Perché i cortometraggi non entusiasmano
Sono un formato rispettato e storicamente usato per sperimentare, ma non hanno mai avuto molto successo (anche se in realtà ne guardiamo in continuazione)
La recente distribuzione sulle piattaforme di streaming di una serie di cortometraggi di registi famosi, tra cui quattro diretti da Wes Anderson e prodotti da Netflix, ha diretto diverse attenzioni verso un formato cinematografico che abitualmente ne riceve poche. Sebbene apprezzati ai festival e alle premiazioni, e molto utilizzati nel cinema di animazione, i cortometraggi non sono popolari quanto i film e le serie tv. E anche nei casi in cui soddisfino gusti e aspettative del pubblico, o siano girati appunto da registi molto famosi (praticamente tutti ne hanno realizzato qualcuno), il loro successo in termini assoluti rimane limitato.
Le ragioni per cui i cortometraggi non sono popolari come film e altri formati di successo sono varie, principalmente di tipo storico, culturale e commerciale. Non è sempre stato così, e non è detto che le cose non cambino ancora in futuro, ma avendo costi minori rispetto al film il cortometraggio si è via via evoluto nel corso del Novecento come un formato con funzioni eterogenee e, da un certo momento in poi, adatto a una maggiore sperimentazione. Questa condizione, insieme alla limitata distribuzione, ha progressivamente ridotto le probabilità che i cortometraggi venissero visti e apprezzati da un pubblico molto esteso, e ha fatto sì che diventassero il formato comunemente associato ai registi alle prime armi e agli appassionati di cinema.
In tempi più recenti la diffusione dei formati digitali, che da un lato ha determinato una generale riduzione dei costi e dall’altro una sostanziale convergenza dei formati, ha reso la definizione stessa di cortometraggio più complicata ed elastica. La straordinaria espansione dell’offerta di contenuti audiovisivi autonomi e di breve durata, diffusi tramite piattaforme specifiche come YouTube, ha generato una certa incertezza su cosa sia un cortometraggio e cosa no. Come ha scritto la critica statunitense Alissa Wilkinson su Vox, nessuno sa più esattamente cosa sia un cortometraggio.
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Secondo il regolamento dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l’associazione che assegna gli Oscar e premia anche i cortometraggi in tre diverse categorie (miglior cortometraggio, miglior cortometraggio documentario e miglior cortometraggio animato), un cortometraggio è qualsiasi film originale che non duri più di 40 minuti, titoli di coda inclusi: oltre quel limite sono lungometraggi. Tanto un episodio di una serie tv quanto un reel su Instagram potrebbero quindi teoricamente valere come cortometraggio, prendendo in considerazione soltanto la durata e non altri aspetti.
“The Neighbors’ Window” di Marshall Curry, premiato nel 2020 con l’Oscar per il miglior cortometraggio
La meravigliosa storia di Henry Sugar, il più lungo ed elaborato dei quattro recenti cortometraggi di Anderson prodotti da Netflix, dura 39 minuti. È l’unico dei quattro a essere stato distribuito anche nelle sale cinematografiche, seppure limitatamente, dopo essere stato presentato alla scorsa edizione del festival del cinema di Venezia. A parte Anderson (uno che comunque gira cortometraggi da tempo), altri registi famosi hanno recentemente realizzato corti di cui si è parlato molto: in particolare il regista spagnolo Pedro Almodóvar, autore del corto di 30 minuti con Ethan Hawke e Pedro Pascal Strange Way of Life, presentato alla scorsa edizione del festival di Cannes. Once Within a Time, diretto da Godfrey Reggio e prodotto da Steven Soderbergh, dura invece 52 minuti: un film breve, più che un corto.
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Al netto del regolamento dell’Academy, la distinzione pratica tra cortometraggi e lungometraggi è semplificata dal fatto che i lungometraggi di solito durano molto più di 40 minuti: è molto raro che durino meno di un’ora e mezza. La tendenza dei film a durare anzi oltre due e a volte oltre tre ore, cresciuta molto in anni recenti, è in molti casi criticata e considerata uno dei motivi indiretti del rinnovato interesse, per quanto marginale, per formati più brevi.
Il nuovo film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, dura 3 ore e 26 minuti: giusto qualche minuto in meno del precedente The Irishman. Il nuovo di Ridley Scott, Napoleon, dura 2 ore e 37 minuti, come anche il prequel di Hunger Games, in uscita a novembre, e poco meno del film sull’ultimo tour della cantante Taylor Swift, che dura 2 ore e 45 minuti. Tra i film candidati agli Oscar nella scorsa edizione c’erano Niente di nuovo sul fronte occidentale, Elvis e Tár, che durano non meno di due ore e mezza ciascuno.
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Riscontrando una tendenza simile anche nella letteratura, attestata dal fatto che da un paio di decenni i romanzi stanno diventando mediamente più lunghi, la giornalista inglese e critica letteraria Kate Kellaway scrisse a marzo sul Guardian che la lunghezza tende a essere spesso «pericolosamente confusa con la qualità artistica», mentre la brevità è spesso considerata indice di superficialità.
Kellaway descrisse la sensazione piuttosto comune e sempre più frequente di uscire dalla sala del cinema e pensare che il film appena visto avrebbe potuto essere un film migliore durando mezz’ora in meno. E ribadendo l’importanza dell’editing e del «non detto», nella letteratura come nel cinema, attribuì la tendenza alla lunghezza da parte di autori e autrici a una sostanziale pigrizia: «è più facile lasciare che una storia continui piuttosto che lucidarla fino a farla brillare».
I cortometraggi ebbero tuttavia un’evoluzione particolare, che in parte limita i parallelismi con altri media e altre forme di intrattenimento. Per i primi anni della storia del cinema il formato breve non fu una scelta artistica bensì l’effetto di una limitazione materiale: tutti i film erano cortometraggi. All’inizio consistevano in una singola inquadratura di qualche secondo, e diventarono più lunghi man mano che il cinema acquisì maggiore popolarità e valore commerciale. Due dei primi blockbuster, Viaggio nella Luna di Georges Méliès e The Great Train Robbery di Edward Porter, usciti nel 1902 e nel 1903, duravano rispettivamente 14 e 11 minuti.
Nell’era del cinema muto la durata dei film continuò a essere calcolata normalmente in termini di rulli (o bobine), ciascuno dei quali conteneva circa 300 metri di pellicola e corrispondeva a poco più di dieci minuti. Escluse le produzioni di grandi film epici, i lungometraggi potevano durare da sei a otto rulli: grandi successi di Charlie Chaplin come Il monello (1921) e La febbre dell’oro (1925), per esempio, duravano 70-80 minuti. Ma sebbene registi e grandi studi cinematografici fossero sempre più orientati verso grandi produzioni e film lunghi, anche più di quelli di Chaplin, i cortometraggi rimasero a lungo una parte importante del settore, come raccontato nel 2012 sullo Smithsonian Magazine dal produttore e storico degli audiovisivi statunitense Daniel Eagan.
“Charlot Emigrante” di Charlie Chaplin, uscito nel 1917
Prima di tutto i cortometraggi costavano meno dei film lunghi, in ogni aspetto: dal casting alla produzione. E ciononostante nel loro periodo di maggiore popolarità, fino alla fine degli anni Cinquanta, facevano regolarmente parte – insieme ai cinegiornali – della programmazione in grado di attirare pubblico nelle sale cinematografiche. Alcune negli Stati Uniti proiettavano soltanto quelli: dai corti di Stanlio e Ollio e Braccio di Ferro a quelli di animazione. E per tutta la loro storia, sia prima che dopo il progressivo declino, i cortometraggi furono – e lo sono ancora oggi – il formato tipicamente utilizzato per presentare al pubblico nuove tecnologie, dal Technicolor al 3D all’IMAX.
Se da un lato la loro progressiva marginalizzazione rese i cortometraggi meno centrali nell’industria cinematografica, dall’altro li trasformò, scrisse Eagan, in una specie di «campionato minore» in cui sperimentare idee, soggetti e personaggi prima di utilizzarli per fare eventualmente dei lungometraggi. Fu una funzione molto importante, in seguito assunta in gran parte dalle scuole di cinema, dalla pubblicità e dall’industria dei video musicali, da cui l’industria cinematografica cominciò ad attingere per scritturare autori, attori, registi e direttori della fotografia.
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L’idea che il cortometraggio fosse una sorta di “prova generale” per chi aspirasse a lavorare nell’industria dei film si affermò e circolò in molti paesi e contesti diversi, inclusi quelli con una lunga tradizione cinematografica, come la Francia. In una relazione sul Festival del cortometraggio di Tours del 1958, il regista francese Jean-Luc Godard, uno dei più influenti teorici del cinema, descrisse sulla rivista Cahiers du Cinema i cortometraggi come «cinema impuro», un formato privo di specificità. «Nessuno di noi crede ai cortometraggi in quanto tali, perché tra un corto e un lungometraggio non c’è differenza di natura, ma solo, vista l’organizzazione industriale del cinema, una differenza di grado», scrisse Godard.
Allo stesso tempo Godard descrisse i cortometraggi anche come un’opportunità per molti registi che non avevano ancora girato dei lungometraggi di mostrare il loro talento. In un certo senso, pur essendo un cinema di grado inferiore, erano «utili al cinema come gli anticorpi alla medicina»: un’opportunità di mostrare in un frammento un universo che il lungometraggio mostra nel dettaglio. Riprendendo le parole di Godard il critico statunitense Richard Brody aggiunse nel 2014 sul New Yorker che i cortometraggi possono anche avere per alcuni registi una funzione di «esplorazione alla cieca» di stili e temi su cui non hanno le idee ancora del tutto chiare, ma che potrebbero successivamente riprendere e approfondire nei lungometraggi.
Le funzioni di intrattenimento dei cortometraggi, cioè quelle che per lungo tempo li resero popolari, sono state via via assunte da nuovi formati. E da questo punto di vista i corti sono ancora popolari come lo sono sempre stati, «solo che non li chiamiamo più così», scrisse Eagan, riferendosi ai cortometraggi nel senso di «unità di intrattenimento» di durata inferiore a quella di un film. E considerando che una certa serialità era presente già nei cortometraggi comici e in quelli di animazione del cinema muto, le differenze tra quelli, un episodio di una sitcom in tv e un cartone animato su YouTube tendono a ridursi.
Secondo Eagan anche le pubblicità possono essere considerate dei corti: perlopiù «irritanti e di scarsa qualità», ma in alcuni casi molto apprezzati, e nei casi più ambiziosi realizzati coinvolgendo proprio registi famosi. Ci sono anche cortometraggi di registi famosi in cui il valore artistico e quello commerciale sono particolarmente difficili da distinguere, come quelli finanziati dalle aziende di moda e con i loro abiti utilizzati come costumi (di questo tipo Anderson ne realizzò due per Prada e uno per H&M).
“Welcome Home” di Spike Jonze, girato per Apple nel 2018
Riferendosi a un potenziale inespresso del cortometraggio in senso stretto – non agli altri formati che nel tempo ne hanno ereditato le funzioni promozionali o di intrattenimento – Wilkinson ha scritto che i cortometraggi offrono opportunità diverse rispetto a quelle di un film. Permettono di trattare, per esempio, argomenti che alla lunga potrebbero essere insostenibili per il pubblico, come le cure palliative descritte nel cortometraggio Endgame, candidato all’Oscar nel 2019.
I limiti dei cortometraggi permettono inoltre di rinunciare a un’eccessiva esposizione della trama e a un completo sviluppo dei personaggi, senza che questo generi insoddisfazione nel pubblico. Proprio quei limiti possono anzi rendere significative battute che sarebbero inefficaci se diluite in tempi più lunghi. In generale, secondo Wilkinson, i cortometraggi danno ai registi maggiore libertà di correre dei rischi, «perché il pubblico potrebbe tollerare meglio la sperimentazione o la frustrazione se sa che il film non occuperà l’intero pomeriggio».
Ma affinché i cortometraggi acquisiscano centralità e popolarità servirebbe anche, secondo Wilkinson, un maggiore impegno da parte delle piattaforme di streaming nel finanziarli e promuoverli (e anche nel renderli più facilmente visibili e accessibili nel menu delle interfacce grafiche). Questo impegno «contribuirebbe notevolmente all’espansione delle voci, delle prospettive, delle storie, degli stili e delle visioni creative», di cui beneficerebbero anche autori e autrici provenienti da regioni e comunità emarginate che non riescono a ottenere il sostegno dalle grandi società di produzione.