Joe Biden voleva tenersi lontano dal Medio Oriente
Come vari presidenti americani prima di lui: ma la guerra tra Israele e Hamas ha cambiato le cose
Quando Joe Biden si insediò alla Casa Bianca, all’inizio del 2021, nominò un veterano della politica estera americana, Brett McGurk, come responsabile della sua amministrazione per il Medio Oriente e il Nord Africa. Il compito che fu dato a McGurk al tempo era molto chiaro: tenere le questioni relative al Medio Oriente lontane dalla scrivania del presidente. E il motto del suo operato avrebbe dovuto essere: «Nessun nuovo progetto», come a indicare il fatto che la Casa Bianca di Joe Biden era concentrata su altre aree del mondo, e che il suo obiettivo in Medio Oriente non era tanto creare grandi piani ambiziosi, ma «minimizzare le prospettive di una nuova crisi».
Queste indiscrezioni sono contenute nel libro The Last Politician del giornalista americano Franklin Foer, e mostrano piuttosto chiaramente come l’amministrazione di Joe Biden avesse una politica estera che prevedeva una progressiva riduzione dell’impegno degli Stati Uniti nel Medio Oriente. L’attacco di Hamas contro i civili israeliani del 7 ottobre e la risposta di Israele contro la Striscia di Gaza hanno sconvolto questa prospettiva, e costringeranno gli Stati Uniti (e di riflesso un po’ tutto l’Occidente) a spostare nuovamente attenzioni e risorse, anche militari, sul Medio Oriente.
Questo spostamento sta già avvenendo: un buon esempio sono le risorse militari. Negli ultimi anni gli Stati Uniti avevano man mano ridotto la quantità di soldati e mezzi militari in Medio Oriente, con l’idea di rivolgere la loro attenzione a minacce ritenute più pressanti, come l’imperialismo russo e la politica estera sempre più aggressiva della Cina. In particolare, gli Stati Uniti avevano spostato molte risorse navali nella regione dell’Indo Pacifico (che comprende Asia orientale e India). Ma dopo l’attacco contro i civili israeliani del 7 ottobre, e con la prospettiva che la guerra tra Hamas e Israele si estenda anche ai paesi vicini, gli Stati Uniti hanno dovuto rimandare uomini e mezzi in Medio Oriente.
Nel Mediterraneo orientale per la prima volta dal 2020 sono arrivate due portaerei assieme, e siccome le portaerei si muovono sempre con altre navi da guerra (si parla di un “gruppo di battaglia”), averne due nella stessa zona significa spostare più di dieci navi da guerra e circa 12 mila uomini. Gli Stati Uniti hanno riportato nella regione altre decine di navi da guerra e caccia F-35 e F-16. Il Wall Street Journal ha scritto che il dipartimento della Difesa americano si starebbe anche preparando alla possibilità di inviare nella regione 2.000 soldati, buona parte dei quali in Israele con funzione di deterrenza (cioè per evitare attacchi da parte degli stati vicini).
Buona parte di questo spostamento di forze dovrebbe essere temporaneo ma, come ha scritto sempre il Wall Street Journal, la crisi tra Israele e Hamas potrebbe essere di lunga durata.
Questa dinamica di un’amministrazione americana che cerca di concentrare le sue attenzioni in politica estera e poi viene distolta da una grave crisi mediorientale non è esclusiva dell’amministrazione di Joe Biden, anzi. È da oltre vent’anni che gli Stati Uniti cercano di ridurre il proprio impegno in Medio Oriente, inutilmente. Un buon esempio di questo andamento è il cosiddetto “pivot to Asia”, cioè il “perno verso l’Asia”: un’espressione che indicava il fatto che gli Stati Uniti dovessero concentrare la propria politica estera sull’Asia e abbandonare la loro tradizionale attenzione su Europa e Medio Oriente.
È controintuitivo pensarlo adesso, ma il primo presidente che, in maniera ancora abbozzata ed embrionale, fu eletto sostenendo che gli Stati Uniti dovessero reindirizzare la propria politica estera verso l’Asia fu George W. Bush (2001–2009). Gli attacchi terroristici compiuti da al Qaida l’11 settembre del 2001 contro New York e Washington sconvolsero questi progetti, e Bush trascinò gli Stati Uniti in guerre fallimentari prima in Afghanistan e poi in Iraq.
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Ci riprovò Barack Obama (2009–2017), la cui amministrazione inventò l’espressione “pivot to Asia”. Anche lui, però, fu coinvolto in gravissime crisi mediorientali, come le primavere arabe (le grosse rivolte contro regimi autoritari in carica da decenni in Nord Africa e Medio Oriente), l’emergere dell’ISIS in Siria e Iraq e la guerra civile in Libia. Il suo successore Donald Trump (2017–2021) è stato paradossalmente quello che è riuscito a concentrarsi sull’Asia, e in particolare sulla Cina, con maggiore costanza, anche se con risultati decisamente alterni a causa di una politica estera ondivaga e poco efficace.
Biden, infine, sembrava sulla buona strada per completare il “pivot to Asia” a cui aveva partecipato quando era vicepresidente sotto Obama. Soprattutto a questo servivano le istruzioni date a Brett McGurk, di tenere il Medio Oriente lontano dalla scrivania del presidente. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 le preoccupazioni in politica estera degli Stati Uniti si erano estese anche alla sempre maggiore minaccia russa, e il Medio Oriente era diventato ancora più marginale.
Questo non significa che l’amministrazione Biden non avesse una strategia per il Medio Oriente. La sua prima (e disastrosa) grossa azione in politica estera, anzi, era stato il ritiro di tutte le truppe americane dall’Afghanistan, un’operazione che molti avevano giudicato affrettata e che testimoniava sia la volontà di Biden di porre fine a vent’anni di occupazione americana del paese, sia quella di liberare risorse e mezzi per volgere altrove la propria politica estera.
Dopo il disastroso ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan nell’agosto del 2021, tuttavia, l’amministrazione statunitense aveva seguito una politica mediorientale che era stata definita «un miraggio», «immaginaria» e, nel migliore dei casi, «creativa». Questa politica si basava sull’idea che il modo migliore per stabilizzare la regione era rafforzare i legami economici e diplomatici tra Israele e i paesi arabi e perseguire gli “Accordi di Abramo” che erano stati avviati da Donald Trump e che prevedevano la normalizzazione delle relazioni diplomatiche ed economiche tra Israele e vari paesi arabi. L’idea era che se il mondo arabo avesse riconosciuto Israele e avesse rafforzato i reciproci legami commerciali e politici, la regione avrebbe avuto migliori garanzie di stabilità e sicurezza.
Qualche settimana fa questa politica era molto vicina al suo maggiore successo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il più importante e influente degli stati arabi, l’Arabia Saudita. Il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese sta rischiando però di trasformare questi progetti in un fallimento.
Paradossalmente, uno degli elementi più trascurati dalla politica mediorientale di Biden era proprio la questione palestinese. A febbraio di quest’anno McGurk aveva tenuto un discorso all’Atlantic Council, un influente centro studi americano, in cui delineò la «dottrina Biden per il Medio Oriente». Non aveva pronunciato le parole “Palestina” o “palestinesi” nemmeno una volta.