Gli effetti della guerra sull’economia israeliana
Saranno pesanti e hanno già causato problemi a negozi e aziende: lo stato ha promesso grossi aiuti e può contare su una situazione di partenza abbastanza solida
Nelle ultime settimane la guerra in corso tra Israele e Hamas ha già fortemente condizionato quasi tutti i settori dell’economia israeliana. Inoltre la probabile invasione di terra della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano rischia di espandere ulteriormente le conseguenze economiche del conflitto, oltre che ovviamente quelle militari e umanitarie.
L’economia di Israele è la più solida del Medio Oriente: il suo prodotto interno lordo (PIL) è superiore ai 450 miliardi di euro, il debito pubblico è più basso rispetto a quello di molti paesi occidentali e vale il 60 per cento del PIL, la banca centrale ha accumulato 200 miliardi di euro di riserve in valuta straniera. Benché il paese sia stato spesso in guerra negli ultimi 75 anni, la sua economia è sempre stata in grado di risollevarsi dopo lo sforzo bellico. Ma la situazione attuale rischia comunque di avere effetti maggiori che in passato.
Gli effetti saranno a livello “macro”, cioè su tutto il sistema economico, con i conti dello stato da rivedere e interventi necessari della banca centrale, ma saranno anche più diffusi per le aziende, le imprese edili, i ristoranti e i piccoli esercizi, senza contare il settore del turismo, che al momento è completamente bloccato.
Una delle prime risposte di Israele agli attacchi di Hamas del 7 ottobre è stata la mobilitazione di oltre 360.000 riservisti, cittadini che hanno svolto il servizio militare obbligatorio e che possono essere convocati per tornare temporaneamente nell’esercito. Corrispondono al 4 per cento della popolazione totale e quasi al 10 di quella attiva. L’arruolamento di così tante persone ha causato carenze nel personale di vari settori, fra cui quello tecnologico, che impiega per lo più giovani. Molti, soprattutto nel campo della cybersecurity, hanno una formazione militare. Dopo i primi giorni in cui tutte le attività produttive si sono fermate per lo shock causato dagli eventi, il settore sta ora ripartendo con una certa fatica: contribuisce per il 18 per cento al PIL nazionale.
La nuova guerra con Hamas ha avuto come ulteriore conseguenza immediata il blocco di tutte le frontiere, non solo con Gaza, ma anche con la Cisgiordania: solo nei territori occupati i palestinesi in possesso di un permesso di lavoro israeliano sono quasi 140.000. Molti erano impiegati presso aziende edili: i lavori nelle grandi città al momento sembrano per lo più fermi. E sostituire quella manodopera sarà particolarmente complesso, in un paese in cui il tasso di disoccupazione è basso, fra il 2 e il 2,5 per cento. Da Israele sono partiti negli ultimi venti giorni anche molti lavoratori asiatici, che rappresentavano un’altra porzione non trascurabile della manodopera del paese.
Per quasi due settimane sono stati per lo più chiusi anche tutti i centri commerciali e la gran parte dei ristoranti, più per assenza di clienti che di personale. Gli acquisti con carta di credito nell’ultima settimana sono calati del 12 per cento rispetto allo stesso periodo di un anno fa, con diminuzioni più consistenti in tutti i settori, solo in parte compensate da una crescita nella spesa per il cibo e i beni di prima necessità nei supermercati.
Molte scuole sono passate alla didattica a distanza, e molti genitori si trovano quindi in particolare difficoltà nel gestire gli impegni familiari con i figli e il lavoro, come succedeva durante il periodo della pandemia. In certe famiglie poi uno dei genitori è stato chiamato come riservista: per l’altro può essere ulteriormente complesso continuare a lavorare.
Il settore del turismo era uno dei più importanti del paese e i mesi fra ottobre e dicembre erano considerati “alta stagione”: oggi gli unici hotel che hanno alcune camere occupate sono quelli che ospitano le famiglie che si sono trasferite da zone considerate a rischio. Prima degli attacchi la città di Sderot aveva 30mila abitanti, oggi più del 90 per cento delle persone è stato evacuato e quasi tutti i negozi e le aziende cittadine sono chiuse.
Il governo israeliano ha previsto un piano di aiuti massiccio e definito «senza limiti di spesa»: dovrebbe valere almeno un miliardo di euro, essere più consistente rispetto al periodo del Covid e riguardare tutti i settori e le regioni del paese. Queste misure dovrebbero causare un aumento del debito pubblico di oltre due punti percentuali solo quest’anno, con ricadute più pesanti nel prossimo, soprattutto se la situazione di emergenza dovesse prolungarsi. Ma si tratta di soluzioni gestibili per un paese che – come detto – è meno indebitato della media.
Un intervento è già stato avviato anche per sostenere la valuta locale, lo shekel, che ha perso oltre il 5 per cento dall’inizio del conflitto: oggi servono più di 4 shekel per un dollaro. La Banca centrale per sostenere la valuta nazionale ha venduto 30 miliardi delle sue riserve in dollari. Dall’inizio della guerra gli indici della Borsa di Tel Aviv hanno perso circa il 9 per cento, mentre la contrazione del PIL è stimata intorno al 2 per cento sia quest’anno che il prossimo.
La maggior parte degli economisti ritiene comunque che Israele possa sopportare senza eccessive ripercussioni almeno per alcuni mesi una contrazione dell’economia dovuta alla guerra, oltre che le notevoli spese per sostenerla. In questo senso bisogna anche considerare l’aiuto economico già definito e in arrivo dagli Stati Uniti: l’amministrazione di Joe Biden ha stanziato 14,3 miliardi di dollari, di cui 10,6 destinati ad armamenti. I problemi potrebbero sorgere se la guerra con Hamas dovesse prolungarsi per un periodo molto più lungo o coinvolgere altri paesi e organizzazioni presenti nell’area: è un’ipotesi che al momento è difficile escludere, considerata la poca chiarezza sui tempi dell’invasione di terra e sulle mosse successive.
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