Forse Dracula era vegetariano
E soffriva di emolacria, sangue nelle lacrime: lo ipotizza uno studio di paleoproteomica, una particolare analisi di tracce biochimiche
Un articolo di biologia molecolare pubblicato ad agosto sulla rivista scientifica Analytical Chemistry ha presentato i risultati di un’analisi delle tracce di biomolecole ritrovate su tre lettere scritte da Vlad III di Valacchia, noto anche come Vlad Tepes, nobile e condottiero rumeno del XV secolo a cui si ispirò lo scrittore irlandese Bram Stoker per creare il personaggio Dracula. I risultati hanno ricevuto diverse attenzioni su alcuni media perché definiti da uno dei coautori dello studio, pur tra molte cautele e con grande approssimazione, teoricamente compatibili con l’ipotesi che l’alimentazione di Vlad III non includesse carne, per necessità e mancanza di alternative.
Oltre che per questa supposizione, basata su risultati comunque molto parziali, l’articolo ha attirato curiosità e interesse per altre ipotesi che suggerisce e per la tecnica utilizzata dal gruppo di ricerca, in parte composto da ricercatori e ricercatrici del laboratorio di spettrometria di massa organica dell’Università degli Studi di Catania. Ha accresciuto inoltre la relativa popolarità di un ambito di ricerca in espansione già da alcuni anni: la paleoproteomica, cioè l’analisi del complesso di proteine recuperate da resti di materiali paleontologici e beni culturali come oggetti personali, lettere autografe e altri documenti.
L’analisi delle tre lettere di Vlad III – una del 1457 e due del 1475 – ha permesso di individuare e isolare migliaia di peptidi, l’unione di due o più molecole di aminoacidi, che costituiscono le proteine. Tra quelli che mostravano segni di degrado coerenti con un’età di oltre 500 anni, circa cento peptidi erano di origine certamente umana, e più o meno duemila provenivano dall’ambiente. I dati analizzati non possono essere considerati esaustivi, stando alle conclusioni del gruppo di ricerca, ma potrebbero indicare che, compatibilmente con alcuni racconti, Vlad III abbia sofferto negli ultimi anni della sua vita di emolacria, una condizione clinica rara che porta alla produzione di sangue nelle lacrime. Ed è anche probabile che abbia sofferto di processi infiammatori delle vie respiratorie e della pelle. Il gruppo di ricerca comunque non ha tratto conclusioni sulla relazione tra queste condizioni (comunque difficili da confermare) e le caratteristiche del personaggio letterario di Stoker.
Secondo lo studio, sebbene altre persone abbiano verosimilmente maneggiato le lettere all’epoca, è presumibile che le proteine antiche più importanti siano correlate a Vlad III, che scrisse e firmò queste lettere. L’interpretazione dei dati ha inoltre permesso di ricostruire attraverso l’analisi di migliaia di peptidi non umani, riconducibili a batteri, virus e funghi, le condizioni ambientali della Valacchia, una regione storico-geografica dell’attuale Romania meridionale, nella seconda metà del XV secolo, un periodo di clima eccezionalmente freddo in Europa. In quel periodo la Valacchia era un punto d’incontro strategico per soldati, schiavi e mercanti provenienti da tutta Europa e dal Medio Oriente, ed è probabile che questi flussi abbiano favorito non soltanto la circolazione di beni commerciali e tradizioni culturali, ma anche di malattie ed epidemie.
Uno dei coautori dello studio è l’israeliano di origini kazake Gleb Zilberstein, tra i più conosciuti ricercatori impegnati in questo tipo di analisi su materiali paleontologici e documenti antichi. È stato lui, come recentemente raccontato dal New Yorker, a recuperare negli archivi della città di Sibiu, in Romania, le tre lettere di Vlad III, di cui due in perfette condizioni. «Queste molecole sono più stabili del DNA e forniscono maggiori informazioni sulle condizioni ambientali, sulla salute, sullo stile di vita e sull’alimentazione del personaggio storico a cui appartenevano le molecole», disse Zilberstein al Guardian parlando delle tecniche utilizzate per lo studio.
Sorpreso dall’assenza di proteine alimentari di origine animale tra i campioni analizzati, Zilberstein aveva in seguito parlato al quotidiano inglese Times dell’alimentazione di Vlad III ipotizzabile a partire dall’analisi delle lettere, tra cui una scritta il 4 agosto 1475 agli abitanti della città di Sibiu, in Romania. Tutti i peptidi ritrovati nei campioni e solitamente associati all’alimentazione umana provenivano da frutta e verdura, e alcune tracce da funghi e moscerini della frutta.
Questi dati, secondo Zilberstein, sono compatibili con l’ipotesi che l’alimentazione di Vlad III, che non includeva carne ma soltanto verdura e frutta piuttosto matura, fosse condizionata dal clima particolarmente freddo nell’Europa del XV secolo e dalla scarsità di cibi molto proteici all’epoca in Valacchia. «Il prototipo del vampiro potrebbe essere stato vegetariano o vegano», aveva detto Zilberstein: non per scelta etica, ma per ragioni di salute o per mancanza di alternative, dal momento che «secondo i bioarcheologi gli aristocratici di tutta Europa avevano una dieta molto povera e la carne non veniva mangiata spesso».
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Per comprendere come siano possibili analisi come quelle condotte sulle lettere di Vlad III di Valacchia è utile riprendere alcune nozioni di biologia. Contrapposta alla genomica, che si occupa dei geni umani, la proteomica è la branca della biologia molecolare che studia come le diverse proteine codificate da quei geni interagiscono negli organismi viventi. Ogni proteina ha le proprie caratteristiche, determinate dalle catene di aminoacidi da cui è costituita e dalla forma che assume ripiegandosi su sé stessa. E ogni forma determina a una funzione specifica, tra le moltissime assolte dalle proteine negli esseri viventi (dalla regolazione del metabolismo alla risposta agli stimoli o al trasporto delle molecole).
La proteomica cerca di comprendere sia le relazioni tra le proteine, sia come queste si ripieghino su sé stesse e a quali funzioni assolvano. E per farlo utilizza varie tecniche, metodi e strumenti di laboratorio, tra cui gli spettrometri di massa, dispositivi che servono a selezionare e studiare – una molecola alla volta – migliaia di tipi di proteine contenute all’interno di un campione. Lo studio del complesso delle proteine espresse da un determinato organismo (proteoma), sia in condizioni fisiologiche che a seguito di alterazioni proteiche, permette di comprendere i meccanismi alla base dell’insorgenza delle malattie e, potenzialmente, di individuarne i primi indizi.
Sfruttando il fatto che le proteine tendono a degradarsi più lentamente del DNA e possono, nelle giuste condizioni, rimanere pressoché invariate per milioni di anni, da circa due decenni un gruppo di scienziati utilizza metodi e strumenti della proteomica su opere d’arte e resti archeologici, espandendo le prospettive di ricerca di una branca nota appunto come paleoproteomica. Studi di questo tipo, argomento di un lungo articolo del New Yorker nel 2018, hanno permesso negli ultimi anni di raccogliere varie informazioni biologiche, come per esempio la presenza di sottilissimi strati di colla di pesce su sculture religiose del XVII secolo e denti da latte umani in fosse di resti fossili risalenti al Neolitico.
Sebbene sia un ambito di ricerca in rapida espansione, i cui metodi e strumenti sono peraltro migliorati nel tempo a fronte dei continui progressi nel campo delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale, attualmente la proteomica ha una serie di limiti.
Uno riguarda la conservazione dei materiali, e il fatto che il legame tra proteine e minerali sia un processo complesso e non ancora studiato in modo sistematico nei contesti archeologici. Un altro problema riguarda la fragilità stessa dei materiali e i danni provocati da alcune tecniche di campionamento. E un altro limite riguarda l’incompletezza dei database di riferimento utilizzati per individuare le proteine antiche, peraltro spesso danneggiate, nei materiali archeologici: condizione che può incrementare la probabilità di falsi positivi e falsi negativi.
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