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  • Giovedì 26 ottobre 2023

Le 142 richieste di arresto per mafia respinte in Lombardia

Erano state chieste dalla procura secondo cui esiste un consorzio tra mafia, ’ndrangheta e camorra, un'ipotesi respinta dal tribunale

(ANSA/FLAVIO LO SCALZO)
(ANSA/FLAVIO LO SCALZO)
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Il giudice per le indagini preliminari (GIP) del tribunale di Milano Tommaso Perna ha accolto soltanto 11 delle 153 misure cautelari chieste dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia (DDA) Alessandra Cerreti, Alessandra Dolci e dal procuratore capo Marcello Viola, nell’ambito di un’inchiesta durata tre anni sulle infiltrazioni mafiose in Lombardia. Secondo il giudice, i magistrati non hanno motivato a sufficienza i fatti contestati agli indagati: non sarebbe stato provato, per esempio, il legame tra i diversi gruppi di criminali e il loro potere intimidatorio sul territorio. Le richieste di misure cautelari sono state respinte soprattutto perché mancherebbero le prove del fatto che gli indagati agissero in associazione tra loro, un requisito essenziale in caso di reati legati alla mafia.

L’indagine della DDA, che nonostante il divieto di dare nomi accattivanti alle inchieste è stata chiamata Hydra, è iniziata nel 2019 dopo un’operazione contro alcuni presunti affiliati alla ’ndrangheta a Lonate Pozzolo, in provincia di Varese. Gli investigatori hanno ricostruito una complessa rete di legami e presunti accordi tra diversi gruppi mafiosi riuniti in un consorzio, una sorta di federazione mafiosa lombarda.

Secondo i magistrati la ’ndrangheta sarebbe rappresentata dalle tre cosche locali di Lonate Pozzolo, di Desio e dalla cosca Romeo originaria di San Luca, in provincia di Reggio Calabria. La mafia sarebbe rappresentata da Stefano e Giuseppe Fidanzati, figlio e fratello di Gaetano, “don Tano”, boss dei corleonesi morto 11 anni fa, e dalla mafia di Castelvetrano legata a Matteo Messina Denaro. La camorra sarebbe rappresentata invece da emissari del clan Senese, attivo soprattutto a Roma. Nell’inchiesta vengono citati anche diversi altri gruppi come i catanesi vicini al boss Santo Mazzei e alcuni esponenti della Stidda, la quinta mafia attiva a Gela e in provincia di Agrigento.

In una delle intercettazioni allegate all’inchiesta l’esponente del clan Senese Emanuele Gregorini, detto “Dollarino”, parla con Gioacchino Amico, vicino alla mafia palermitana e trapanese: «Qua è Milano! Non ci sta Sicilia, non ci sta Roma, non ci sta Napoli, le cose giuste qua si fanno». Amico aggiunge: «Abbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzare tutto da Milano, passando dalla Calabria, da Napoli, ovunque». Tra gli indagati c’è anche Paolo Aurelio Errante Parrino, condannato più volte per mafia, che secondo la procura avrebbe avuto rapporti con Matteo Messina Denaro fino al suo arresto avvenuto a gennaio.

– Leggi anche: Chi era Matteo Messina Denaro

Il consorzio mafioso avrebbe fatto affari nel settore edilizio e in diversi altri attraverso lo sfruttamento delle regole lasche del Superbonus, la gestione di mercati e parcheggi di ospedali e aeroporti, gli appalti dei servizi di pulizia. Sono tutti ambiti in cui già in passato era emerso l’interesse della criminalità organizzata, principalmente allo scopo di riciclare denaro. Secondo i magistrati, gli accusati avrebbero creato un’organizzazione che «agisce in modo indipendente rispetto alle singole componenti» con «un proprio e autonomo programma», con «regole e ritorsioni per chi le viola», e capace di «contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario».

Nell’ordinanza scritta per respingere le richieste di misure cautelari, il GIP Tommaso Perna ha spiegato che non è stato possibile accertare l’esistenza di un consorzio mafioso perché «è del tutto assente la prova dell’esistenza del vincolo associativo tra tutti i sodali rispetto al sodalizio consortile» e perché manca «l’esternazione del metodo mafioso che deve caratterizzare l’unione tra persone e beni, tale da assurgere al rango di un fatto penalmente rilevante».

I rapporti e gli incontri tra diversi indagati sarebbero insomma basati su conoscenze personali, senza interessi legati ai singoli affari, anche se illeciti. E questo «diversamente da quanto ipotizzato dalla pubblica accusa non costituisce un elemento innovativo nel contesto lombardo», ha scritto il giudice, che ha giudicato le prove portate dalla procura come suggestive e scarsamente rilevanti. Inoltre non sarebbero state accertate forme di violenza o minaccia. «Persino gli episodi estorsivi, così come la disponibilità di armi» oltre che «limitati nel numero e qualitativamente non “gravi”» sono rimasti «per lo più indimostrati», ha scritto Perna.

Alla fine sono state concesse soltanto misure cautelari per 11 indagati accusati di porto d’armi abusivo, estorsioni aggravate dal metodo mafioso, minaccia aggravata, traffico di droga ed evasione fiscale. Inoltre è stato ordinato il sequestro di beni per 225 milioni di euro. La procura ha fatto ricorso al tribunale del Riesame.

Repubblica ha raccontato un confronto piuttosto acceso tra i magistrati e il giudice in merito al rifiuto delle misure cautelari. Nel ricorso presentato al tribunale del riesame, la procura ha denunciato il metodo utilizzato dal GIP che avrebbe copiato e incollato 13 passaggi della sua ordinanza da un blog dell’avvocato Salvatore Del Giudice, un penalista napoletano non specializzato in casi legati alla criminalità organizzata.

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