Continuiamo a costruire in zone pericolose
Tra il 2021 e il 2022 in Italia sono stati costruiti nuovi edifici o strade su 57 chilometri quadrati dove potrebbero avvenire alluvioni, frane o terremoti
Tra il 2021 e il 2022 in Italia sono stati costruiti nuovi edifici o strade su 57 chilometri quadrati di terreno, precedentemente occupato solo da erba e boschi, all’interno di aree esposte, in una misura o in un’altra, a pericolo di disastri naturali: alluvioni, frane o terremoti. Complessivamente si tratta di una superficie paragonabile a quella di una piccola città capoluogo di provincia come Udine.
Dal 2006, cioè da quando abbiamo dati a disposizione per valutare il consumo di suolo, la superficie del territorio italiano in qualche modo “cementificata”, cioè coperta con strutture artificiali, è sempre aumentata: complessivamente, nei 16 anni per cui disponiamo di dati, di una superficie pari al territorio del comune di Roma, che con i quasi 1.300 chilometri quadrati è il più grande d’Italia. Ed è sempre aumentato anche il suolo consumato nelle aree dove è più probabile che avvengano alluvioni, frane e terremoti.
I dati provengono da Consumo di suolo in Italia 2023, l’ultima edizione di un rapporto fatto annualmente dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), un ente di ricerca pubblico, per tenere traccia di quanto suolo venga coperto di anno in anno. Il suolo ha infatti una grande importanza biologica, economica (per la produzione di cibo) e ambientale in senso ampio. Tra le altre cose, assorbe, conserva e filtra l’acqua, e quindi il suo stato contribuisce a determinare gli effetti di eventi meteorologici estremi come siccità e alluvioni. Inoltre può essere considerato una risorsa non rinnovabile perché una volta edificato o coperto da strade pavimentate servono interventi lunghi e costosi di demolizione e de-impermeabilizzazione per ripristinare lo stato “naturale” di suolo non coperto.
Il consumo e il degrado del suolo sono insomma un problema e per questo varie convenzioni delle Nazioni Unite parlano della sua tutela, prevista anche dall’Unione Europea. Nel 2021 la Commissione Europea ha approvato una strategia per il suolo che tra le altre cose ha fissato l’obiettivo di raggiungere entro il 2050 lo stato di “consumo netto di suolo pari a zero”, cioè di non consumare più nuovo suolo senza ripristinarne altrettanto di quello coperto.
Per quanto riguarda il suolo in zone a pericolosità idraulica, l’ultimo rapporto dell’ISPRA dice che tra il 2021 e il 2022 è aumentato soprattutto in Emilia-Romagna, dove sono stati coperti 92 ettari (0,92 chilometri quadrati) di suolo in aree a pericolosità idraulica elevata, 433 ettari (4,33 chilometri quadrati) in aree a pericolosità idraulica media e 493 ettari (4,93 chilometri quadrati) in aree a pericolosità idraulica bassa. L’Emilia-Romagna, dove a maggio ci sono state alluvioni disastrose, è una delle regioni italiane il cui territorio è più esposto al pericolo idraulico.
Costruire in queste zone non è vietato. Cosa si può costruire e il modo in cui lo si deve fare «dipende dalle norme specifiche dei vari piani regolatori locali», spiega Michele Munafò di ISPRA, curatore del rapporto sul consumo di suolo, «che non necessariamente vincolano la possibilità di costruire, anche a seconda del grado di pericolosità». Molto spesso nelle aree a pericolosità idraulica media ad esempio si può costruire prevedendo degli interventi che riducano i rischi presenti in quel luogo specifico, ad esempio un nuovo argine che protegga ciò che è stato costruito da un vicino corso d’acqua.
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Così facendo si può cambiare lo stato di pericolosità dell’area in questione, che viene stabilito sulla base di vari parametri: il rapporto dell’ISPRA non dà conto di cambiamenti di questo genere perché i suoi dati sono basati sulle mappe dei territori con pericolosità non ancora aggiornate sulla base dei nuovi interventi.
Questo non significa che costruire in zone a pericolosità idraulica non sia in generale problematico. «L’aumento dell’impermeabilizzazione in aree già a rischio idraulico, nel complesso, non fa che aumentare la pericolosità stessa del territorio», continua Munafò. «Magari io riesco a risolvere un problema in un ambito specifico, ma poi, semplificando molto, l’acqua che piove è quella che è, e se quell’acqua non si infiltra più nel suolo in un certo punto, non viene più rallentata in quel punto, ma scorre in superficie, da qualche parte andrà, e questo significa aumentare la pericolosità idraulica del territorio, aumentare ulteriormente la necessità di bacini di laminazione ad esempio, quindi di altre opere infrastrutturali».
Attualmente la regione con la maggior percentuale di suolo consumato in aree a pericolosità idraulica per tutti e tre gli scenari è la Liguria, dove si è costruito sul 23 per cento del territorio a pericolosità idraulica elevata (i dati percentuali sulle Marche sono più alti, ma questo dipende dal fatto che la Regione non ha ancora realizzato mappe di pericolosità affidabili).
Per quanto riguarda le aree a pericolosità da frana, tra il 2021 e il 2022 sono stati consumati 529 ettari di suolo, di cui 45,8 in aree a pericolosità molto elevata e 80,1 in aree a pericolosità elevata, i due livelli più alti dei cinque in cui si divide la scala della pericolosità da frana. La Campania è la regione in cui si è consumato più suolo in termini assoluti in queste zone, seguita da Marche e Toscana; bisogna tenere conto che in tutte e tre queste regioni una grande parte del territorio è a pericolosità di frana secondo le mappe dell’ISPRA.
Infine per quanto riguarda le aree a pericolosità sismica alta e molto alta, l’aumento del consumo di suolo rispetto al 2021 a livello nazionale è di 2.513 ettari (25,13 chilometri quadrati). In termini assoluti gli aumenti maggiori sono stati in Emilia-Romagna, Sicilia, Puglia e Campania, prevalentemente in zone a pericolosità sismica alta.
«Evitare di costruire sarebbe il modo più saggio e più normale per evitare di mettere a rischio i territori e di aumentare la pericolosità complessiva», dice sempre Munafò: «Quindi anche in questi casi riteniamo che sia importante riutilizzare l’esistente e addirittura, in certi contesti, arrivare alla delocalizzazione, quindi spostare situazioni a rischio ed evitare di fare grandi opere per mettere in sicurezza edifici o fabbricati realizzati in passato».
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