L’esercito israeliano ci ha messo ore prima di raggiungere le comunità attaccate
In alcuni casi quasi un giorno intero: molti soldati erano impegnati in Cisgiordania, per una scelta precisa del governo israeliano
Gli attacchi compiuti da Hamas nelle comunità di Israele al confine con la Striscia di Gaza, in cui sono stati uccisi almeno 1.200 israeliani, sono stati così violenti anche perché i miliziani hanno avuto molte ore per massacrare i civili prima dell’intervento dei soldati israeliani. Molte delle oltre 20 comunità attaccate da Hamas a partire dalle prime ore del mattino hanno dovuto aspettare più di sette ore – e in alcuni casi fino a venti – prima di un intervento dell’esercito o di una qualche forza di sicurezza. Alcuni dei sopravvissuti si sono salvati restando barricati per un’intera giornata nelle safe room, le stanze blindate presenti in molte delle abitazioni vicine al confine, pensate per proteggersi dai razzi. Alcuni tra i partecipanti al festival musicale attaccato da Hamas sono invece rimasti nascosti oltre 20 ore fra i cespugli, prima di essere messi in salvo dall’esercito.
La principale ragione del ritardo è che nel territorio israeliano vicino alla Striscia di Gaza – in maniera un po’ sorprendente – i soldati erano pochi: la gran parte dell’esercito era stata spostata da tempo in Cisgiordania a protezione degli insediamenti dei coloni per volontà politica dell’attuale governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, il più a destra della storia di Israele. C’era inoltre la fallace convinzione che la sorveglianza della barriera che circonda la Striscia attraverso mezzi tecnologici potesse essere sufficiente.
I militari si sono dunque dovuti spostare da postazioni lontane e in alcuni casi i tempi si sono ulteriormente allungati per problemi di comunicazione. Quando sono arrivati nelle comunità attaccate, la situazione si era già complicata perché i miliziani avevano fatto in tempo a organizzarsi e soprattutto a prendere molte persone in ostaggio: gestire un’operazione di quel tipo con degli ostaggi è incredibilmente complicato. Anna Momigliano, giornalista esperta di Israele e Medio Oriente che ha scritto tra gli altri per il New York Times e per Haaretz, ha sottolineato questo aspetto nell’ultima puntata di Globo, il podcast del Post con interviste sulle cose del mondo. Momigliano ha detto: «Liberare un luogo con la presenza di ostaggi, con donne, anziani e bambini minacciati, è un lavoro comunque complesso e lo sarebbe stato anche per l’esercito israeliano del passato, ma la mancanza di reattività è stata evidente».
Il New York Times ha fatto una ricostruzione accurata degli orari degli assalti, delle prime richieste di aiuto, e dei tempi di risposta delle forze di sicurezza israeliane. In tre delle comunità dove sono stati uccisi più civili, il festival musicale nel deserto del Negev e i kibbutz di Nir Oz e di Be’eri, l’esercito è arrivato 7-8 ore dopo. Chi viveva nel kibbutz di Kfar Azza ha invece atteso aiuto fino a sera, oltre venti ore dopo.
Gli attacchi sono cominciati alle 6:30 del mattino, gli allarmi dell’esercito sui lanci di razzi sono stati immediati, ma ci sono voluti oltre 70 minuti prima che l’esercito comunicasse alla popolazione che alcuni miliziani si erano infiltrati in Israele, consigliando solo a quel punto di rimanere in casa. I miliziani di Hamas avevano già cominciato a sparare a Sderot, città vicino al confine, e al festival musicale. Erano già entrati anche nei kibbutz. Intorno alle 8:30 Israele ha dichiarato lo stato di guerra, confermato dal ministro della Difesa alle 10, tre ore e mezza dopo l’attacco. Solo alle 12.21 le forze armate israeliane hanno annunciato che erano state inviate truppe verso il sud del paese e nelle zone attaccate.
Nel lungo lasso di tempo fra l’attacco e la risposta militare di Israele, i miliziani hanno agito per lo più indisturbati: dopo aver sparato sulla folla, al festival hanno rubato delle auto e inseguito le persone in fuga nel deserto, in un rastrellamento che alcuni testimoni hanno detto essere durato ore. Nei kibbutz gli assalitori hanno potuto cercare gli abitanti casa per casa, dare fuoco ad alcune delle abitazioni, in certi casi rientrare negli stessi appartamenti più volte a distanza di ore, mentre alcuni degli abitanti si nascondevano e aspettavano l’arrivo dell’esercito. Il New York Times ha citato ad esempio il caso di Amit Man, un’infermiera del kibbutz di Be’eri, che dopo cinque ore dall’inizio dell’assalto scriveva alla famiglia: «Dov’è l’esercito? Non credo che uscirò di qui». I soccorsi sono arrivati solo 7 ore e mezza dopo l’attacco, non in tempo per salvarla.
Alle 13:50 sui social sono comparse le prime foto di soldati israeliani per le strade di Sderot, alle 18 veniva messo in sicurezza il kibbutz di Nir Oz, a Kfar Azza le operazioni di salvataggio sono state anche più lunghe e sono durate fino a tarda notte.
La risposta tardiva sarà oggetto di indagini e inchieste giornalistiche che probabilmente dureranno molto tempo, ma qualche spiegazione i giornali e gli esperti israeliani hanno già iniziato a darla.
Un errore per esempio è stato individuato nell’aver fatto eccessivo affidamento sulle apparecchiature tecnologiche (rilevatori di movimento, cannoni automatici) per difendere la barriera che divide la Striscia da Israele: neutralizzate queste, i miliziani non hanno avuto altra opposizione. È stato poi sottolineato come tutto il comando della divisione dell’esercito dell’area di Gaza fosse concentrato in un’unica base, a Re’im. Quando questa è stata attaccata e molti militari sono stati uccisi, feriti o presi in ostaggio, l’esercito ha perso i riferimenti e il coordinamento è stato impossibile.
Ma il problema principale è stato soprattutto un altro: i soldati presenti nella zona erano molto pochi. Alcuni analisti stimano che circa il 70 per cento delle forze attive in Israele nei giorni precedenti all’attacco fosse impegnata in Cisgiordania, dove il governo di Benjamin Netanyahu le usa da tempo in difesa dei coloni che costruiscono insediamenti sui territori palestinesi.
Sempre nel podcast Globo, Momigliano ha detto: «Sono quasi dieci anni che Netanyahu è criticato dagli apparati di sicurezza. Ha trasformato un esercito che una volta aveva una presenza capillare in ogni città in una forza di sicurezza per i coloni. Il lavoro dell’esercito è quasi diventato quello di una milizia privata per loro».
Negli anni Netanyahu è stato in più di un’occasione accusato di indebolire l’esercito e l’intelligence e di cercare di sottomettere entrambi al suo potere facendole aderire alle sue priorità politiche: il visibile fallimento di questi giorni sarebbe un risultato di questo processo.
– Ascolta anche: La nuova guerra di Israele, con Anna Momigliano