Hamas è tante cose insieme
Un partito, un movimento religioso, un gruppo terroristico, una rete di fondazioni e società: ha un'ala militare e una politica, e il rapporto tra le due è cambiato nel tempo
Negli ultimi giorni molti quotidiani internazionali hanno pubblicato interviste con leader e funzionari di Hamas, il gruppo radicale islamista che governa la Striscia di Gaza e il 7 ottobre ha compiuto un attacco senza precedenti contro Israele. I leader di Hamas hanno incontrato di persona i giornalisti, in alcuni casi hanno accettato di partecipare alla registrazione di un podcast. Del resto Hamas ormai da anni ha una presenza molto visibile in Qatar, in Turchia, in Libano, paesi in cui mantiene degli uffici, dei portavoce ufficiali e dove organizza conferenze e cene di gala.
È un’immagine che si addice poco alla principale idea che si ha di Hamas, soprattutto dopo gli attacchi del 7 ottobre, cioè quella di un’organizzazione terroristica in grado di compiere atti di enorme brutalità contro i civili (è considerata terroristica da molti paesi e organizzazioni, tra cui Stati Uniti e Unione Europea). La natura di Hamas però è decisamente ibrida. Hamas è anche un’organizzazione terroristica. Al contempo ha un’ala politica che funziona come un partito, gestisce ospedali, scuole, poste, sovrintende cioè al lavoro di migliaia di dipendenti pubblici, e ha una specie di corpo diplomatico che cura i rapporti con gli alleati internazionali.
«Mentre non esistono dubbi sul fatto che fin dalla sua fondazione nel 1987 abbia praticato la violenza, la lotta armata e il terrorismo come forza principale dietro ai tragici attacchi suicidi in Israele, Hamas è anche un movimento popolare che si è evoluto in una organizzazione sempre più complessa e variegata, e che si impegna a più livelli nella vita quotidiana dei palestinesi», ha scritto la politologa Sara Roy nel suo libro Hamas and Civil Society in Gaza, uscito nel 2013 per la casa editrice dell’università di Princeton, una delle più prestigiose al mondo.
Hamas nacque formalmente nel 1987 ma esisteva già da diversi anni come sezione palestinese dei Fratelli Musulmani, un movimento nato in Egitto negli anni Venti. I Fratelli Musulmani promuovevano e promuovono tuttora un modello di società che abbia alla base la dottrina dell’Islam, spesso interpretata in una prospettiva conservatrice. La rete dei Fratelli Musulmani controlla fondazioni, partiti politici, moschee – nell’Islam non esiste un’unica autorità centrale – e raccoglie consensi in una zona grigia che sta a metà fra la politica, la religione e la società civile.
In Palestina i Fratelli Musulmani furono molto attivi fin dal Dopoguerra. Negli anni Settanta in particolare fondarono una associazione chiamata Mujama al Islamiya, che in pochi anni aprì scuole, centri culturali per giovani, ospedali, e prese il controllo dell’unica università che ancora oggi esiste nella Striscia di Gaza, l’Università Islamica di Gaza. Tutte operazioni che permisero ai Fratelli Musulmani di radicarsi nella società palestinese in maniera capillare e pacifica.
Le cose cambiarono negli anni Ottanta, quando a distanza di vent’anni dall’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano diversi movimenti palestinesi organizzarono la prima Intifada, cioè la prima rivolta di massa contro l’occupazione israeliana.
Hamas nacque proprio qualche mese prima della prima Intifada da una fazione dei Fratelli Musulmani palestinesi che riteneva prioritario impegnarsi per la creazione di uno stato palestinese indipendente, e con una forte impronta religiosa. Ai tempi il movimento politico più diffuso fra i palestinesi era Fatah, fondato nel 1959 da Yasser Arafat, laico e moderato. Fatah aveva una posizione di forza nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), cioè l’ombrello di movimenti palestinesi che curava i rapporti con la comunità internazionale per conto del popolo palestinese.
Già allora però alcuni attivisti consideravano Fatah troppo moderata e vicina all’Occidente, oltre che per nulla interessata alla promozione di una società basata sui valori tradizionali islamici. Hamas invece fin dalla sua fondazione ebbe un carattere fortemente nazionalista e religioso, due aspetti intrinsecamente legati fra loro. «Il nazionalismo, dal punto di vista di Hamas, è parte della dottrina religiosa», si legge all’articolo 12 dello statuto fondativo del movimento, pubblicata nel 1988. In un altro articolo c’è scritto: «Hamas ritiene che la terra di Palestina sia un dominio islamico consacrato per le future generazioni di musulmani fino al Giorno del Giudizio». In altre parole: per Hamas uno stato palestinese aveva e ha senso soltanto se fondato sulla dottrina dell’Islam.
Lo statuto fondativo conteneva anche moltissimi riferimenti antisemiti, che da decenni erano comuni nei circoli islamici più conservatori. Il suo testo si apriva con una citazione di Hasan al Banna, il fondatore dei Fratelli Musulmani, che auspicava la distruzione dello stato di Israele. L’articolo 28 dichiarava impossibile la convivenza fra musulmani ed ebrei.
Questa prospettiva estremista fece breccia da subito fra i palestinesi frustrati dai metodi più istituzionali di Fatah. Hamas è sia un acronimo di Movimento di Resistenza Islamica sia una parola araba traducibile con “zelo, coraggio”. Il suo fondatore e a lungo leader spirituale fu Ahmed Yassin, un predicatore molto conservatore e molto carismatico, semi-paralizzato da quando aveva 12 anni, i cui discorsi erano assai popolari e ancora oggi circolano in abbondanza su YouTube. Yassin fu ucciso il 22 marzo 2004 da un bombardamento mirato dell’esercito israeliano.
In una prima fase Hamas ereditò però dai Fratelli Musulmani una certa cautela nella pratica della lotta armata. Nei suoi primi anni di vita non ordinò attacchi terroristici e partecipò alle azioni collettive organizzate dagli altri movimenti palestinesi. Soltanto alla fine del 1990 organizzò il suo primo attacco contro civili: il 14 dicembre due membri di Hamas accoltellarono tre operai israeliani che lavoravano a Jaffa, un’antica cittadina che oggi è diventata un quartiere di Tel Aviv.
Negli anni successivi Hamas investì molto nel terrorismo e nella lotta armata anche per via della creazione nel 1991 della brigata Izz ad Din al Qassam, cioè la sua ala militare. La brigata prende il nome da Izz ad Din al Qassam, un predicatore e attivista dei primi anni del Novecento che sostenne la resistenza dei libici contro la colonizzazione italiana e dei siriani contro quella francese.
Lo storico Zachary Foster, esperto di Palestina, ha stimato che fra il 1991 e il 2000 Hamas fece «decine di attacchi, inclusi 12 attentati suicidi», in cui furono uccisi almeno 185 israeliani. Nella seconda Intifada, combattuta fra il 2001 e il 2005, Hamas realizzò diversi degli attentati più grossi contro i civili israeliani, compreso il cosiddetto massacro di Pesach, il 27 marzo 2002: un attentato suicida contro il Park Hotel di Netanya, una città costiera israeliana, in cui furono uccise 30 persone.
Dai Fratelli Musulmani, Hamas ereditò anche un’attenzione a costruire un’ala politica oltre a una rete di fondazioni e associazioni vicine al movimento. «La transizione verso la politica e la lotta armata rappresentata da Hamas aveva come obiettivo quello di affiancare, e non di sostituire, le attività sociali della Mujama», ha scritto il politologo israeliano Shaul Mishal, professore emerito all’università di Tel Aviv, in un articolo per la rivista Armed Forces & Society pubblicato nel 2003.
Da quando è al governo, Hamas ha rafforzato il suo controllo sulla società palestinese, a tutti i livelli. All’interno della Striscia controlla gran parte delle scuole elementari e superiori, dove impone un insegnamento tradizionalista della dottrina islamica, degli ospedali, dei tribunali, e nella regolamentazione del settore privato tende a favorire le aziende che percepisce come vicine al movimento. Hamas riscuote le tasse anche sul contrabbando illegale con l’Egitto e Israele, che avviene soprattutto nei tunnel sotterranei scavati e gestiti dall’organizzazione: una stima del 2014 citata dal National Geographic indicava che Hamas stesse guadagnando circa 750 milioni di dollari all’anno soltanto dalle tasse sul contrabbando nei tunnel.
La Striscia però ha un’economia soprattutto informale e poco sviluppata, ed è considerata uno dei posti più poveri al mondo. Per far quadrare il bilancio – e mantenere il potere – Hamas coltiva da sempre una rete internazionale di finanziatori privati e statali. La causa palestinese è tuttora molto popolare nei paesi arabi e a maggioranza musulmana. Diversi paesi in cui la politica e la religione sono estremamente intrecciate finanziano Hamas per accreditarsi come protettori del popolo palestinese.
Il dipartimento del Tesoro statunitense ritiene che nel 2022 Hamas controllasse una rete di società fasulle in vari paesi alleati del movimento, fra cui Turchia e Arabia Saudita, che usava per raccogliere donazioni. In tutto questa rete controllava beni per un valore di 500 milioni di dollari. Più di recente Hamas ha messo in piedi una serie di account sui principali mercati di criptovalute per ricevere e spostare soldi in maniera non tracciabile.
Ogni anno, poi, riceve pagamenti in forma diretta dai paesi con cui è alleato in maniera più stretta, soprattutto Iran e Qatar. L’Iran finanzia con circa 100 milioni di dollari all’anno la causa palestinese, e si ritiene che parte di quella cifra finisca direttamente ad Hamas. Anche il Qatar versa da anni ogni mese circa 20 milioni di dollari per sostenere il bilancio della Striscia, e che Hamas utilizza per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, fra le altre cose. Di questi venti milioni però una parte finisce in una specie di reddito aggiuntivo da 100 dollari al mese che il Qatar paga alle famiglie più povere della Striscia.
Una fonte di Reuters dice che questi soldi vengono trasferiti con un bonifico a Israele, che poi li converte in banconote fisiche: alcuni funzionari israeliani e dell’ONU poi si occupano di trasportare queste grosse quantità di banconote dentro la Striscia.
– Leggi anche: La cronologia del conflitto israelo-palestinese
Mandare avanti il governo della Striscia e mantenere attiva la rete di finanziamenti internazionali sono compiti che spettano all’ala politica di Hamas. Che infatti almeno nelle gerarchie ufficiali è in una posizione di superiorità rispetto all’ala militare.
In cima all’organigramma di Hamas c’è il cosiddetto Politburo, un consiglio di 15 membri di cui fanno parte soltanto figure politiche, e che ha sede in Qatar. Il Politburo ha un leader che di fatto è il capo di Hamas: dal 2017 è Ismail Haniyeh, a lungo dirigente dell’ala politica ma soprattutto ex strettissimo collaboratore del fondatore, Ahmed Yassin.
I membri del Politburo vengono eletti dallo Shura, un organo che ha un ruolo principalmente consultivo. In origine lo Shura era dominato da figure religiose, oggi è a tutti gli effetti controllato dall’ala politica del movimento. Nella scala gerarchica sotto al Politburo e allo Shura ci sono i quattro leader incaricati di guidare il movimento in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, fra i palestinesi emigrati all’estero e fra quelli imprigionati nelle carceri israeliane. Soltanto più in basso ci sono i leader dell’ala militare, la brigata Izz ad Din al Qassam.
Qui sotto ci sono le principali cariche di Hamas sintetizzate in un grafico del think tank Council on Foreign Relations.
Fra i vari leader che stanno sotto al Politburo e allo Shura il più importante è quello che comanda le operazioni del movimento nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar. Di fatto è il leader indiscusso della Striscia: anche il primo ministro e i ministri fanno capo a lui.
Sinwar è stato nominato nel 2017 e il potere che ha accumulato in questi anni secondo alcuni è il sintomo di come l’ala militare stia guadagnando sempre più influenza all’interno di Hamas. Alla fine degli anni Ottanta Sinwar fu uno dei primi leader di Hamas a spingere per la lotta armata, e nel 1989 fu arrestato con l’accusa di avere rapito e ucciso due soldati israeliani e quattro palestinesi che considerava dei collaboratori di Israele. Sinwar rimase nelle carceri israeliane per 22 anni e fu il leader di Hamas più alto in grado fra più di mille rilasciati da Israele in uno scambio di prigionieri col soldato israeliano Gilad Shalit, che Hamas tenne prigioniero dal 2006 al 2011.
Anche un altro storico esponente dell’ala militare, cioè il suo attuale capo Mohammed Deif, viene ritenuto fra i più influenti di tutto il movimento. Deif è sempre stato un forte sostenitore della resistenza armata contro Israele e si è opposto ai tanti tentativi di mediazione che ci sono stati negli anni, compresi gli accordi di Oslo del 1993 con cui per la prima volta Israele e l’Autorità palestinese si riconobbero a vicenda come interlocutori legittimi. Deif guida la brigata Izz ad Din al Qassam dal 2002, quattro anni prima che Israele imponesse un embargo nella Striscia di Gaza, che dura ancora oggi. Da allora i tentativi di risolvere la questione israelo-palestinese in forma diplomatica e pacifica (portati avanti da Fatah) non hanno fatto alcun passo avanti, anche per l’ostilità dei governi di destra di Benjamin Netanyahu.
Nei vent’anni sotto la guida di Deif invece la brigata Izz ad Din al Qassam è diventata un esercito vero e proprio e ben addestrato: secondo una stima dell’International Institute for Strategic Studies (IISS) la brigata comprende 15.000 soldati. Nei primi anni Duemila i soldati erano circa 300.
Il fatto che siano cresciuti molto dal punto di vista numerico ha aumentato la loro influenza e rafforzato l’impegno del gruppo nella lotta armata e nel terrorismo. «In una organizzazione già estremista, i più estremisti sembrano avere preso il controllo del volante, rispecchiando la crescente influenza che in questi anni ha ottenuto Deif», ha scritto sul Guardian Peter Beaumont, che fra 2014 e 2018 è stato il capo dell’ufficio del quotidiano a Gerusalemme.
Questa crescente influenza sembra si sia trasformata in una certa autonomia. In una recente intervista al New Yorker l’ex vice-capo del Politburo di Hamas, Mousa Abu Marzouk, ha fatto capire che nessun leader dell’ala politica era stato avvisato delle tempistiche e delle modalità degli attacchi del 7 ottobre in territorio israeliano, che non hanno precedenti nella storia di Israele. «Tutti i leader che non fanno parte dell’ala militare hanno ricevuto la notizia sabato mattina», cioè come il resto del mondo.