bilancio, che negli ultimi anni sono sempre stati segnati da tensioni politiche, lungaggini e complicazioni.
Su tutte le eventuali proposte di modifica, comunque, la commissione Bilancio dovrà esprimersi con un voto a maggioranza semplice, perciò i numeri saranno importanti. La commissione è formata da 22 senatori, 12 di maggioranza (6 di Fratelli d’Italia, 3 della Lega, 2 di Forza Italia, 1 del MAIE, il Movimento degli italiani eletti all’estero), e 10 di opposizione (4 del PD, 3 del M5S, 1 di Italia Viva, 1 dell’Alleanza Verdi e Sinistra, 1 del gruppo delle Autonomie). La maggioranza quindi ha appena due voti in più, che potrebbero ridursi a uno se si considera che il presidente della commissione, per prassi, non vota (ma è appunto una semplice convenzione, in teoria non ci sono regole che glielo impediscano).
Il presidente della commissione Bilancio del Senato è Nicola Calandrini, di Fratelli d’Italia, commercialista 57enne alla sua seconda legislatura. Nel 2018 in verità non risultò eletto, ma l’anno seguente subentrò dopo che Marco Marsilio dovette lasciare l’incarico (nel frattempo era diventato presidente dell’Abruzzo). Nel 2016 Calandrini fu candidato a sindaco dal centrodestra per le elezioni comunali nella sua città, Latina. Perse al ballottaggio. Nel 2017 fu uno dei primi a contestare al nuovo sindaco, Damiano Coletta, la decisione di cambiare l’intitolazione del parco pubblico: non più ad Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, ma ai giudici Giovanni Falcone e Salvatore Borsellino. Fu una polemica che animò a lungo il dibattito politico locale, e che nel 2021 assunse una rilevanza nazionale portando alle dimissioni del sottosegretario all’Economia leghista Claudio Durigon, anche di Latina.
Nel giugno scorso in commissione Bilancio la maggioranza fu battuta, non riuscendo cioè a ottenere i voti necessari: quando succede nel gergo parlamentare si dice che la maggioranza è “andata sotto”. Una votazione sul decreto Lavoro finì 10 a 10 e questo determinò la bocciatura della proposta del governo. In quel caso il mancò il sostegno dei due senatori di Forza Italia, Claudio Lotito e Dario Damiani, che si presentarono nella piccola aula della commissione quando la votazione era già conclusa. Motivarono il loro ritardo con un malinteso: Forza Italia stava svolgendo proprio in quel momento una «riunione di gruppo» e il presidente Calandrini non capì che era il caso di posticipare il voto, pur sapendo dell’impegno dei due senatori. Si scoprì poi che la «riunione di gruppo» era in realtà una festa di compleanno dello stesso Damiani, cosa che fu fatta notare con toni critici dallo stesso presidente del Senato, Ignazio La Russa.
In ogni caso Lotito, arrivando nell’aula della commissione Bilancio e dopo essere stato informato dell’incidente, rivendicò il suo comportamento dicendo che «questo è solo l’antipasto». La sera prima, sempre al Senato, si era svolta una riunione di maggioranza per discutere di un provvedimento sulla pirateria informatica che aveva delle ricadute anche sui diritti tv delle squadre di calcio di Serie A e a cui Lotito, presidente della Lazio, teneva molto. Le sue richieste però non vennero accolte. Il giorno dopo, quando per via della sua assenza la maggioranza “andò sotto” in commissione Bilancio, molti suoi colleghi della destra ci videro una sorta di vendetta.
Del resto Lotito ha mostrato una certa riluttanza ad assecondare le scelte della coalizione di cui fa parte su questioni a lui molto care anche in altre circostanze, facendo richieste ritenute improprie dal suo stesso partito. Dopo la morte di Silvio Berlusconi, poi, ha più volte polemizzato con il segretario di Forza Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Per il governo, i lavori della commissione verranno seguiti perlopiù dal viceministro dell’Economia e dai sottosegretari, salvo le rare occasioni in cui sarà richiesta la presenza del ministro Giancarlo Giorgetti. In particolare, il sottosegretario che è stato delegato al confronto costante con i senatori è Federico Freni, leghista ritenuto da tutti come un esponente “moderato” del partito, già al secondo mandato da sottosegretario all’Economia. Il suo compito sarà di valutare se gli emendamenti presentati dai gruppi parlamentari saranno compatibili con le intenzioni del governo.
Freni e gli altri sottosegretari in commissione riceveranno assistenza dai funzionari del ministero dell’Economia. Avrà un ruolo particolarmente importante Daria Perrotta, che è a capo dell’ufficio del coordinamento legislativo del ministero.
Perrotta è una dirigente pubblica navigata ed esperta, nel governo di Mario Draghi era la capo di gabinetto del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, e prima aveva collaborato come consigliera con il ministro della Cultura Dario Franceschini nel secondo governo di Giuseppe Conte. Prima ancora era stata consigliera giuridica di Maria Elena Boschi, quando Boschi era ministra nel governo Renzi e sottosegretaria alla presidenza del Consiglio nel governo Gentiloni. Con Giorgetti, Perrotta ha collaborato più volte: si conobbero quando lui era presidente della commissione Bilancio della Camera, tra il 2001 e il 2006, e lei lavorava negli uffici tecnici della stessa commissione. Poi Giorgetti la volle nel suo staff quando ebbe l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel primo governo Conte, sostenuto da Lega e M5S.