Israele non sa ancora cosa fare con l’invasione della Striscia di Gaza
È stata più volte definita imminente, e poi ritardata: ci sono problemi diplomatici ma soprattutto militari, e nessuna opzione favorevole
Negli ultimi giorni numerosi esponenti del governo e dell’esercito di Israele hanno parlato piuttosto apertamente della futura invasione di terra della Striscia di Gaza, e di come intendono condurla. Ma il fatto che a più di due settimane dal massacro di civili commesso da Hamas lo scorso 7 ottobre l’esercito israeliano non abbia ancora invaso è probabilmente un sintomo del fatto che ci sono ancora molte incertezze su come portare avanti l’operazione di terra e, soprattutto, su quale potrebbe essere una “exit strategy”: in che modo cioè l’esercito israeliano potrebbe concludere l’operazione a Gaza senza trasformarla in un disastro, per Israele e per la popolazione palestinese.
A rallentare l’inizio dell’operazione di terra in questo momento ci sono vari fattori. In parte sono diplomatici e umanitari: una grossa parte della comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti, sta facendo pressione su Israele per ritardare l’inizio dell’invasione della Striscia, consentire l’ingresso di aiuti umanitari per la popolazione civile e negoziare la liberazione degli ostaggi. Ma la ragione principale del ritardo è con ogni probabilità militare: come ha scritto il New York Times, la battaglia dentro alla Striscia di Gaza potrebbe trasformarsi nel più intenso combattimento urbano dai tempi della Seconda guerra mondiale.
I comandi militari e la leadership politica di Israele stanno facendo dichiarazioni piuttosto contraddittorie su quando e come avverrà l’invasione di terra. Tutti concordano – praticamente senza dissensi – che l’invasione ci sarà, ma sul resto la comunicazione sembra confusa. In più di un’occasione negli ultimi giorni i portavoce dell’esercito hanno detto che i militari sono pronti all’invasione, e che stanno aspettando soltanto l’assenso definitivo da parte del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Al tempo stesso, però, lunedì la radio dell’esercito israeliano ha detto che Israele ha deciso di «ritardare la battaglia di terra» perché sta attendendo l’arrivo di nuovi rinforzi da parte degli Stati Uniti.
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A livello politico, la settimana scorsa il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha detto, in un discorso ai soldati, che «presto» vedranno «dall’interno» la Striscia di Gaza: «l’ordine [di invasione] arriverà». Al tempo stesso, però, numerosi resoconti pubblicati sui media continuano a parlare del fatto che l’invasione potrebbe ritardare ancora per giorni, se non per settimane. Domenica il New York Times ha scritto che l’amministrazione statunitense di Joe Biden ha chiesto al governo israeliano di ritardare l’inizio dell’invasione.
Il ritardo percepito dell’invasione, e la comunicazione spesso contraddittoria attorno a quando comincerà, è probabilmente da attribuire al fatto che Israele si trova in una situazione eccezionalmente complessa, in cui le opzioni favorevoli praticamente non esistono. Dal punto di vista diplomatico si sta chiudendo quella che l’Economist ha definito la «finestra di legittimità» per un’invasione di terra, cioè il momento in cui Israele può godere del sostegno incondizionato dell’Occidente e di parte della comunità internazionale sull’onda della commozione per gli attacchi del 7 ottobre.
Se nei giorni immediatamente successivi all’attacco di Hamas sembrava che la comunità internazionale avrebbe sostenuto Israele a ogni costo, più di recente numerosi paesi occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, hanno avviato campagne di pressione intense per moderare e razionalizzare la risposta militare di Israele, fare in modo che sia più mirata e che eviti il rischio che il conflitto si estenda anche a livello regionale.
A questo si aggiungono i negoziati per il rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre e per l’ingresso di aiuti umanitari in favore della popolazione di Gaza stremata da più di due settimane di bombardamenti e di «assedio totale».
Inoltre alcuni giornali hanno segnalato che potrebbe essere in corso in Israele uno scontro interno tra i comandi militari e la leadership politica, che potrebbe essere una delle ragioni per cui la comunicazione attorno all’invasione di terra è così contraddittoria. I militari spingono per cominciare l’operazione il prima possibile, anzitutto per ragioni pratiche (i 360 mila riservisti che Israele ha radunato non possono essere tenuti in stato di massima allerta a oltranza) sia per ragioni politiche. Il giornalista di Repubblica Daniele Raineri ha parlato di una «crisi paralizzante» che riguarda la responsabilità per non aver saputo prevedere l’attacco di Hamas del 7 ottobre: «Netanyahu, secondo la stampa israeliana, vorrebbe addossare ai generali la responsabilità per non avere capito che Hamas stava per lanciare l’attacco più grande contro i civili israeliani della sua storia. I generali sono in rotta con Netanyahu perché non è ancora chiaro cosa vuole ottenere con l’invasione di Gaza e come».
Ma il problema principale riguarda soprattutto la strategia militare. Anzitutto, quasi tutti gli esperti concordano sul fatto che la guerra urbana dentro alla Striscia di Gaza rischia di essere violentissima e di provocare un alto numero di perdite per Israele – oltre che una strage di civili palestinesi.
In questi giorni molti analisti americani stanno facendo paragoni con le guerre combattute in Iraq. Damien Cave ha scritto sul New York Times «Pensate […] alla battaglia lunga nove mesi per sconfiggere lo Stato Islamico a Mosul nel 2016, che portò a 10.000 morti tra i civili. Poi moltiplicatene la portata distruttiva, forse a livello esponenziale. Hamas ha il triplo o il quintuplo dei combattenti dello Stato Islamico a Mosul, forse 40 mila in tutto. Può trarre ulteriori riserve da una popolazione giovane e rabbiosa, e ha il sostegno internazionale di paesi come l’Iran. Anche da sola, Hamas ha avuto anni per prepararsi alla battaglia in tutta Gaza, e soprattutto nelle strade delle città, dove la superiorità dei carri armati e delle munizioni di precisione può essere eliminata dalle tattiche di guerriglia».
Davanti a questa prospettiva, la leadership politica israeliana sembra incerta. Come ha detto Tom Beckett, un ex ufficiale britannico oggi analista del centro studi International Institute for Strategic Studies, «in verità per Israele non ci sono opzioni favorevoli in una operazione di terra a Gaza».
C’è poi l’ulteriore problema di cosa fare dopo l’invasione. Anche immaginando che l’operazione di terra abbia successo e che Israele riesca effettivamente a sradicare e distruggere Hamas, non è ancora chiaro cosa potrebbe succedere alla Striscia di Gaza e alla popolazione palestinese in seguito.
Le parole più esplicite su questo sono arrivate da Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano, che ha parlato di una strategia in tre fasi. La prima è quella dei bombardamenti, tuttora in corso. Poi ci sarà la manovra di terra «con l’obiettivo di […] sconfiggere e distruggere Hamas». Infine la terza fase sarà quella di creare «un nuovo regime di sicurezza nella Striscia di Gaza, rimuovere la responsabilità di Israele sulla vita quotidiana nella Striscia di Gaza e creare una nuova realtà di sicurezza per i cittadini di Israele e per i residenti» dell’area vicina a Gaza.
Né Gallant né altri membri dell’establishment israeliano, tuttavia, hanno davvero spiegato cosa intendano per «nuovo regime di sicurezza». Alcuni parlano della possibilità che la responsabilità sulla Striscia sia trasferita all’Autorità palestinese, che però è estremamente debole e priva di legittimità.
Di fatto sembra che Israele non abbia davvero un piano per il dopo. In questi giorni lo stanno scrivendo molti giornali anglosassoni, che probabilmente ottengono le loro informazioni da fonti vicine all’amministrazione americana. Il Financial Times, per esempio, ha fatto un racconto piuttosto movimentato, in cui una fonte anonima dice: «Non c’è un piano per il “day after”. Il sistema [israeliano] non ha ancora deciso. Quando hanno scoperto che non c’era un piano, gli americani sono diventati pazzi».
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