Vieni avanti, Critone

«Esiste un esperto di morale paragonabile a un esperto di ginnastica o medicina? Non essendo questo esperto disponibile nella realtà dobbiamo trovare in noi, attraverso un giudizio indipendente, la fonte del giusto e dello sbagliato. Il passo successivo è introdurre l'idea rivoluzionaria per cui "importante non è tanto vivere quanto vivere bene"; dove ciò corrisponde a "vivere con onestà e giustizia". Si tratta di un salto enorme: Socrate afferma che non si deve compiere ingiustizia per nessuna ragione, nemmeno rendere ingiustizia se si è subita. In sostanza, rifiuta la logica della vendetta»

"La morte di Socrate" di Jacques-Louis David, 1787 (Metropolitan Museum of Art, New York). Critone è quello seduto vestito di rosso
"La morte di Socrate" di Jacques-Louis David, 1787 (Metropolitan Museum of Art, New York). Critone è quello seduto vestito di rosso

1. Ho riletto il Critone e penso ci siano almeno tre motivi per farlo: perché è un testo fondativo della storia morale d’Occidente; perché è un capolavoro letterario; e perché il coprotagonista del dialogo, Critone appunto, è uno di noi.

È un uomo del suo tempo, piuttosto conformista, animato da buone intenzioni, ma non esattamente un gigante morale o un tipo brillante. È anche disposto ad aggirare la legge per una “buona ragione”: ma è davvero buona? E tutto il suo progetto non è anche segno che ha frainteso Socrate, come sostiene Roslyn Weiss, definendolo “non filosofico”?

Un personaggio del genere è stranamente rassicurante. Certo, è indispensabile rifuggire la tentazione di immedesimarsi troppo in lui o nei fatti narrati, dimenticando che la giustizia e la libertà di cui parla Socrate sono concetti diversi dai nostri.

Del resto trovo altrettanto miope maneggiare il Critone come un reperto inerte, perché il problema che pone — nei termini più generali — è ancora irrisolto.

2. Il dialogo inizia con poche battute pronunciate in una luce tenue: Socrate è imprigionato in attesa dell’esecuzione e, levandosi dal sonno all’alba, si accorge della presenza del suo caro amico Critone. Tutto è ridotto ai minimi termini, con una nudità quasi spettrale: anche il Fedone si svolge nella medesima cella, ma è filtrato da una voce narrante che distanzia i fatti dolorosi — in particolare la celebre scena della cicuta — e soprattutto è ricco di personaggi. Senza contare la differenza di ordine filosofico: se immaginiamo il Socrate dei dialoghi come una funzione che varia dalla persona realmente esistita alla figura attraverso cui Platone elabora la propria teoria, nel Fedone siamo decisamente da quest’ultima parte. Non così nel Critone.

Due sole voci, dunque; e due soli corpi, per di più anziani, il che aggiunge un tocco di ulteriore malinconia alla scena. È facile ridurre i personaggi platonici a semplici voci o marcatori di idee; ma non qui, dove i nomi “Socrate” e “Critone” stanno per due persone in carne e ossa, pur nella finzione letteraria: persone le cui parole hanno ricadute reali, profonde, sulle vite di entrambi.

Critone è rimasto a lungo seduto accanto all’amico in silenzio per vegliarlo, commosso e sorpreso dal suo sonno nonostante la condanna. Addirittura si spinge a vedere in tale pace interiore il segno più manifesto della sua felicità. Socrate minimizza: ha ormai settant’anni, perché mai dovrebbe rammaricarsi di dover morire? Ma giustamente Critone replica che anche altri, in situazioni simili, si dolgono della propria sorte. La battuta di risposta è lapidaria, modesta, una semplice ammissione di fatti: «È vero»: l’unica concessione che Socrate farà durante il dialogo, e forse nasconde qualcosa.

In un suo celebre saggio Gregory Vlastos spiegò che il nostro filosofo è “aterreno” (non ha interesse per i beni materiali) ma non “ultraterreno”: a differenza del discepolo Platone, «la realtà — conoscenza reale, virtù reale, reale felicità — è nel mondo in cui vive. L’aldilà è per lui un premio e comunque solo un fatto di fede e speranza. Le certezze appassionate della sua vita sono nel “qui” e nell’“ora”».

Forse la minuscola concessione di Socrate lascia trasparire questo rimpianto?

3. In ogni caso è solo un attimo, perché il motore narrativo si mette subito in moto: Critone annuncia l’imminente ritorno della nave sacra da Delo, dove si era recata per commemorare l’impresa di Teseo contro il Minotauro; e in assenza di tale nave ogni condanna a morte è sospesa. Il tempo comunque stringe, e Critone chiede all’amico di farsi aiutare a mettersi in salvo: ha progettato tutto, possono fuggire insieme ed evitare questa fine ingiusta. I rischi che l’impresa comporta, aggiunge, non sono un problema: li ha calcolati e non li teme, nemmeno i più gravi; né li deve temere Socrate.

Insomma, è indubbio che Critone non manchi di un certo coraggio e sia spinto dall’affetto per il vecchio amico; tuttavia nelle sue parole traluce anche altro:

Vedi, se muori non mi colpirà una disgrazia sola: oltre alla perdita di un amico, e tale che mai più ne troverò uno simile, la gente che non conosce abbastanza né me né te crederà che avevo la possibilità di salvarti, purché fossi disposto a metterci del denaro, e me ne sono infischiato. E ci si potrebbe creare fama peggiore che quella di dare più valore al denaro che agli amici? Perché certo la gente non potrà credere che noi ti spingessimo, mentre sei stato tu a non volertene andare da qui. (44b-c, versione di M.M. Sassi)

Non dobbiamo essere troppo severi con Critone. Innanzitutto egli obbedisce al modello etico prevalente nell’Atene dei suoi tempi, e che Socrate fu il primo a scuotere con inaudita violenza: la reputazione è tutto, specie quando si tratta di difendere il proprio gruppo (Menone, 71e: virtù è «essere capace di svolgere attività politica, e svolgendola fare il bene degli amici, danno ai nemici, stando attenti a non ricevere danno noi stessi»).

In secondo luogo l’ansia di Critone nei confronti dell’opinione pubblica è un elemento comune a ogni società e risulta assai comprensibile alla nostra, dove tutto è sottoposto a un perenne tribunale collettivo (con effetti di autocensura o fariseismo).

La risposta è straordinaria:

SOCRATE. Ma, caro Critone, perché preoccuparci dell’opinione della gente? Tanto più che i migliori, dei quali vale più la pena di darsi pensiero, capiranno che le cose sono andate precisamente così come sono andate.
CRITONE. Ma tu vedi, o Socrate, che dell’opinione della gente è pur necessario curarsi. Proprio la situazione in cui siamo dimostra che la gente è in grado di fare non poco male, per non dire il peggiore, a chi vede calunniato.
SOCRATE. Magari, Critone, la gente fosse capace di fare i mali peggiori! Sarebbe allora capace anche del più gran bene, e sarebbe bello. Ma non sono capaci né dell’una né dell’altra cosa, non sanno far diventare un uomo né saggio né stolto, e si muovono invece come capita. (44c-d)

Socrate fa piazza pulita di due automatismi: propone di valutare come rilevanti solo le opinioni dei “migliori” — e cioè di chi ragiona autonomamente senza incorrere in pregiudizi — e di fronte all’obiezione per cui la gente va comunque tenuta in considerazione perché sa fare del grande male ribatte rilanciando. Il vero problema, argomenta, è che la gente si muove a caso, senza comprendere davvero quel che fa.

Un simile conformismo è il peggior nemico di Socrate, ben più grande della sua morte, e questo pensiero non è invecchiato di un giorno.

4. Tuttavia le parole di Critone non possono essere liquidate così in fretta. Al di là degli astratti modelli morali, qui si parla di vita e di morte: si parla di una sentenza palesemente indegna, e di un uomo che non ambisce affatto alla bella fine.

Oltre ai timori sociali e alla vergogna che potrebbe scaturire da un mancato aiuto, il grido di Critone si fa pressante perché cedendo ai propri avversari Socrate tradirebbe sé stesso dimostrando che loro hanno ragione. Dunque si spinge ad accusarlo, con visibile irritazione, di scegliere addirittura la via più comoda: un bel paradosso!

Ma Socrate accetta la sfida e fa quel che ha sempre fatto: esamina criticamente le opinioni sul tavolo, per comprendere qual è quella giusta. Il fatto di essere in una situazione di estrema gravità non dovrebbe cambiare i nostri ideali per opportunismo, anzi l’esatto contrario:

«del resto non è questa la prima volta, io ho fatto sempre in modo di seguire solo quel ragionamento che, fra i vari che rimugino dentro di me, dopo ponderata riflessione risultasse il migliore» (46b).

Solo quel ragionamento, non altro: e poiché il suo interlocutore è al momento escluso dai rischi, sarà una sponda dialogica perfetta.

Un simile atteggiamento è stato preso di mira come esageratamente intellettualistico, quasi che Socrate fosse immune alle pulsioni del corpo. Così non è, e mi pare che il Critone lo testimoni nella maniera più chiara: certo Socrate è un uomo unico e di straordinaria fermezza morale, ma non ha nulla dell’indifferente. In un contesto di violente passioni, corruzione e falsità, riafferma solo il valore dell’indagine autonoma anche a prezzo della propria integrità fisica. Ci tornerò sopra alla fine: intanto, c’è una domanda impellente.

5. Dopo aver accettato che occorre ascoltare solo le opinioni di persone competenti in materia, Socrate e Critone estendono il punto alla questione attorno al giusto e allo sbagliato: anche in tal caso dobbiamo preoccuparci di quanto ne può dire «quell’unico, — se c’è — che se ne intende» (47d e più avanti 48a).

L’analogia è rischiosa: esiste un esperto di morale paragonabile a un esperto di ginnastica o medicina? Platone non chiarisce mai chi sia questa persona, e a ragione: mi pare che Socrate qui non si stia riferendo a un individuo in particolare, bensì introduca una figura ideale senza connotati divini. Ovviamente la mossa ci riporta al punto di partenza: non essendo questo esperto disponibile nella realtà dobbiamo trovare in noi, attraverso un giudizio indipendente, la fonte del giusto e dello sbagliato.

Il passo successivo è introdurre l’idea rivoluzionaria per cui «importante non è tanto vivere quanto vivere bene»; dove ciò corrisponde a «vivere con onestà e giustizia» (48b). Si tratta di un salto enorme: Socrate afferma che non si deve compiere ingiustizia per nessuna ragione, e nello specifico nemmeno rendere ingiustizia se si è subita.

In sostanza, Socrate rifiuta la logica della vendetta cui obbediva l’intera civiltà che l’aveva cresciuto e che ora lo stava mandando a morte (Vlastos: «Il danneggiare il proprio nemico nel modo peggiore consentito dalla legge pubblica è non solo tollerato, ma elogiato, nella moralità greca»).

Il taglione dava voce a un desiderio di retribuzione presente in chiunque, e insieme lo delimitava rigorosamente. Socrate invece pone il principio opposto, e lo pone in una maniera così radicale da intenderlo quale vincolo base per qualsiasi discorso. Questo, nota ancora Vlastos, è un unicum in tutti i dialoghi platonici:

«se non può essere raggiunto il consenso su questi due principi non può esservi deliberazione comune: l’abisso aperto da questo disaccordo sarà invalicabile quando si giunga a decidere il da farsi».

E con ciò, aggiunge in una nota, egli «si esclude dai processi esecutivi della democrazia partecipativa ateniese» — che per l’appunto poneva il taglione a fondamento della vita pubblica. Critone, gentiluomo di Atene per quanto amico e seguace di Socrate, si dice d’accordo: anche se è forte il sospetto che non abbia inteso fino in fondo l’estremismo dell’argomento.

Allora Socrate torna alla situazione presente e chiede:

Allontanandoci da qui senza previo consenso della città facciamo del male a qualcuno, e proprio a chi meno dovremmo, oppure no?» (50a).

Domanda difficile, tant’è che Critone alza le mani: «Non capisco», ammette. E noi con lui.

6. Per spiegarsi Socrate introduce un nuovo personaggio, le Leggi di Atene che gli si rivolgono in prima persona. La mossa ha un che di sconcertante: ma Socrate conosce Critone e sa come affrontare la sua obiezione nel modo migliore. Insomma, le Leggi sono in parte una tattica retorica e anche come tale andranno considerate.

Ora dovrò operare il più doloroso dei miei tagli e compattare in poche righe pagine intere grondanti problemi interpretativi.

In breve, le Leggi chiedono a Socrate di obbedir loro comunque, perché ha scelto di vivere e operare ad Atene, prediligendo la città sopra altre: noi, dicono, pensiamo che ognuno sia libero di andare dove desidera; ma se resta qui, «di fatto ha acconsentito a eseguire i nostri ordini» (51e) — a patto che non riesca a persuaderci altrimenti. Non solo: ritengono che la fuga sia un atto di viltà e ingiustizia nei loro confronti, che non porterà nulla di buono a Socrate stesso, poiché la sua figura ne uscirà «assai deformata» (53d).

Alla fine Socrate si dice d’accordo con le Leggi, e così Critone. Il dialogo finisce così, di colpo, lasciandoci nella perplessità.

Sembra che le Leggi costringano il cittadino a uno stato di sottomissione, cancellando ogni forma di disobbedienza civile; il che contraddice non solo quanto Socrate afferma nell’Apologia ma tutta la sua scommessa filosofica. Possibile che proprio ora metta la testa sotto il giogo? È giusto — non solo necessario: giusto — accettare una condanna iniqua perché non siamo riusciti a persuadere la maggioranza del contrario?

Questioni enormi: e in effetti da secoli si dibatte se le Leggi parlino per Socrate oppure no. A mio avviso introducono — proprio come con l’esperto evocato in precedenza — un piano di idealità: testimoniano il bisogno di avere un principio cui obbedire. In sostanza: devono darsi delle leggi cui obbediamo, ma noi dobbiamo ubbidirvi non in virtù del comando ma in virtù dell’esame critico cui sono sottoposte. Distruggerle significherebbe abbandonarci al relativismo assoluto e di fatto alla regola del più forte.

Tuttavia questa analisi è ancora troppo grezza: Socrate china il capo per altre due ragioni.

La prima, più generale e secondo me più fragile, è che in teoria fuggendo ricambierebbe ingiustizia con ingiustizia: ma l’asimmetria fra i due mali è evidente, e ancora non comprendo perché violare una norma ingiusta sia a sua volta fonte di male.

La seconda, assai più cogente, è che la sua figura ne uscirà «assai deformata». Non si tratta di vanità o reputazione, ma di impossibilità a proseguire l’opera filosofica altrove. Questo mi sembra il punto chiave: un Socrate esiliato non sarà più Socrate perché non sarà più in grado di esercitare la sua critica. Perciò tanto vale morire.

A tutto ciò va aggiunto un ultimo tassello: prima di congedarsi, le Leggi si rivolgono a Socrate dicendo che l’eventuale ingiustizia patita non viene da esse, “bensì dagli uomini” (54c). Un’altra distinzione sottile, fra la norma e i suoi usi o abusi. Ed è decisiva: Socrate si rivolge a questa maggioranza iniqua, alle persone che piegano la legge alla loro volontà per mandarlo ingiustamente a morte.

Così, obbedendo alle Leggi ma nel contempo criticando senza requie il modo in cui sono distorte dalla maggioranza, Socrate salva la propria coerenza e inchioda gli accusatori alle loro responsabilità.

7. In Occidente leggiamo Platone con occhiali cristiani: e nel caso dei dialoghi socratici è un grave impedimento, perché nella sua filosofia non vi sono elementi di ascesi. La morale di Socrate è puramente terrena e l’istintivo paragone con Cristo — due cene, due condanne, due morti violente — va maneggiato con prudenza per capire quanto avviene nel Critone.

A uno sguardo laico il dialogo offre innanzitutto un rifiuto radicale della vendetta e insieme la primissima critica di un modello patriarcale improntato alla violenza, alla difesa del gruppo e alla prevaricazione. Parlando della divaricazione tra giustizia e vendetta, Gregory Vlastos aggiunge che restituire il torto subito era appunto «l’essenza dell’eccellenza maschile» (anche perché le donne non avevano voce in capitolo).

Inoltre il dialogo mostra un esempio di svalutazione dell’esistenza fisica in quanto tale, molto lontano dallo sprezzo della morte di un eroe attico. Ancora intriso dell’etica classica, Critone ha scambiato la salvezza della vita biologica (anche ben apparecchiata, con amici e figli e libertà) per la salvezza della persona morale; che è quanto contesta Socrate con la frase dell’Apologia per cui “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.

L’idea è così celebre da essere assurta a luogo comune, ma non c’è assolutamente nulla di banale in essa, anche perché contiene un paradosso: come può essere Socrate sicuro di non riuscire a filosofare altrove? Gli argomenti delle Leggi non appaiono conclusivi: Socrate deve avere qualcos’altro in mente. Ma cosa?

8. Forse questo: l’assoluto spregio del compromesso: ed è questo che Socrate sbatte in faccia ad Atene. L’enormità della sua prima richiesta nell’Apologia, quando domanda di essere mantenuto come un eroe locale, non è soltanto una provocazione. Certo è una tattica inadeguata alla difesa, ma è proprio questo il punto: invece di arrendersi, trasforma la punizione in querela.

Spinto all’angolo, Socrate attacca sferrando un colpo dalla forza inconcepibile — il solo che poteva mandare in pezzi uno standard immutabile di virtù, l’etica tradizionale dell’uomo greco che nessuno altro, fino a quel momento, si era messo in testa di capovolgere, e per di più mettendo in gioco tutto sé stesso.

È come se stesse dicendo all’Atene concreta dell’epoca, e non a quella ideale delle Leggi: tu mi hai insegnato che la libertà di parola e critica è qualcosa che ogni cittadino «può e anzi deve esercitare come contributo al bene della città» (Maria Michela Sassi, Indagine su Socrate): se cedi su questo, hai ceduto completamente e finirai in rovina.

Ancora oggi tale minaccia ci perseguita e dobbiamo fare i conti con il cadavere del filosofo: chiedendoci, al di là della facile indignazione, se l’avremmo condannato o meno: se siamo davvero più illuminati di un nobile ateniese del 399 a.C., se davvero sappiamo comprendere le parole dell’Apologia:

«Fate proprio un bello sbaglio, se credete con l’omicidio di impedire che vi si venga a rimproverare la vostra vita non retta. Non è così che ve la caverete, non è possibile e neanche bello: il modo più bello e semplice non sta nell’eliminare il prossimo, ma nel provvedere da sé alla propria perfezione. Questa profezia sia il mio congedo da voi, che mi avete votato contro». (39d).

9. Socrate amava le chiacchierate pungenti, gli incontri informali: e anche il Critone lo è, nonostante tutto. Tanto quanto nell’Apologia, e come poi nel Fedone, qui appare non in libertà nelle sue amate strade e piazze o simposi e palestre, bensì sottomesso agli strumenti di controllo dello Stato. È prigioniero, eppure la parola resta libera.

Due sole voci, due soli corpi: la dialettica socratica funziona soltanto in cerchie ristrette, tant’è che fallirà miseramente la prova di fronte ai giurati nell’Apologia; senza una volontà collettiva di auto-esame, senza la disposizione ad ammettere un torto o a tornare sui propri passi, il meccanismo si inceppa.

Due voci, due corpi. Il Critone è anche un addio privato prima del grande addio “ufficiale” del Fedone: e come tale è pieno di rigore e di affetto: perché il vincolo socratico del dovere non è mai scisso dalla gioia.

Consideriamo le sue ultime parole, appunto nel Fedone: la celebre e improvvisa richiesta, fatta proprio a Critone, di saldare un debito: «Ricorda che dobbiamo un gallo ad Asclepio». Sulla frase si sono prodotte infinite speculazioni: dal ringraziamento al dio per averlo aiutato in una simile prova, fino alla perfida idea di Nietzsche per cui, visto che il gallo era il dono di chi guariva da una malattia, Socrate paragona la vita stessa a un male.

Io preferisco badare a un unico dettaglio: anche ora il pensiero di Socrate corre al dovere. E in questo non c’è alcuna tardiva paura del giudizio altrui, né delirio da morente: desidera obbedire alla propria norma morale fino in fondo, senza che ciò gli procuri onore in vita — poiché sta per andarsene — e senza certezze che Asclepio, dio della medicina, lo possa assistere in morte. Così chiede al suo più caro amico di adempiervi per lui.

Siamo lontanissimi da uno sterile intellettualismo, poiché Socrate era profondamente innamorato della vita. Per dirla con Vlastos: «Nella ricerca della felicità i più nobili spiriti nell’immaginario greco sono dei perdenti: Achille, Ettore, Alcesti, Antigone. Socrate è un vincitore, come deve essere».

10. Il Critone si chiude bruscamente ma con la certezza di aver raggiunto una conclusione, perché una conclusione doveva essere raggiunta. Non c’è modo di rimandare all’indomani i ragionamenti, la risposta va data qui e ora. Il carattere aporetico dei primi dialoghi si infrange contro l’urgenza assoluta della condanna. Per la prima e unica volta in tutto il corpus platonico, come ha sottolineato fra gli altri Michael C. Stokes in Dialectic in action, Socrate deve soppesare una singola azione specifica e non una definizione concettuale: ma in essa è custodito il senso di una vita intera e della sua proposta filosofica.

Possiamo dunque dubitare della validità degli argomenti socratici ma non del tessuto morale di cui sono composti, e ciò traluce anche dalla lingua stessa — del tutto priva di retorica o vittimismo. Il futuro genere della consolatio è l’opposto dello stile socratico: la sua imperturbabilità è priva di enfasi, venata di umorismo, e non chiede alla filosofia medicine per sopportare la durezza, bensì ragioni per esserne all’altezza. Seguire il logos e nient’altro.

Logos: la difficoltà di rendere la parola, che qui sembra identificare più la prassi argomentativa che la generica “ragione”, è anche segno di una difficoltà più ampia. Il modello ideale del filosofo fu inaugurato da Socrate suo malgrado. Ma Socrate agisce sempre in modo totalmente non dogmatico, mentre una lettura univoca del Critone ha generato un dogma che si irrigidirà nel saggio stoico, l’unico razionale e buono in un mondo di pazzi cattivi.

Per questo l’accettazione della cicuta fu un’arma a doppio taglio: consegnò agli ateniesi e a noi una domanda irrevocabile, ma anche un’immagine pericolosa se riduciamo Socrate alla sua faccia barbuta e sgraziata; se lo confiniamo nel gesto sommamente retorico alla David.

Rileggere il Critone a mente più sgombra può servire allora a liberarsi dal santino-Socrate e ritrovare la complessità del filosofo in vita. Del resto egli stesso non ha nulla del tipo intellettuale che è andato consolidandosi con la modernità: parla con chiunque, affronta chiunque, mette in dubbio il sapere ricevuto senza che ciò sia una scusa per l’irresponsabilità.

E quest’ultimo monito giunge anche ai lettori, protagonisti impliciti del gioco dialettico, mentre la porta della prigione si richiude lasciandoci a meditare con Critone, un uomo comune, attraversato da difetti, contraddizioni e paure — uno di noi.

Giorgio Fontana
Giorgio Fontana

È uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Il mago di Riga (Sellerio 2022).

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