Quando Israele si ritirò dalla Striscia di Gaza
Successe nel 2005: l'esercito israeliano trascinò via a forza alcuni coloni, tutte le case vennero distrutte per non lasciarle ai palestinesi
Israele ha occupato la Striscia di Gaza per quasi quarant’anni, dalla fine degli anni Sessanta fino al 2005, quando si ritirò unilateralmente in quello che fu definito il “disimpegno”. Il 12 settembre del 2005 l’ultimo soldato israeliano lasciò la Striscia, che passò sotto il completo controllo dell’Autorità Palestinese (l’entità statale palestinese che oggi governa solo la Cisgiordania). Il ritiro dell’esercito israeliano fu la conclusione di un processo molto dibattuto e faticoso. Le conseguenze furono enormi e per anni hanno condizionato la vita all’interno della Striscia.
Nel corso del Novecento la Striscia di Gaza, da secoli abitata in gran parte da persone di religione musulmana, fu governata da entità anche molto diverse fra loro.
Fino al 1918 fece parte dell’Impero ottomano, dal 1918 al 1948 insieme a tutta la regione che comprende Israele e Palestina fu governata da una specie di protettorato dell’Impero britannico. Dopo la Seconda guerra mondiale secondo l’ONU sarebbe dovuta rientrare in un futuro stato palestinese, ma in attesa della sua creazione fu affidata alla protezione dell’Egitto. Israele la occupò militarmente nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni, combattuta e vinta contro gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania. Fin dagli anni successivi alla conquista, il governo israeliano costruì nella Striscia basi militari e colonie di abitanti israeliani. Nel 2001 gli abitanti delle colonie israeliane nella Striscia erano poco meno di 7.000.
Le colonie sono insediamenti in territorio palestinese di cittadini israeliani, i quali sfruttano il controllo militare israeliano delle aree occupate per costruirci case e fondare comunità a forte carattere ebraico, rivendicando il proprio legame col territorio. Da decenni sono considerate illegali dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale, e Israele riceve regolarmente critiche e accuse sulla loro espansione.
A decidere di lasciare la Striscia fu l’allora primo ministro Ariel Sharon, un ex militare e politico di destra noto per essere molto duro con i palestinesi. Nei primi anni Duemila Sharon ritenne, tra molte polemiche, che rimanere in quel territorio non fosse più nell’interesse di Israele e dispose la rimozione degli insediamenti e il trasferimento dei loro abitanti. In quel momento erano presenti nella Striscia 21 colonie, abitate da circa 8.500 cittadini israeliani: una percentuale molto piccola di persone rispetto alla popolazione totale di Israele (circa 7 milioni di persone), la cui sicurezza peraltro costava parecchi soldi allo stato israeliano.
Quando Israele decise di lasciare la Striscia molti dei coloni si opposero alla decisione e furono allontanati con la forza dagli stessi militari israeliani.
Sharon motivò ufficialmente la scelta sostenendo che avrebbe cambiato in meglio la sicurezza dello stato israeliano, nonché la percezione che se ne aveva all’estero. Secondo altre interpretazioni la mossa di Sharon fu meno disinteressata. Abbandonare Gaza avrebbe permesso di concentrare le proprie attenzioni e risorse in Cisgiordania, dove già allora si trovava la maggior parte delle colonie israeliane: gli ebrei più tradizionalisti rivendicano infatti un legame culturale e religioso con la Cisgiordania che a loro dire li legittimava a occupare quel territorio.
Oggi in Cisgiordania esistono poco meno di 300 colonie in cui abitano circa 700mila israeliani (nel 2012 erano 520mila).
Il governo israeliano poi era cosciente che la gestione della Striscia di Gaza sarebbe stata complessa per l’Autorità Palestinese, visto che nella Striscia era già piuttosto popolare il movimento islamista radicale Hamas. Secondo alcune interpretazioni, la decisione di Sharon fu presa dopo un calcolo preciso: senza un controllo efficiente della Striscia di Gaza l’Autorità Palestinese sarebbe stata più debole e meno legittimata a rappresentare gli interessi dei palestinesi, e i suoi tentativi per ottenere un vero stato palestinese avrebbero perso forza.
Il disimpegno fu proposto per la prima volta dal primo ministro Sharon nel 2003, divenne una proposta ufficiale del governo nel 2004 e fu approvata dal parlamento israeliano nel 2005. Il processo politico avvenne mentre era in corso una rivolta dei palestinesi conosciuta come Seconda Intifada: intifada è una parola araba che significa “sussulto”, “rivoluzione”, e la Seconda Intifada fu un lungo periodo di proteste violente cominciate il 28 settembre del 2000 quando proprio Sharon visitò la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, luogo sacro sia per gli ebrei sia per i musulmani, e molto conteso. La visita fu vista come una provocazione dalle persone di religione musulmana.
Tra il 2000 e il 2005 nella Seconda Intifada furono uccisi circa un migliaio di israeliani e quattromila palestinesi in attacchi terroristici e scontri violenti (c’era stata anche una Prima Intifada, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ma fu meno violenta).
Alcuni interpretarono la decisione di Sharon di ritirare gli israeliani da Gaza anche come un modo per facilitare una temporanea diminuzione delle tensioni e una riduzione delle violenze. Secondo altri, come detto, l’obiettivo era sempre stato quello di concentrare le proprie attenzioni su un maggiore sviluppo delle colonie in Cisgiordania, e dividere il governo dei due territori palestinesi per indebolire la sua classe politica.
La “Legge di implementazione del piano di disimpegno” prevedeva che da inizio aprile del 2005 cominciassero i trasferimenti volontari degli oltre 8.000 abitanti israeliani della Striscia: erano compresi un indennizzo di circa 200mila dollari per famiglia, nonché l’assistenza di infermieri e psicologi e un aiuto da parte dell’esercito per il trasloco dei beni dei coloni.
Esisteva però una scadenza rigida entro cui il trasferimento della popolazione civile doveva essere concluso, il 15 agosto. Chi non avesse lasciato le colonie spontaneamente entro quella data sarebbe stato trasferito con la forza. Il piano era appoggiato da circa la metà degli israeliani (secondo i sondaggi), ma incontrava una forte e radicale opposizione sia all’interno delle colonie che da una parte dei cittadini israeliani.
A partire dal 13 luglio il governo decise di chiudere l’ultimo accesso alla Striscia di Gaza rimasto aperto, rendendo la zona un presidio militare vietato ai non residenti. L’intento era evitare infiltrazioni di manifestanti che si opponevano al disimpegno, ma non riuscì completamente: alcune centinaia di persone riuscirono a entrare a piedi nella Striscia e nelle colonie.
Il 15 agosto 14mila soldati israeliani furono impiegati nel trasferimento forzato dei coloni e degli “infiltrati” rimasti sul territorio. Molti si allontanarono pacificamente, altri furono trascinati fuori a forza. In generale l’uso della forza fu molto limitato, si videro scene di soldati e coloni che piangevano o pregavano insieme, mentre alcuni residenti prima di lasciare definitivamente la propria casa le davano fuoco, per evitare che qualcosa restasse ai palestinesi. La decisione su cosa distruggere dopo l’evacuazione sarebbe stata molto dibattuta anche in seguito.
In alcuni casi i coloni si barricarono nelle case, bloccarono le strade e cercarono di convincere i soldati a non procedere allo sgombero.
Nella colonia di Neve Dekalim un gruppo di quindici ebrei ortodossi statunitensi minacciò di darsi fuoco. Non fu possibile completare lo sgombero nella giornata del 15, ma servì una settimana in più. Il 19 agosto per protesta un gruppo di coloni lasciò le proprie case con una stella di David gialla al petto, accomunando ciò che stava succedendo alle persecuzioni naziste degli ebrei prima e durante la Seconda guerra mondiale. Il 22 agosto anche l’ultimo civile israeliano lasciò la Striscia.
Il piano prevedeva inizialmente che le strutture abbandonate venissero lasciate così com’erano, anche per risparmiare tempo, lavoro e soldi. L’unica eccezione prevista era per le 28 sinagoghe, che sarebbero state abbattute (una smontata e ricostruita altrove) per evitare il rischio che potessero essere “dissacrate”. Mesi di polemiche e dibattiti portarono invece a una soluzione diversa: le 2.800 case furono distrutte, la demolizione delle sinagoghe fu bloccata.
Il 28 agosto fu smantellato anche il cimitero di Gush Katif, i corpi presenti nelle 48 tombe vennero riesumati da soldati coordinati da rabbini militari e riseppelliti in cimiteri scelti dalle famiglie, trasferendo anche tutta la terra che era stata a contatto con i resti, per seguire i dettami religiosi. L’operazione durò fino al primo di settembre, mentre nei giorni successivi vennero rimosse le ultime istallazioni militari: il 12 se ne andò anche l’ultimo soldato e la gestione della Striscia passò all’Autorità Palestinese.
Nella festa palestinese che seguì ci furono effettivamente episodi di dissacrazione delle sinagoghe, che poi furono abbattute dai bulldozer dell’Autorità il giorno dopo.
Durante le operazioni di sgombero furono arrestate centinaia di israeliani e in 482 casi si arrivò a un’incriminazione per reati legati alla rivolta. A gennaio 2010 però il parlamento israeliano approvò un’amnistia per oltre 400 di loro: ne restarono fuori solo gli imputati di reati che avevano messo a rischio la vita di persone, gli accusati di violenze gravi e di uso di esplosivi, oltre a chi aveva precedenti penali.
L’operazione “disimpegno” costò complessivamente circa 3 milioni di dollari allo stato israeliano, che comunque continuò a mantenere il controllo sullo spazio aereo e marittimo della Striscia, nonché di sei dei sette accessi di frontiera e dei registri delle popolazione. Gaza continua ancora oggi a essere dipendente da Israele per acqua, elettricità, comunicazioni e altri servizi, come è stato ancora più evidente dopo l’annuncio del governo israeliano dell’inizio dell’“assedio totale” alla Striscia di Gaza.
Le conseguenze politiche del “disimpegno” furono numerose. Benjamin Netanyahu, allora ministro delle Finanze, uscì dal governo, che cadde pochi mesi dopo. Sharon fondò un partito centrista ma cinque mesi dopo, a gennaio 2006, fu colpito da un ictus e restò in coma per i seguenti otto anni, fino alla morte. Nel gennaio 2006 l’Autorità Palestinese organizzò delle elezioni legislative nella Striscia di Gaza: le vinse il movimento radicale Hamas, e in seguito alle elezioni iniziò una guerra civile fra il partito moderato Fatah, che controlla l’Autorità Palestinese, e Hamas. La guerra fu vinta da Hamas.
Da allora Hamas governa la Striscia in maniera violenta e autoritaria. Non ha più organizzato elezioni e non è mai riuscita a ricucire i rapporti con Fatah e l’Autorità Palestinese.