La Corte Suprema indiana non ha legalizzato i matrimoni gay, stabilendo che debba essere il parlamento a decidere
Martedì la Corte Suprema indiana ha deciso di non legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso, che resterà quindi illegale in India. La Corte ha detto che la decisione in questo ambito spetta al parlamento, esprimendo allo stesso tempo alcune raccomandazioni sulla necessità di tutelare chi fa parte della comunità LGBT+ e di evitare discriminazioni.
La Corte aveva ascoltato ed esaminato 21 petizioni, cioè ricorsi contro il divieto in vigore, presentate nel corso dell’ultimo anno da organizzazioni e attivisti per i diritti civili, secondo cui il divieto vìola i diritti costituzionali. A favore del respingimento di questi ricorsi si sono espressi tre giudici sui cinque totali che compongono la Corte, quindi la maggioranza. Il presidente della Corte Suprema, D.Y. Chandrachud, ha detto: «Questa corte non può fare la legge. Può solo interpretarla e darle attuazione».
La sentenza ha deluso molto la comunità LGBT+ indiana. In passato era stata proprio la Corte Suprema a permettere i principali passi avanti fatti dall’India sui diritti LGBT+: nel 2018, per esempio, la Corte depenalizzò i rapporti omosessuali, dichiarando incostituzionale la legge che li considerava un reato, risalente all’epoca coloniale. A scontentare gli autori delle petizioni sottoposte alla Corte suprema è stato anche il fatto che non sia stato indicato chiaramente un termine entro cui il parlamento dovrebbe intervenire, e senza indicazioni chiare è difficile che il parlamento si muova. Al momento è controllato dal Bharatiya Janata Party, il partito nazionalista e di destra del primo ministro Narendra Modi, che in più occasioni ha espresso posizioni contrarie alla legalizzazione dei matrimoni omosessuali.