Fare i giornalisti a Gaza
La stampa internazionale non può entrare, sono rimasti solo i corrispondenti o i collaboratori palestinesi: la loro vita quotidiana è molto difficile
Nessun giornalista internazionale può entrare nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas a Israele. Il governo israeliano ha immediatamente chiuso l’unico varco che era utilizzabile in passato dai giornalisti per entrare nella Striscia, quello di Erez.
Sono rimasti solo i giornalisti palestinesi a raccontare i bombardamenti israeliani, l’evacuazione del nord dell’area, l’emergenza umanitaria e in generale la complicatissima vita quotidiana di 2,3 milioni di persone che abitano nella Striscia: in certi casi sono dipendenti fissi di grandi organizzazioni giornalistiche, come AP, BBC, Reuters e Al Jazeera, più spesso sono collaboratori dei media internazionali, che nel giornalismo anglosassone vengono definiti stringer.
Per tutti il lavoro è particolarmente complesso: si tratta di testimoniare quello che sta succedendo, coscienti che il proprio lavoro è spesso l’unica possibilità per far conoscere all’estero la reale situazione degli abitanti di Gaza, ma al tempo stesso la maggior parte deve anche mettere in salvo sé e le proprie famiglie. Come chiunque sia all’interno della Striscia di Gaza anche i giornalisti devono occupare una buona parte della loro giornata nella ricerca di cibo, acqua, energia elettrica e di un riparo sicuro in caso di bombardamenti. A queste necessità si aggiunge quella di una rete internet stabile per trasmettere foto, video, audio e testi.
Come sottolineato da molti, le difficoltà di raccogliere notizie da Gaza e l’assenza di giornalisti internazionali sta creando un certo sbilanciamento nel racconto delle sofferenze dei palestinesi, rispetto alla copertura di quelle dei civili israeliani. H.A. Hellyer, ricercatore dell’istituto londinese Royal United Services, ha detto al Financial Times: «Ci sono schiere di giornalisti internazionali in Israele che possono raccontare ogni dettaglio di tutte le atrocità avvenute lì, ma non c’è nessuna copertura di una profondità simile dell’incredibile catastrofe umanitaria che sta avvenendo a Gaza».
Dall’inizio della guerra sono almeno ventidue i giornalisti morti, secondo quanto riportato da un rapporto del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), un’associazione non profit internazionale che difende la libertà di stampa. Diciotto dei giornalisti morti erano palestinesi, tre israeliani e uno libanese: la gran parte dei palestinesi erano giornalisti e fotografi freelance, cioè non direttamente dipendenti di un’azienda dei media, ma liberi professionisti che vendono i loro reportage a diversi giornali o televisioni.
Amira Yassin è corrispondente per il canale in lingua araba Al Hurra, finanziato dal governo statunitense: «Ho raccontato tutte le guerre e le tensioni fra Israele e Gaza, ma non ho mai lavorato in condizioni tanto difficili: ho lasciato casa mia il 7 ottobre e non ci sono più potuta tornare». Rushdi Abualouf è invece corrispondente della BBC e racconta di aver dovuto cambiare due case, insieme alla sua famiglia, dopo che erano arrivati avvertimenti di un imminente bombardamento israeliano: «Sono di nuovo senza casa e sinceramente non so cosa fare, faccio fatica a trovare cibo e acqua. Per vent’anni ho raccontato le storie di altre persone e le loro sofferenze, ma stavolta sto vivendo la storia e ne sono parte».
Altri giornalisti hanno dovuto rinunciare a lavorare, come Fathy Sabbah, direttore del sito di news palestinese Masdar, che racconta che lui e i suoi colleghi sono riusciti ad andare avanti nei primi sei giorni di guerra, ma poi hanno dovuto rinunciare per mancanza di energia elettrica e di rete internet. L’ordine di evacuazione del nord della Striscia arrivato dall’esercito israeliano ha costretto AP, AFP e i rispettivi dipendenti a lasciare gli uffici di Gaza: le agenzie sono comunque riuscite a inviare quotidianamente foto, video e testimonianze. Ibrahim Dahman ha raccontato per CNN il viaggio che dal nord della Striscia lo ha portato verso sud, in compagnia della moglie e dei due figli, di sette e undici anni.
Youmna El Sayed, di Al Jazeera, è stata la prima giornalista a raccontare al mondo la risposta israeliana dopo gli attacchi di Hamas. Ha deciso di tornare nel nord della Striscia di Gaza, con tutta la sua famiglia: "Se devo morire voglio farlo a casa mia, con dignità" pic.twitter.com/XrMzBD3wRx
— Tg3 (@Tg3web) October 19, 2023
Come raccontato da AP, la presenza di corrispondenti e collaboratori sul campo resta comunque fondamentale per i grandi media internazionali. Sui siti e sui social media sono presenti una grande quantità di video e notizie provenienti dalle zone di guerra, ma l’ampia diffusione di notizie false e disinformazione rende queste fonti molto meno affidabili e la verifica di tutto il materiale presente online è un’operazione molto dispendiosa a livello di tempo e di lavoro.