Secondo il CNEL il salario minimo non serve
Tempo fa Meloni gli aveva dato l'incarico di elaborare una proposta contro il lavoro povero: per il presidente Renato Brunetta la soluzione è «contrattazione, contrattazione, contrattazione»
Giovedì il presidente del CNEL (un organo consultivo del parlamento che sta per Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro) Renato Brunetta ha spiegato in conferenza stampa il contenuto della valutazione finale che la commissione ha elaborato sul lavoro povero, come viene definito quello retribuito così poco da non permettere al lavoratore di superare la soglia di povertà, e sull’eventuale introduzione di un salario minimo legale in Italia, ossia di una soglia minima di compenso stabilita per legge a prescindere dalla mansione svolta.
In poche parole il documento sostiene che il salario minimo «non risolverebbe» la questione del lavoro povero, ma che per garantire dei minimi adeguati è auspicabile un ruolo maggiore per la contrattazione collettiva, ossia del rapporto tra sindacati e le associazioni dei datori di lavoro. Secondo Brunetta la soluzione al lavoro povero è «contrattazione, contrattazione, contrattazione». Questa valutazione non è vincolante. Può sembrare un semplice passaggio burocratico, ma in realtà ha un forte significato politico visto che arriva dopo mesi in cui il dibattito sul salario minimo era stato molto acceso e polarizzato tra chi era favore e chi contro.
A inizio luglio i principali partiti di opposizione avevano depositato in parlamento una proposta di legge per l’introduzione di un salario minimo a 9 euro lordi l’ora. Il tema del lavoro povero è molto sentito e della proposta si era parlato molto: era stata l’unica su cui i partiti di opposizione si erano uniti, dal Partito Democratico al Movimento 5 Stelle ad Azione, con l’eccezione di Italia Viva, mettendo in difficoltà il governo, che aveva per questo organizzato un incontro per discuterne a metà agosto. I partiti al governo però sono storicamente contrari a un salario minimo stabilito per legge: in quell’occasione il governo dette l’incarico proprio al CNEL di elaborare una proposta ampia per la lotta al lavoro povero entro 60 giorni, in modo che potesse arrivare in tempo per la legge di bilancio.
Meloni ha così dato il mandato a un organo terzo, la cui valutazione sarebbe stata percepita come imparziale. Sull’imparzialità del CNEL su questo tema erano state comunque sollevate alcune polemiche. Innanzitutto per il fatto che l’elaborazione di una proposta sul salario minimo fosse affidata a un organo il cui presidente è Renato Brunetta, uno degli storici ex esponenti di Forza Italia, partito da sempre contrario alla misura.
Oltre a questo l’esito dello studio era piuttosto prevedibile perché il CNEL, che si occupa di studi in materie economiche e sociali, nel tempo aveva già pubblicato varie analisi sul tema del salario minimo. Quelle recenti arrivavano più o meno tutte alla stessa conclusione: ossia quella che in alternativa al salario minimo fosse preferibile potenziare la contrattazione collettiva e il ruolo dei sindacati, cioè il sistema già predominante in Italia che – secondo il CNEL, gran parte della destra e delle associazioni dei datori di lavoro – può garantire un risultato migliore del salario minimo.
La proposta delle opposizioni tornerà in parlamento per la discussione il 17 ottobre, dopo che i partiti di maggioranza avevano fatto approvare una sospensione della discussione a inizio agosto. È probabile che dopo la valutazione del CNEL la proposta finirà per non essere approvata.
Per elaborare la sua valutazione il documento del CNEL ha preso come riferimento la direttiva europea sul salario minimo, entrata in vigore nell’autunno del 2022. Il documento cerca di rispondere alla domanda se, in base alla legge europea, l’Italia debba dotarsi di un salario minimo. La legge europea non stabilisce l’obbligo per tutti i paesi di dotarsi di un salario minimo legale, ma semplicemente una serie di criteri e procedure che i paesi dovrebbero seguire per garantire salari adeguati. La direttiva si poggia su due insiemi di regole: il primo serve a garantire salari minimi adeguati e si rivolge ai paesi che hanno un salario minimo per legge, quindi non all’Italia; l’altra promuove la contrattazione collettiva in materia salariale, in particolare in quei paesi in cui la percentuale di lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva è inferiore all’80 per cento.
Secondo il CNEL sulla base di questi parametri l’Italia non ha bisogno di un salario minimo legale. Era una conclusione comunque già nota da tempo.
Il documento elaborato dalla commissione del CNEL è stato approvato in Assemblea con 39 voti a favore, 15 contrari e 8 astenuti. Il CNEL è composto da 64 consiglieri: 10 esperti, tra cui economisti, sociologi e giuristi (di cui 8 sono nominati dal presidente della Repubblica e 2 dalla presidenza del Consiglio dei ministri); 22 consiglieri sono in rappresentanza dei sindacati per i lavoratori dipendenti, 9 in rappresentanza degli autonomi, 17 in rappresentanza delle associazioni datoriali e 6 del terzo settore.
A votare contro sono stati i rappresentanti dei sindacati CGIL, UIL e USB, e cinque esperti tra quelli nominati dal presidente della Repubblica. Questi esperti avevano anche presentato una proposta per introdurre solamente una sperimentazione del salario minimo a partire dai settori più critici, quelli con retribuzioni più basse e ad alto rischio di lavoro povero. Quella di un’introduzione sperimentale è una proposta che fanno da tempo molti esperti, perché consentirebbe di valutare gli effetti di una misura di questo tipo e di fare eventuali correzioni. La proposta dei cinque esperti comunque non è passata.
Negli ultimi anni ci sono state tantissime proposte di legge sul salario minimo, di cui però non si è mai fatto nulla. Ma la diminuzione dei salari registrata negli ultimi anni, il precariato e i problemi di accesso al lavoro di alcune fasce della popolazione, come i giovani e le donne, hanno portato diversi politici ed economisti a sostenere l’esigenza di cambiare o rafforzare il sistema attuale di tutele contrattuali. Negli ultimi due anni poi l’inflazione ha peggiorato ulteriormente le cose per chi ha un reddito fisso, erodendone il potere d’acquisto.
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Il fatto che in Italia non ci sia un salario minimo legale non significa però che non ci siano sostanzialmente dei minimi retributivi, anzi. La maggior parte dei rapporti di lavoro tra aziende e dipendenti è regolata tramite l’uso dei contratti collettivi nazionali, che sono appunto quelli che vengono concordati e firmati tra i rappresentanti dei lavoratori e i datori di lavoro. Tipicamente ogni settore ha un suo contratto, che, tra le altre cose, stabilisce un minimo salariale. In Italia sono quasi mille e di fatto regolano la quasi totalità dei rapporti regolari di lavoro dipendente. Un’indagine della fondazione Adapt ha stimato che, escludendo chi lavora nell’agricoltura e nel lavoro domestico, i lavoratori coperti dai contratti collettivi sono il 97 per cento del totale: gli esclusi sarebbero tra 700 e 800mila. Secondo il rapporto del CNEL il dato è molto vicino al 100 per cento.
Questo sistema però ha diversi problemi: per esempio consente ai datori di lavoro di applicare contratti chiamati “pirata”, negoziati da sindacati poco rappresentativi, con l’obiettivo di pagare di meno lavoratrici e lavoratori, un metodo molto diffuso per esempio nella logistica. Questi piccoli sindacati fanno concorrenza ai sindacati maggiori e nel tempo hanno negoziato contratti al ribasso. Secondo una ricerca della Fondazione Di Vittorio, nel 2022 solo 207 su 894 contratti del settore privato depositati sono firmati da CGIL, CISL e UIL, i sindacati di gran lunga più rappresentativi.
Un altro problema è che spesso la povertà lavorativa è legata, più che ai minimi retributivi applicati, ai tempi di lavoro: in Italia talvolta si lavora poche ore e sono molto diffusi i contratti part time, col risultato che la busta paga è bassa anche se la retribuzione oraria è congrua.
Secondo i sostenitori del salario minimo questo strumento garantirebbe un livello di base per gli stipendi, chiaro e conosciuto da tutti, e rappresenterebbe uno dei tanti strumenti da attivare per combattere il lavoro povero; quelli contrari alla misura sostengono invece che lo stesso risultato possa essere raggiunto attraverso il sistema attuale, che il salario minimo indebolirebbe il ruolo dei sindacati e che comunque non risolverebbe il fatto che in Italia spesso i contratti prevedono solo poche ore settimanali.
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