Differenze tra wax e batik
«Oggi molti tessuti colorati che consideriamo africani sono stampati in Cina, ma in Africa arrivarono nell'Ottocento con le conquiste coloniali olandesi sulla costa occidentale e in Indonesia. Il mio amico senegalese Mballo commenta: "Prima usavamo i nostri tessuti indaco o color terra, poi sono arrivati i colonialisti e ci siamo messi ad andare in giro vestiti come selvaggi"»
L’ultima volta che sono andata a trovare il mio amico Ndiobo Mballo, senegalese di Kolda, nella regione meridionale del Casamance, lui aveva gentilmente telefonato a sua figlia Diadia, a Dakar, perché mi accompagnasse al mercato a comprare tessuti.«Sai già cosa cerchi?» mi aveva chiesto, e io, sapendo di parlare con un uomo colto, sì, ma non troppo interessato alla moda, mi ero messa a spiegargli che desideravo dei wax, «sai, quei tessuti tutti pieni di colori?», che naturalmente conosceva molto meglio di me anche se non li indossa mai. Mballo si veste con degli eleganti boubou di cotone bianchi (un colore particolarmente adatto a chi, come lui, è stato in pellegrinaggio alla Mecca), celesti, verdi o gialli.
Per chiacchierare, ho cominciato a dirgli che molti wax oggi sono stampati in Cina, dove vivo, anche se si possono comprare solo online, e che questi tessuti seguono il filo di una storia coloniale cominciata con le conquiste olandesi nella costa africana e dell’Indonesia, nel XVII secolo, e che prima, dunque, in Africa, quelli che oggi chiamiamo tessuti africani non c’erano proprio. Al che Mballo ha esclamato:
«Prima usavamo i nostri tessuti, tinti con il bel blu indaco oppure con la terra, per fare i bogolan. Invece poi sono arrivati i colonialisti e ci siamo messi ad andare in giro vestiti come selvaggi, con i wax multicolori!» Dal momento che stavamo parlando nel cortile di casa sua, dove erano sedute anche sua moglie, sua figlia Awa, e varie nipoti e amiche quasi tutte con addosso dei capi in wax, non sono stata l’unica a scoppiare a ridere.
La circolarità geografica di questo tipo di tessuto e i cambiamenti che ha attraversato nella sua produzione non smettono di sembrarmi affascinanti, come se racchiudessero l’interezza del globo e della storia. E poi, per selvaggi che siano, i wax non smettono di piacermi, anche se quello che oggi chiamiamo wax nasce da un sopruso coloniale che ha conosciuto mille giravolte: wax è la parola inglese che significa cera, ed è il metodo decorativo che da secoli è utilizzato in Indonesia per produrre i batik.
Con uno strumento di ferro dalla punta sottile, chiamato canting, gli artisti del tessuto indonesiani decorano la tela, spesso già tinta di un colore uniforme, facendo colare la cera liquida in modo da creare disegni che resisteranno a un successivo bagno di tintura. In questo modo è possibile procedere ad altre sovrapposizioni di colore, che possono essere ripetute varie volte fino ad arrivare a composizioni sempre più sofisticate e complesse. Messo a bagno in acqua molto calda, il tessuto perderà i residui di cera e diventerà per l’appunto quello che conosciamo come batik. In alcuni casi si possono formare piccole bolle e screpolature in cui s’intrufola altro colore: un’imperfezione non molto apprezzata in Indonesia, dove gli acquirenti giudicano meno pregiato un tessuto con le bolle della cera visibili.
Quando la Compagnia olandese delle Indie orientali, nel XVII secolo, cominciò a conquistare alcune parti dell’Indonesia, i Paesi Bassi erano già presenti in molte altre zone dell’Asia, delle Americhe e anche dell’Africa: nella costa occidentale, in particolar modo in Angola e Ghana e in parte del Senegal, dove gli olandesi avevano cominciato a commerciare con gli abitanti delle zone costiere, per poi continuare la loro espansione anche nelle zone che oggi sono il Sudafrica e la Tanzania. Il commercio si tramutò rapidamente in controllo. Per prendere possesso di parti sempre più importanti dell’arcipelago indonesiano, gli olandesi decisero di arruolare di forza nel loro esercito anche uomini provenienti dall’Africa occidentale. Le fonti storiche non sono del tutto chiare su come i batik indonesiani arrivarono in Africa, per quanto il tramite nederlandese sia assodato. Le due principali teorie sono o che i commercianti olandesi provarono a testare il mercato africano proponendo tessile indonesiano, che riscosse enorme successo, oppure che i batik furono riportati in patria dai soldati africani sopravvissuti alle guerre olandesi di conquista dell’Indonesia, di nuovo con enorme riscontro.
Intorno alla metà dell’Ottocento, convinti di moltiplicare i loro guadagni, alcuni commercianti olandesi decisero di produrre i tessuti in cotone stampato direttamente nei Paesi Bassi: avevano messo a punto una nuova tecnologia che consentiva grande rapidità nella stampa, senza più la meravigliosa lentezza del canting. Il sistema, in parte utilizzato ancora oggi, faceva passare il tessuto attraverso rulli di rame su cui era stata messa la cera secondo il disegno desiderato, per poi immergerlo in un bagno di indaco e tingerlo di blu. Una volta asciugato, il tessuto veniva immerso in un nuovo bagno di tintura con un secondo colore, che si infiltrava nelle crepe della cera spezzatasi durante il primo passaggio, in modo da creare nuovi effetti. Alla fine la cera veniva, e viene, lavata via. Naturalmente i disegni prodotti a macchina erano più grandi e le infiltrazioni del colore sotto la cera creavano bolle bianche striate irregolari. Per questo il tentativo di vendere questi tessuti agli indonesiani, abituati ai loro batik creati lentamente, fu un flop totale. In Africa, invece, i nuovi wax suscitarono entusiasmo, dando inizio a una storia che dura da quasi due secoli.
Le aziende nederlandesi che producevano per l’Africa – tra cui Vlisco, che produce i wax di maggior prestigio, alcuni dei quali chiamati “a stampa giavanese”, ed è l’unica tuttora attiva – cominciarono a mandare rappresentanti nei principali mercati africani per capire come si evolveva il gusto. Così, un po’ per volta, si sviluppò un codice semantico variabile tra paese e paese per cui alcuni disegni si trasformavano in dichiarazioni intelligibili a un’intera comunità.
Prendiamo un motivo classico, dove un uccellino esce volando dalla sua gabbietta. In Senegal si chiama «si tu sors je sors» («esci esco»): se indossano tessuti con questo motivo, le donne senegalesi comunicano al loro compagno che se lui esce a sfarfalleggiare con le altre anche loro si sentono autorizzate a farlo. Un altro esempio, spesso riproposto dalla Vlisco, è un cavallino che salta, chiamato «je cours plus vite que ma rivale» (“corro più veloce della mia rivale»). Nel corso del tempo, però, i wax hanno anche rappresentato i desideri materiali più ambiti: con la diffusione della radio, dei ventilatori, delle scarpe col tacco, dei motorini, o della televisione, furono stampati tessuti decorati con questi desiderabilissimi oggetti. Ancora oggi nei mercati africani si vedono wax con sopra disegni di gioielli, borsette di marca, o anche aeroplani, che contribuiscono a dare a questi tessuti una certa spensieratezza e surrealismo.
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Oggi le cose stanno cambiando di nuovo, in maniera molto rapida perché la Cina ha fatto irruzione nel mercato africano del tessile. La conseguenza è una certa democratizzazione (i “wax” cinesi non sono più fatti con il metodo a cera, ma solo stampati e infatti costano un decimo di quelli olandesi) ma anche la chiusura di molte aziende africane del tessile (alcune succursali di marchi europei come la Vlisco aprirono fabbriche in Africa, più vicino ai principali consumatori) e la crisi di quelle europee che producevano per l’Africa. Resta solo Vlisco che, forte della sua antichità e del suo prestigio, con la marca in evidenza sull’etichetta e sulla cimosa del tessuto, si è data ulteriore prestigio e rilevanza da quando ha cominciato ad assumere designer africani. Il gruppo Vlisco ha anche tre aziende che producono in Africa – Woodin e GTP in Ghana, e Uniwax in Costa d’Avorio – tessuti colorati di diverse pesantezze, sia a wax che a stampa digitale su commissione. I tessuti Vlisco di sei iarde (il taglio standard, ovvero 5.48 metri) continuano a essere un regalo di nozze molto apprezzato, visto che alcune donne misurano la loro ricchezza sulla quantità di tagli di Vlisco che posseggono.
I produttori di tessuti cinesi sono consapevoli del prestigio di Vlisco. Per questo, quando io e Diadia, la figlia del mio amico, siamo andate in giro per Dakar alla ricerca di tessuti, abbiamo trovato marche Blisco, Frisco, Disco, Xvlsco, e via dicendo, con il nome stampato sulle cimose in modo tale che, magari vedendo solo le ultime tre lettere, puoi pensare di essere davanti a un originale. Ma anche i produttori cinesi, ormai, hanno creato alcune aziende più rispettate e riconoscibili – Angel, Hollantex, HighTech, per esempio – che usano ancora un po’ di wax. Altre invece immettono sul mercato tessuti coloratissimi, alcuni più belli di altri, a pochi soldi, con marchi che durano un paio di settimane, e stampe imbizzarrite.
La storia dei tessuti africani è ricchissima di colpi di scena: mentre la dogana dei Paesi dell’Unione Europea e quella statunitense hanno bloccato parte della produzione di cotone cinese per timore che sia stato prodotto sfruttando manodopera prigioniera nel Xinjiang, in Africa il tessile cinese è ormai dominante, come lo è sulle bancarelle dei mercati europei. In Cina i tessuti wax non sono ancora di moda, e quindi vengono prodotti per l’Africa. A Hong Kong dal 1961 c’è un grande edificio, il Chungking Mansions, che ha centinaia di piccolissime stanze d’albergo a poco prezzo dove si fermano anche i trader provenienti dall’Africa o dal subcontinente indiano per comprare in Cina e smistare i prodotti nei loro mercati.
Davanti al Chungking Mansions, in certe giornate, capita di vedere anche grossi pacchi di tessuti wax, soprattutto nelle mani dei commercianti del Ghana, i più numerosi, che vengono imballati per essere spediti in Africa. Dove Diadia e io e mille altri li compreremo contenti, sorridendo di noi stessi se i tessuti sembrano troppo “da selvaggi”, ma dimenticando quasi sempre le storie circolari che raccontano e uniscono la moda al colonialismo alla competizione nell’industria, dall’Asia all’Africa all’Europa. È un contesto esemplare, che dimostra come non bastino gli orrendi soprusi del colonialismo ad assoggettare le persone, e a diminuirne la creatività e la capacità di adattare a sé mille influenze culturali ed economiche.