Vivere a Gaza è sempre stato difficile
Anche prima dei bombardamenti di questi giorni la vita dei suoi abitanti era complicata, condizionata dalle restrizioni imposte nel tempo da Egitto e Israele
Da giorni la Striscia di Gaza è completamente isolata: lunedì il governo israeliano ha imposto un «assedio totale» del territorio, tagliando completamente le forniture d’acqua, energia elettrica, cibo e carburante che normalmente da Israele raggiungono i territori della Striscia, controllata dal gruppo radicale palestinese Hamas dal 2007. Molti edifici sono stati completamente distrutti dai bombardamenti israeliani, lasciando migliaia di persone senza alloggio: gli sfollati sono oltre 200mila, e molti si stanno rifugiando in edifici delle Nazioni Unite che prima dell’attacco erano utilizzati come scuole. Oltre 600mila persone non hanno accesso all’acqua potabile, dato che Israele ha bloccato i rifornimenti e, in ogni caso, le infrastrutture idriche di Gaza hanno bisogno di energia elettrica e quindi di carburante per funzionare, che al momento non è disponibile.
Mercoledì l’unica centrale elettrica di Gaza ha smesso di funzionare dopo aver esaurito il carburante a disposizione, lasciando milioni di persone senza corrente. È impossibile caricare i dispositivi elettronici, la rete internet non funziona e comunicare con i propri cari è quindi diventato molto difficile. Anche gli ospedali, già normalmente inadeguati, sono in enorme difficoltà: in seguito allo spegnimento della centrale elettrica si sono attivati i generatori, che però potranno fornire energia per al massimo un paio di giorni.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che la Striscia di Gaza è un’area densamente popolata. Ci vivono oltre due milioni di persone, concentrate soprattutto nei campi per rifugiati e nella città di Gaza, dove abitano 8mila persone per chilometro quadrato (per fare un confronto a Milano e a Roma ce ne sono poco più di 2mila). Circa 1,7 milioni di persone nella Striscia sono rifugiati palestinesi.
Sebbene in questi giorni la situazione sia arrivata a un punto critico, da decenni la qualità della vita degli abitanti di Gaza è fortemente influenzata da una serie di limitazioni imposte dal governo egiziano e soprattutto da quello israeliano. Dal 2007, quando Hamas prese il controllo della Striscia cacciando con la forza il partito palestinese Fatah, Israele ed Egitto imposero un rigido embargo su tutto il territorio: da quel momento le forniture di tutti i beni non prodotti internamente a Gaza – tra cui il carburante, l’acqua potabile, l’energia elettrica e le medicine – dipendono da Egitto e Israele.
Israele giustificò l’embargo dicendo che i controlli servivano per fermare l’arrivo di armi a Gaza e quindi la militarizzazione dei gruppi radicali che operano nel territorio, tra cui soprattutto Hamas. L’embargo però ha avuto conseguenze pesanti sulla popolazione civile, impedendo lo sviluppo di moltissimi servizi. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, oltre l’80 per cento della popolazione di Gaza è in condizione di povertà, mentre la disoccupazione è vicina al 50 per cento e sale al 62 per cento tra i giovani.
I blackout erano particolarmente frequenti a Gaza anche prima dell’assedio imposto lunedì da Israele, e secondo le Nazioni Unite lo scorso luglio la fornitura elettrica era assicurata in media soltanto per 11 ore al giorno. Per questo molti edifici pubblici e privati sono attrezzati con generatori di emergenza, che però sono poco affidabili e spesso non funzionano perché manca il carburante. Anche i componenti dei generatori sono difficili da reperire, perché Israele ne limita la circolazione temendo che possano essere utilizzati per scopi militari.
A causa dei numerosi blocchi alle importazioni il sistema sanitario non è mai riuscito a svilupparsi in maniera adeguata per rispondere alle necessità di una popolazione di oltre 2 milioni di persone: mancano molti macchinari e medicinali, e la corrente elettrica spesso è interrotta a causa dei blackout, costringendo le strutture a ricorrere ai precari generatori di emergenza. Anche gli ospedali, come molte altre infrastrutture civili, sono stati pesantemente danneggiati dagli scontri e dagli attacchi armati degli ultimi anni.
L’acqua potabile è da anni un altro enorme problema. Secondo uno studio del 2021 delle Nazioni Unite, a Gaza il 96 per cento delle abitazioni riceve acqua corrente inadatta a essere consumata. La falda acquifera costiera, la principale fonte di acqua potabile interna a Gaza, è stata per anni sfruttata in modo eccessivo, permettendo così all’acqua di mare di infiltrarsi e rendendo l’acqua imbevibile. Gli impianti fognari non funzionano correttamente e molte infrastrutture idriche sono state pesantemente danneggiate dai conflitti recenti, e mai riparate.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità ogni persona ha bisogno di circa 100 litri d’acqua al giorno per bere, lavarsi e cucinare. A Gaza il consumo medio è di circa 80 litri (anche se può variare molto in base alle zone, e circolano stime diverse), di cui solo una piccola parte è potabile.
Oltre all’acqua e alla luce, a Gaza da anni manca il cibo: il 64 per cento della popolazione si trova in una situazione di grave o moderata insicurezza alimentare, e il suo sostentamento dipende dagli aiuti internazionali. Israele ha imposto dei limiti sulle attività di agricoltura e di pesca praticabili all’interno della Striscia. Per esempio, nelle aree centrali e meridionali è possibile pescare a una distanza massima di 15 miglia nautiche (circa 28 chilometri) dalla costa, mentre nel Nord il limite è fissato a 6 miglia nautiche (circa 11 chilometri).
All’interno della Striscia esistevano anche delle aree relativamente benestanti. Il quartiere di Rimal, nella città di Gaza, era noto per i tanti ristoranti, complessi residenziali e uffici di aziende e compagnie umanitarie. Era spesso descritto dai residenti come la zona più bella e tranquilla della Striscia, ma nella notte tra lunedì e martedì è stato distrutto dai bombardamenti israeliani.
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Nonostante la situazione drammatica, lasciare Gaza è molto difficile. Per entrare in Israele è necessario richiedere un permesso che generalmente viene rilasciato solo a lavoratori, pazienti medici e operatori umanitari. Il controllo dei movimenti viene spesso sfruttato da Israele come punto di forza nelle negoziazioni con le autorità locali, dato che un’eventuale chiusura dei confini lascerebbe molte persone senza lavoro e senza cure mediche. Anche per spostarsi in Egitto, al confine Sud della Striscia, è necessario ricevere un’apposita autorizzazione che va richiesta almeno due settimane prima. Ora però gli abitanti di Gaza non riescono a uscire nemmeno con i permessi.
In seguito all’enorme attacco compiuto da Hamas sabato contro Israele, l’impossibilità per i palestinesi di uscire da Gaza è diventato un enorme problema. I bombardamenti di Israele sulla Striscia stanno distruggendo moltissimi edifici e infrastrutture, ma i civili palestinesi non sanno dove rifugiarsi: ovviamente non possono andare in Israele, ma nemmeno in Egitto, dato che il confine sud è stato chiuso. Finora almeno 1.400 palestinesi sono stati uccisi negli attacchi.
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