La medicina penitenziaria è un disastro
Il personale medico a disposizione dei detenuti è carente, lavora in ambienti poco sicuri e si ritrova spesso a somministrare psicofarmaci piuttosto che offrire vera assistenza
di Luigi Mastrodonato
A inizio agosto Alessandro Franchello, direttore sanitario del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, ha dato le dimissioni. Aveva l’incarico da soli tre mesi e prima di lui diversi altri medici e infermieri avevano già lasciato l’istituto. Se fino al 2022 i medici in servizio nel carcere erano venti, un numero già sottodimensionato rispetto alla popolazione detenuta, ad agosto 2023 sono scesi a 15. E alla direzione del carcere e all’ASL continuano ad arrivare richieste di trasferimento.
Il carcere Lorusso e Cutugno di Torino, noto anche come Le Vallette, è molto problematico. Ad agosto erano presenti 1.408 detenuti a fronte di una capienza di circa mille posti, con un indice di sovraffollamento che supera il 120 per cento. A luglio inoltre è iniziato il processo a carico di 22 agenti di polizia penitenziaria accusati di aver torturato i detenuti delle Vallette dal 2017 al 2019. Nel 2022 nell’istituto c’erano stati quattro suicidi, mentre nell’agosto del 2023 in sole 24 ore si sono uccise due detenute, Susan John e Azzurra Campari.
Al Lorusso e Cutugno di Torino la situazione sanitaria è uno dei problemi principali. Mancano medici, infermieri, psicologi, agenti penitenziari e spazi per la cura. Il personale sanitario si trova a lavorare in un contesto difficile e spesso finisce per volersene andare, come successo negli ultimi mesi. Il 9 settembre l’Ordine dei medici di Torino ha diffuso una nota in cui si chiede «un coraggioso e rapido cambio di passo per intercettare bisogni e fragilità e per prevenire le conseguenze drammatiche della carcerazione», aggiungendo che l’istituto carcerario cittadino è «condizionato dall’annosa cronica carenza di risorse economiche e di professionisti».
Se nel carcere di Torino i problemi relativi alla sanità sono particolarmente accentuati, altrove la situazione non è migliore. In Italia, fare medicina in carcere è spesso un percorso a ostacoli, nonostante le precarie condizioni sanitarie della popolazione detenuta.
Gli ultimi dati generali disponibili sulla salute in carcere sono quelli di uno studio clinico in più centri condotto nel 2014 in 57 istituti e su 16mila detenuti. Il 70 per cento di questi è risultato essere affetto da almeno una patologia. Dati più recenti dicono che tra i detenuti italiani un terzo è affetto da epatite C, mentre circa 5mila hanno un’infezione cronica da HIV. Per quanto riguarda la salute mentale, secondo il rapporto 2023 di Associazione Antigone nelle carceri italiane il 40,3 per cento dei detenuti assume sedativi e ipnotici, il 20 per cento stabilizzanti dell’umore: ma solo il 9,3 per cento della popolazione carceraria ha diagnosi psichiatriche gravi. Infine c’è il tema della tossicodipendenza: al 31 dicembre 2022 un detenuto su tre aveva una qualche dipendenza da sostanze stupefacenti.
Il trascorso complicato delle persone detenute contribuisce ad aggravare la situazione, ma è anche il carcere ad assumere un ruolo patogeno. Le strutture penitenziarie italiane sono sovraffollate e nella maggior parte dei casi fatiscenti, con standard di igiene bassissimi. Secondo i dati del 2023 di Associazione Antigone, nel 45,4 per cento degli istituti ci sono celle senza acqua calda e nel 56,7 per cento senza doccia. Nel 12 per cento delle celle il riscaldamento non funziona. Questi elementi favoriscono la diffusione delle malattie, anche alla luce del fatto che il 30 per cento della popolazione penitenziaria italiana ha più di 50 anni ed è dunque più fragile.
A far fronte a questa situazione complessa dovrebbe essere la medicina penitenziaria. Fino al 2008 la materia era nelle mani del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), dunque del ministero della Giustizia. Le questioni relative alla sicurezza, al trattamento dei detenuti e alla tutela della loro salute dipendevano dallo stesso DAP, una situazione che causò per anni un profondo dibattito. Il decreto legislativo 230/1999 stabilisce che i detenuti hanno diritto alle stesse prestazioni sanitarie dei cittadini in stato di libertà, ma l’accusa era che questa prescrizione cadesse nel vuoto nel momento in cui la sanità penitenziaria era cosa a sé rispetto al Servizio sanitario nazionale.
Le cose sono cambiate dal 2008, con una riforma entrata in vigore nel 2010 che ha trasferito competenze, rapporti di lavoro e risorse economiche e strumentali dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, cioè alle regioni e alle ASL. La salute della persona detenuta e quella della persona libera sono così parificate. Ma solo sulla carta.
Quando avvenne il passaggio di consegne le ASL, che già negli anni Novanta erano diventate responsabili della cura dei detenuti con tossicodipendenza, si sono trovate a gestire strutture sanitarie spesso obsolete e non a norma. Alcune regioni erano poi già impegnate in piani di definanziamento della sanità pubblica, che dunque ha coinvolto anche le carceri. Prima della riforma i medici che lavoravano in carcere affiancavano questa attività al lavoro negli ospedali e negli ambulatori. Una volta passati sotto il Servizio sanitario nazionale dovettero fare una scelta, perché le ASL non prevedono contratti plurimi. E la maggioranza ha lasciato gli istituti penitenziari, che si sono ritrovati con un deficit di personale.
Sono passati 15 anni dalla riforma della sanità penitenziaria, ma non è cambiato molto: secondo la Federazione italiana medici di medicina generale (FIMMG-Medicina Penitenziaria), dovrebbero essere almeno il doppio di quelli che ci sono. Lo stesso problema riguarda gli infermieri. A inizio 2023 per esempio nel carcere milanese di Opera erano 31 su 56 previsti, per la maggior parte giovani specializzandi e precari. Per quanto riguarda gli psichiatri, le ore di servizio settimanali negli istituti di pena italiani sono in media 8,75 ogni 100 detenuti, per gli psicologi 18,5: significa che in media un detenuto ha diritto un’ora di colloquio con lo psichiatra ogni 3 mesi, e con lo psicologo ogni 40 giorni.
Oltre alla povertà di personale medico disponibile, c’è anche una carenza di agenti penitenziari che complica il lavoro dei medici stessi, perché si trovano a operare in un contesto poco sicuro. Nel dettaglio, si va da regioni come la Sicilia dove mancano 1.149 agenti a regioni come il Piemonte dove ne mancano 550.
Il carcere di Torre del Gallo di Pavia è particolarmente difficile, sia dal punto di vista strutturale che comportamentale. Il sovraffollamento è cronico, le strutture sono fatiscenti, gli spazi di socialità sono stati ridotti nel corso degli anni al punto che fino a poco tempo fa nemmeno le aule per i colloqui erano agibili, e gli incontri avvenivano in corridoio. Questo ha fatto crescere la conflittualità e sono aumentati molto gli eventi critici, che nel lessico carcerario sono quegli avvenimenti che mettono a repentaglio la sicurezza delle persone detenute, del personale o dell’istituto.
L’evento più grave in questo senso è stato nel marzo 2020, con le rivolte per le restrizioni dovute al Covid, sulla scia di quanto successo in altri istituti. Ma altri ce ne sono stati anche nelle ultime settimane. Ad agosto alcuni detenuti hanno assaltato l’infermeria e preso in ostaggio il personale sanitario. Sempre in estate alcuni agenti penitenziari sono stati attaccati con le bombolette a gas usate dai detenuti per cucinare.
«La situazione a Pavia è esplosiva. I detenuti non hanno modo di compiere un percorso riabilitativo e c’è una carenza di agenti e di personale sanitario spaventosa. Non c’è modo di sorvegliare i detenuti ed evitare che commettano gesti estremi e non c’è modo di garantire assistenza sanitaria», dice un medico che ha lavorato a Pavia e che preferisce restare anonimo. A fine 2021, nel giro di un mese, si sono uccise tre persone, tanto che l’istituto di Pavia ha iniziato a essere chiamato “il carcere dei suicidi”. Secondo i dati del 2022, manca il 45 per cento degli agenti penitenziari.
«Un carcere di questo tipo è pericoloso per i detenuti e anche per chi ci lavora. Noi ci siamo ritrovati a fare visite mediche anche a due detenuti contemporaneamente senza la sorveglianza degli agenti, il che è vietato. A volte ti ritrovi davanti soggetti aggressivi, che ti minacciano e finisci per svolgere mansioni di sicurezza e di assistenza psicologica. In queste condizioni fare medicina è impossibile, diventiamo spacciatori. Tutto quello che possiamo fare è somministrare psicofarmaci». Secondo il medico, l’infermeria spesso si trasforma in una sorta di sfogatoio: «Gli agenti sono esasperati perché manca personale, faticano a gestire i detenuti. Spesso li mandano in infermeria senza un reale bisogno medico, giusto per fargli cambiare aria. E fanno pressione sul personale sanitario perché somministri psicofarmaci».
Nicola Cocco fa l’infettivologo nelle carceri milanesi. Ha base nell’istituto di Bollate ma copre anche San Vittore, Opera e il carcere minorile Beccaria. «Essere uno dei pochi infettivologi nelle carceri milanesi è senza dubbio una cosa strana. Significa seguire migliaia di persone con potenziali problematiche infettivologiche, in un contesto complesso come quello carcerario dove la concentrazione di malattie infettive come l’epatite C è altissima. Siamo sotto organico», dice.
Per Cocco le difficoltà della medicina penitenziaria in Italia hanno tre ragioni principali. Innanzitutto la priorità delle istanze di sicurezza su quelle sanitarie, che riduce medici e infermieri a una condizione di ospiti all’interno del carcere. In secondo luogo la scarsa preparazione dei medici, dal momento che in Italia non esistono percorsi di formazione relativi alla medicina penitenziaria e alle sue specificità, come la tossicodipendenza. Infine, le condizioni lavorative del personale sanitario, sottopagato e costretto a turni massacranti dove la sicurezza non è garantita. Oggi circa il 70 per cento dei medici penitenziari è precario.
«Il carcere non è considerato un’opportunità lavorativa ma uno scarto, un luogo di lavoro dove va chi non riesce a trovare alternative migliori» dice. «Per il personale sanitario spesso l’obiettivo diventa arrivare alla fine del turno indenne e questo spiega anche la tentazione di somministrare una compressa in più. Gli psicofarmaci vengono usati come manganelli farmacologici, è una conseguenza dei problemi strutturali che caratterizzano la medicina penitenziaria in Italia».
In un contesto di questo tipo il ricambio del personale sanitario è altissimo. A luglio hanno deciso di fermarsi tre medici su sei del carcere “Carmelo Magli” di Taranto: dal 2009 lavoravano in forma precaria senza un contratto di lavoro da parte dell’ASL competente. Ad agosto il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasia, ha segnalato la situazione del carcere Mammagialla di Viterbo, dove se ne sono andati diversi medici e gli avvisi di assunzione di nuovo personale da parte dell’ASL vanno deserti. Sempre ad agosto a Oristano, in Sardegna, otto guardie mediche chiamate a coprire il carcere cittadino si sono dimesse. E poi c’è il caso più eclatante, quello della fuga di medici e delle dimissioni del direttore sanitario del Lorusso e Cutugno di Torino.
Lo stress lavorativo per il personale sanitario delle carceri è talmente profondo che stanno nascendo i primi sportelli di ascolto per i professionisti del settore, come successo a inizio 2023 nell’istituto penitenziario di Bari. In una situazione simile, il diritto alla salute delle persone private della libertà risulta compromesso. «Nei colloqui riservati che tengo abitualmente con le persone detenute, il 70 per cento delle loro domande riguarda le condizioni di salute o la mancanza di una presa in carico tempestiva, accurata e dedicata», dice Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti di Torino.
Antonio Maria Pagano, presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (SIMSPe), spiega il perché sia importante risolvere i problemi della medicina penitenziaria in Italia. «Molti detenuti arrivano da situazioni di svantaggio sociale ed economico e per loro il carcere diventa il primo momento di contatto con il Servizio sanitario nazionale», sottolinea. «Il detenuto può farsi curare e lo Stato può fare prevenzione e tutela della salute pubblica. Il carcere, insomma, è un’opportunità di salute per tutti perché permette di intercettare e curare persone con cui magari non saremmo mai entrati in contatto. Ma purtroppo questa opportunità non viene colta. Il Servizio sanitario nazionale ci lascia solo le briciole».