I sogni non c’entrano molto con il subconscio
I progressi nelle neuroscienze hanno portato a rivedere certe vecchie convinzioni, e oggi sappiamo che in un certo senso sono accessibili come ogni altro pensiero
I sogni, soprattutto quelli più strani o emozionanti, sono uno degli argomenti di conversazione più frequenti e a volte noiosi. Raccontarli è una pratica favorita almeno in parte dall’idea che condividerne il contenuto con altre persone possa servire a renderli più chiari e comprensibili. E questa idea è sostenuta a sua volta dalla credenza comune secondo cui i sogni avrebbero un significato recondito, difficile da interpretare e in parte inaccessibile: che in qualche modo, cioè, siano un’espressione del nostro subconscio.
La parola “subconscio” deriva da una nozione utilizzata tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo nel campo della psichiatria e della psicologia, e oggi perlopiù diffusa in ambito non scientifico. È ancora piuttosto utilizzata nel linguaggio comune per indicare genericamente attività o processi mentali di cui non si ha consapevolezza, o si ha consapevolezza solo in parte, ma che sono comunque in grado di condizionare i comportamenti. Spesso è descritto come subconscio qualsiasi fenomeno psichico di cui si ha vagamente coscienza, quindi perlopiù sfuggente. E i sogni, diversamente dai pensieri coscienti, ricadono di solito in questa categoria.
Ma in un certo senso, per quanto siano spesso incomprensibili, i sogni non sono un’esperienza subconscia: il modo in cui ne parliamo e li descriviamo non è anzi molto diverso dal modo in cui parliamo di qualsiasi altra esperienza di cui abbiamo coscienza. Abbiamo un accesso diretto ai sogni così come ai nostri pensieri da svegli, ha scritto sulla rivista statunitense Psychology Today lo psicologo sociale statunitense Dylan Selterman, docente del dipartimento di psicologia e neuroscienze della Johns Hopkins University, a Baltimora.
Secondo Selterman, che in passato ha gestito anche un laboratorio sui sogni alla University of Maryland, anche se i sogni occupano il nostro tempo mentre dormiamo, siamo perfettamente consapevoli delle situazioni che viviamo mentre li facciamo. Dai risultati di uno studio di cui Selterman è coautore, pubblicato nel 2013 sulla rivista Social Psychological and Personality Science, emerse inoltre che il più delle volte le persone durante i sogni pensano, sentono e si comportano in modi coerenti con le loro tendenze relazionali da sveglie, le loro attività quotidiane e le variabili della loro personalità.
La maggior parte delle persone riesce anche con una certa regolarità a ricordare i propri sogni al risveglio, in alcuni casi anche a tenere un diario. E i sogni che raccontano sono fondamentalmente non troppo diversi dalle fantasie che le persone possono avere da sveglie, o da ciò che definiamo sogni a occhi aperti. Questa espressione, secondo Selterman, è spesso usata per descrivere pensieri che abbiamo da svegli e che per qualche aspetto sono simili a un sogno: «ma non c’è niente di inaccessibile o misterioso in quei pensieri, sia che siamo svegli sia che siamo addormentati». I sogni reali potrebbero in definitiva non essere più “subconsci” di quanto lo siano quelli a occhi aperti.
Selterman non esclude che i sogni possano influenzare i comportamenti in alcune circostanze, ma afferma che ciò non li rende subconsci. Le persone sono anzi generalmente consapevoli dell’impatto che i sogni potrebbero avere su di loro: li condividono, ne parlano, ci riflettono sopra, alcune volte agiscono anche in funzione dei sogni che hanno fatto. Alcune ricerche citate da Selterman indicano, per esempio, che le persone possono sentirsi in colpa dopo aver fatto determinati sogni. E sia che scelgano di agire in funzione di quei sogni, sia che scelgano di non farlo, lo fanno consapevolmente, in modo intenzionale.
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Molte opinioni comuni e convinzioni popolari su cosa sia la coscienza e come funzioni il cervello umano derivano da teorie e nozioni diffuse oltre un secolo fa e poi in larga parte superate. Considerata generica e ambigua già all’inizio del XX secolo, la nozione di subconscio fu abbandonata dopo che il neurologo austriaco e fondatore della psicanalisi Sigmund Freud introdusse una distinzione tra coscienza, inconscio e preconscio, nozione in parte sovrapponibile a quella di subconscio e utilizzata per indicare la parte di fenomeni psichici che non sono presenti alla coscienza ma possono diventarlo.
Durante il sonno, secondo Freud, a causa della minore attività della coscienza i desideri inconsci e repressi possono più facilmente emergere sotto forma di sogni, associandosi a elementi che non sono fonte di angoscia per la persona che dorme, né sono oggetto di rimozione. Freud teorizzò quindi la presenza di un contenuto manifesto del sogno e uno latente. Quello manifesto è costituito dalla trama e dagli elementi così come appaiono alla coscienza quando il sogno viene ricordato. E quello latente si riferisce al significato nascosto a cui gli elementi del sogno alludono, e che quindi richiede un’interpretazione.
Da questa prospettiva sognare un cane potrebbe magari indicare il desiderio di compagnia o di sicurezza, ha scritto Selterman, «ma non esiste alcuna prova scientifica a sostegno di una teoria del contenuto latente dei sogni». Non è mai stato condotto alcuno studio rigoroso che mostrasse una qualche relazione tra gli elementi del sogno e un simbolismo del subconscio. E qualsiasi possibile interpretazione degli elementi del sogno è «intrinsecamente soggettiva», e aperta a molteplici significati.
In un certo senso non esiste un’attribuzione di significato univoca e universalmente valida né per le esperienze che definiamo subcoscienti, né per i fenomeni della coscienza, che sono sempre in divenire e intersoggettivi. Nel libro Coscienza. Che cosa è, scritto nel 1991, il filosofo statunitense Daniel Dennett sostenne che quando le persone raccontano le loro esperienze «interiori» non descrivono qualcosa che preesiste ma, in una certa misura, lo creano. E ideò un esperimento mentale per descrivere i processi che stanno alla base dell’interpretazione dei sogni.
A una persona, il «pollo», viene chiesto di lasciare la stanza in cui si trovano altre persone mentre una di loro racconterà alle altre il contenuto di un sogno che ha fatto. Al suo rientro nella stanza il pollo dovrà cercare di ricostruire la trama del sogno ponendo alle persone domande che ammettono come risposta soltanto sì o no. Il pollo non sa che mentre era fuori dalla stanza le persone non hanno condiviso alcun sogno: si sono accordate segretamente per rispondere “sì” o “no” a seconda che l’ultima parola di ciascuna domanda posta dal pollo cominci con una lettera della prima o della seconda metà dell’alfabeto.
Il più delle volte, scrive Dennett, ne verrà fuori un racconto bizzarro, magari divertente, spesso osceno. Quando il pollo concluderà che il sognatore o la sognatrice «deve essere una persona molto malata e complessata», il gruppo risponderà che è il pollo l’autore del sogno. Che è vero, nella misura in cui il sogno ha preso forma attraverso le domande casuali che il pollo ha scelto di porre. Ma in un altro senso, secondo Dennett, il sogno non ha alcun autore: è «un processo di produzione di una narrazione, di accumulazione di dettagli, del tutto privo di un piano o di intenzioni da parte di un autore».
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Nella seconda metà degli anni Settanta, cercando di spiegare l’esistenza dei sogni da una prospettiva neurobiologica, gli psichiatri della Harvard University Allan Hobson e Robert McCarley proposero l’ipotesi dell’attivazione di sintesi, secondo cui i sogni sarebbero effetti collaterali di un’attività cerebrale che produce particolari onde, associate al sonno in fase REM e alla veglia. I neuroni si attivano periodicamente durante il sonno nei livelli inferiori del cervello e inviano segnali casuali alla corteccia, lo strato più esterno del cervello, responsabile delle funzioni mentali complesse. La corteccia «sintetizza» quindi il sogno in reazione ai segnali caotici che riceve, per cercare di dare un senso al motivo per cui il cervello li sta inviando. Pur senza sostenere esplicitamente che i sogni siano privi di significato, la teoria minimizzò il ruolo dei fattori emotivi nel determinare i sogni.
Negli ultimi decenni lo sviluppo di diverse teorie sulle ragioni per cui sogniamo ha in parte indebolito l’influenza della teoria freudiana, a cui continua a essere tuttavia largamente riconosciuto il merito di aver concentrato l’attenzione su un fenomeno che all’inizio del XX secolo non era oggetto di esteso interesse scientifico nella psicologia. «Il suo approccio psicoanalitico è spesso visto come non scientifico, ma è probabile che Freud volesse effettivamente studiare in modo scientifico il cervello che sogna, e che semplicemente non avesse gli strumenti per farlo», disse Hobson alla rivista Knowable. Freud fu anche uno dei primi pensatori ad associare l’interpretazione dei sogni, una pratica umana antichissima, allo studio dell’individuo anziché al soprannaturale. Comprese che «per studiare veramente i sogni serve sapere cosa succede nel cervello», e si dedicò esclusivamente allo studio degli aspetti psicologici non disponendo della tecnologia necessaria per studiare altri aspetti dei sogni.
I risultati di alcuni esperimenti condotti negli ultimi due decenni, confermando in parte alcune intuizioni freudiane, hanno inoltre mostrato come l’inclinazione a reprimere determinati pensieri possa indurre le persone a fare più spesso sogni su quei pensieri. E in generale prestare attenzioni ai sogni – specialmente quelli che possono causare angoscia – ed esplorarne il contenuto, sia nel contesto terapeutico che fuori da esso, è considerato un modo potenzialmente efficace di ottenere dei benefici personali in termini di realizzazione e intuizione.
D’altra parte, la ricerca nel campo delle neuroscienze ha permesso di approfondire lo studio dei sogni e delle relative attività cerebrali da una prospettiva molto diversa da quella della psicanalisi freudiana, attraverso tecniche sempre più evolute e strumenti di diagnostica per bioimmagini come la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI). L’ipotesi oggi largamente condivisa in questo ambito di ricerca è che i sogni siano il risultato di un’attività cerebrale “di fondo”, legata al consolidamento e alla riorganizzazione della memoria e delle altre strutture del cervello durante il sonno.
Parte di questo consolidamento consisterebbe nel trasferimento di informazioni tra regioni diverse del cervello: dall’ippocampo, importante per i ricordi episodici e la formazione della memoria a lungo termine, alla neocorteccia, una regione specializzata nell’elaborazione e associazione delle informazioni. Per il resto, sebbene siano state formulate alcune ipotesi, non è chiaro in che modo e attraverso quali processi il cervello colleghi le esperienze e le attività quotidiane con le pulsioni emotive.