Sarà più difficile andare in pensione in anticipo
Il governo che voleva superare la legge Fornero continua a rendere sempre più rigidi i parametri in ambito previdenziale
Durante la conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi a seguito dell’approvazione del disegno di legge di bilancio da parte del Consiglio dei ministri, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha annunciato che «sarà molto più restrittivo l’accesso al pensionamento anticipato». Al momento è difficile comprendere con esattezza in che termini questo intervento verrà attuato. Il testo ufficiale del disegno di legge non è ancora stato diffuso, e nel relativo documento programmatico di bilancio, inviato al parlamento e alla Commissione Europea, non viene riportata in dettaglio né l’applicazione della singola misura né i suoi effetti diretti sulle finanze pubbliche. Il ministero dell’Economia ha evitato di fornire ulteriori spiegazioni, finora.
La cosa comunque chiara è che nel complesso i requisiti per andare in pensione diventeranno più stringenti e dunque con ogni evidenza a partire dal 2024 si andrà in pensione più tardi. La legge finora in vigore era infatti la cosiddetta “Quota 103”, che consente ai nati entro il 31 dicembre del 1961 che abbiano maturato almeno 41 anni di contributi e compiuto 62 anni (di qui la definizione della quota: 41+62) di andare in pensione anticipata rispetto ai parametri ordinari. Il tutto accettando una decurtazione sulla pensione fino al compimento dei 67 anni, quando la pensione verrebbe ricalcolata e pagata in forma piena.
Lunedì Giorgetti ha detto che questa misura verrà sostituita con un provvedimento più restrittivo: «Per quanto riguarda Quota 103, abbiamo alzato i requisiti dell’età anagrafica, fermo restando i 41 anni di contributi per quanto riguarda l’accedere alla pensione», ha detto il ministro. Di qui, la formula che si è andata affermando in questi giorni per descrivere la nuova misura in vigore da gennaio: “Quota 104”, ovvero un combinato per cui si potrà andare in pensione dopo aver compiuto 63 anni e aver versato 41 anni di contributi.
L’agenzia Ansa martedì ha pubblicato un approfondimento sul tema, in cui scrive che con l’introduzione di Quota 104 «l’aumento di un anno dell’età anagrafica fa sì che le uscite nel 2024 siano limitate a coloro che quest’anno avevano già i 62 anni previsti per Quota 103 ma non ancora i 41 anni di contributi». E dunque «potranno andare in pensione le persone che compiranno 63 anni, nate quindi fino al 1961, e che hanno cominciato a lavorare dal 1983 e quindi l’anno prossimo raggiungeranno i 41 anni di contributi».
Ma l’intervento del governo sui pensionamenti anticipati non si limita a questo. Anzi, una misura altrettanto rilevante in questo senso è l’eliminazione dell’APE sociale e Opzione donna, due ammortizzatori che agevolavano l’uscita dal lavoro e che verranno ora fatti confluire nel Fondo per la flessibilità in uscita.
L’APE sociale, introdotta nel 2017, prevede che sia lo Stato tramite l’Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS) a garantire un’indennità ai lavoratori che abbiano almeno 63 anni e 30 anni di contributi, fino a che queste persone non abbiano raggiunto i requisiti minimi per accedere a forme ordinarie di pensionamento o prepensionamento. Opzione donna è invece una misura che consente alle lavoratrici con almeno 35 anni di contributi versati di ottenere la pensione di anzianità con requisiti anagrafici più favorevoli rispetto a quelli in vigore (attualmente la soglia minima sono i 60 anni di età).
Come ha annunciato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella conferenza stampa di lunedì, ora si cambia: APE sociale e Opzione donna «vengono sostituiti da un unico fondo per la flessibilità in uscita che consente di andare in pensione a 63 anni con 36 anni di contributi per i caregiver [chi assiste e accudisce familiari o persone anziane, ndr], disoccupati, lavori gravosi, disabili, e con 35 anni come prevedeva Opzione donna per le donne». Come si vede, i requisiti introdotti sono più severi.
Nell’attesa di sapere i dettagli delle nuove misure, è evidente che sia cambiata l’attitudine del governo sul tema delle pensioni, almeno rispetto alle storiche battaglie politiche fatte negli anni dai partiti che lo sostengono.
In particolare il leader della Lega Matteo Salvini aveva fatto della lotta alla legge Fornero un suo obiettivo per oltre dieci anni, spesso adottando slogan piuttosto espliciti («Vaffanculo alla Fornero!») e prendendo iniziative clamorose: come quando, nel maggio del 2014 e nell’aprile del 2016, organizzò delle manifestazioni davanti alla casa di Elsa Fornero. L’oggetto di queste battaglie era la riforma che Elsa Fornero, ministra del Lavoro nel governo Monti, fece nel dicembre del 2011, incrementando in maniera significativa l’età pensionabile e introducendo parametri molto restrittivi per le forme di pensionamento anticipato. La legge Fornero portò infatti l’età minima a 67 anni, e prevedeva almeno 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, nel caso di pensione anticipata. Giorgia Meloni nel 2011 votò quella riforma alla Camera e poi si disse pentita di averlo fatto.
La prima iniziativa rilevante per superare la legge Fornero adottata dalla Lega fu all’inizio del 2019, quando il primo governo Conte sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle introdusse “Quota 100”, una misura che consentiva di andare in pensione a 62 anni con 38 anni di contributi. L’impatto di quel provvedimento sul bilancio dello Stato fu però rilevante e il governo Draghi con la legge di bilancio approvata a fine 2021 sostituì “Quota 100” con “Quota 102” (64 anni e 38 di contributi).
Nella campagna elettorale che seguì la caduta del governo Draghi, i partiti di destra e centrodestra s’impegnarono ad allentare i vincoli pensionistici. «Flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso facilitato alla pensione», recitava il programma di Fratelli d’Italia. Quello della Lega era ancora più esplicito: «Questo è l’obiettivo che abbiamo in mente: dobbiamo superare la legge Fornero con Quota 41». Con “Quota 41” si intende una forma di pensionamento anticipato evocata spesso non solo dalla Lega ma anche dal sindacato CGIL che preveda come unico requisito quello di aver versato 41 anni di contributi, senza alcun limite d’età. Un provvedimento che però avrebbe un costo stimato insostenibile per le finanze pubbliche, e non a caso mai preso seriamente in considerazione dal governo Meloni.
Che il governo stesse anzi valutando ipotesi del tutto contrarie a quelle ventilate in campagna elettorale lo si era capito subito. Nella legge di bilancio del 2023, quella approvata cioè a fine 2022, anziché facilitare i pensionamenti anticipati li rese più difficili, passando da “Quota 102” a “Quota 103”. Nella Nota di aggiornamento al DEF (NADEF), cioè il documento con cui ogni autunno il governo definisce l’andamento della finanza pubblica e illustra tra le altre cose i margini di spesa per le varie misure da adottare, il ministro dell’Economia Giorgetti a fine settembre indicava come le regole introdotte dalla legge Fornero abbiano contributo a migliorare «in modo significativo la sostenibilità del sistema pensionistico nel medio-lungo periodo, garantendo una maggiore equità tra le generazioni».
Contestualmente, nell’analisi della NADEF, Giorgetti segnalava invece come “Quota 100” – dunque una legge approvata quando la Lega era al governo e lo stesso Giorgetti era sottosegretario alla presidenza del Consiglio – abbia determinato un incremento del rapporto tra la spesa pensionistica e il PIL, fino a «un picco pari al 16,9 per cento nel 2020». Il che è rilevante soprattutto per un paese come l’Italia che ha una delle spese pensionistiche in rapporto al PIL più alte al mondo, e che non a caso viene costantemente richiamato su questo fattore dalla Commissione Europea, che anche nelle recenti “raccomandazioni” pubblicate nel maggio scorso considera l’aumento della spesa pensionistica tra i principali fattori di rischio dell’economia italiana.