Il processo che si dice possa smascherare Banksy
Riguarda un bisticcio con il marchio Guess, ma in realtà sembra che l'identità dello street artist sarà tutelata anche questa volta
Negli ultimi giorni diversi giornali hanno pubblicato la notizia che l’identità del celebre street artist Banksy era stata rivelata nei documenti di una causa per diffamazione intentata dalla società britannica Full Colour Black e dal suo proprietario Andrew Gallagher. Il nome comparso negli atti sarebbe quello del 53enne di Bristol Robin Gunningham, ma ad aver dato questa notizia è stato il Daily Mail, un tabloid britannico noto per pubblicare spesso notizie false. Tuttavia, la denuncia esiste ed è stata presentata davanti all’Alta corte di giustizia britannica, il terzo tribunale più importante del Regno Unito. Non è chiaro quindi se nel corso della vicenda questa ipotesi possa essere effettivamente confermata.
Per il momento Banksy ha negato di essere Robin Gunningham e il Daily Mail non ha fornito alcuna prova a sostegno di questa affermazione, ma ha ripreso un’ipotesi che il giornale stesso aveva formulato nel 2008 a seguito di una «esaustiva indagine durata un anno». Nell’articolo pubblicato alcuni giorni fa sulla denuncia, il giornalista Richard Eden sosteneva di aver letto gli atti e di «poter rivelare che Banksy – lo pseudonimo di Robin Gunningham, 53 anni, nato a Bristol e che ha frequentato un collegio privato – è stato nominato come primo imputato in un’azione legale che lo accusa di diffamazione». Il modo in cui è costruita la frase è ambiguo: di fatto, non dice che Gunningham sia il nome che compare sul documento, bensì che è il nome che il giornale attribuisce – con certezza – a Banksy. Infatti il sito di news sul mercato dell’arte Artnet News, che ha letto a sua volta i documenti, scrive che gli imputati sono invece «l’artista noto come ‘Banksy’ e Pest Control Office Ltd.», ossia la società da lui creata per autenticare le sue opere.
Nella denuncia Gallagher e la sua società chiedono a Banksy di risarcirli per 1,3 milioni di sterline (circa 1,5 milioni di euro) per aver «danneggiato gravemente» la loro immagine attraverso un post su Instagram, ora cancellato. A novembre del 2022 Banksy aveva infatti pubblicato un post in cui accusava l’azienda di moda statunitense Guess di aver usato i suoi graffiti per una linea di abbigliamento senza avergli chiesto il permesso e invitava le persone a rispondere al “furto” delle sue opere da parte di Guess rubandone i vestiti dai negozi.
Guess aveva prodotto quella linea in collaborazione con Full Colour Black, nota nel Regno Unito per la sua produzione di cartoline d’auguri, ma che, come si legge sul sito, è anche un’azienda specializzata nella registrazione di licenze e commercializzazione di street art. Secondo Banksy, Full Colour Black, attraverso la compagnia di sua proprietà Brandalised che ne gestisce le licenze, aveva sostenuto di avere i diritti su alcune sue opere che però in realtà non aveva. Ma la situazione è un po’ più complicata di così.
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Le vicende legali fra Andrew Gallagher e Banksy in merito a chi può rivendicare la proprietà commerciale delle opere di street art di quest’ultimo vanno avanti da anni.
Le licenze registrate e amministrate da Full Colour Black (e Brandalised) si basano sull’idea che essendo i graffiti una forma d’arte che si trova in strada, quindi in uno spazio pubblico, le leggi sulla fotografia e sul dominio pubblico del Regno Unito permettono a chiunque registri i diritti per una certa immagine di utilizzarla commercialmente. In teoria, un artista che vede l’immagine delle sue opere diventare proprietà di un’azienda con cui non ha niente a che fare potrebbe contestare questa appropriazione e reclamare i suoi diritti d’autore. Tuttavia, fare graffiti su muri di proprietà pubblica o privata è un reato in moltissimi paesi: è il motivo per cui quasi nessuno si fa avanti e per cui Full Colour Black può dire di avere i diritti per replicare un’opera di street art su magliette, tazze e cartoline d’auguri e venderle senza dover dividere i ricavi con l’autore o l’autrice dell’opera stessa.
Nonostante per anni avesse detto che «il copyright è da sfigati», dal 2014 Banksy ha iniziato a registrare il trademark di alcune sue iconiche opere attraverso la Pest Control, una società che ha creato appositamente per non dover rivelare la sua identità. Il copyright protegge i diritti d’autore, mentre la registrazione di un trademark stabilisce l’uso esclusivo da parte di una società di una parola o di un simbolo. Per definizione, la registrazione di un trademark ne include un suo utilizzo commerciale, ma Banksy aveva optato per questa alternativa perché il suo anonimato gli impediva di reclamare il copyright sulle sue opere.
Fra quelle registrate c’era Monkey Sign, un suo disegno che ritrae una scimmia con un cartello attaccato al collo che riporta la frase “ridete pure, ma un giorno saremo noi a comandare”. La Full Colour Black, che usava l’immagine su alcune sue cartoline d’auguri modificando il messaggio scritto sul cartello, contestò nel 2019 la registrazione del marchio all’ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) sostenendo che il trademark fosse stato depositato in malafede, dato che Banksy sembrava non avere alcuna intenzione di commercializzarlo, e che l’immagine era in realtà priva di carattere distintivo. Banksy aveva risposto a queste accuse aprendo a Londra un negozio chiamato Gross Domestic Product dove venivano messi in vendita dei gadget delle sue opere per dimostrare che stava utilizzando i trademark. In realtà il negozio non vendeva niente.
Nel 2020 una prima decisione dell’EUIPO aveva dato ragione alla Full Colour Black, dicendo che Banksy non aveva alcuna reale intenzione di usare il trademark di Monkey Signs e che la creazione di Gross Domestic Product era stata solo una provocazione. Aveva inoltre aggiunto che «un altro fattore degno di considerazione è che non possa essere identificato come proprietario insindacabile di tali opere in quanto la sua identità è nascosta». Nel 2021 questa sentenza era stata confermata da un’altra che aveva annullato il trademark presentato da Banksy. Secondo l’EUIPO, l’opera realizzata su un muro pubblico «poteva essere fotografata gratuitamente da chiunque ed è stata ampiamente diffusa», citando tutte le volte in cui Banksy aveva detto pubblicamente che il suo pubblico era libero di riprodurre, modificare e utilizzare le sue opere. Anche in questo caso l’ufficio aveva detto che «poiché Banksy ha scelto di essere anonimo e non può essere identificato, ciò gli impedirebbe di proteggere quest’opera d’arte ai sensi delle leggi sul copyright senza identificarsi». Questa decisione era stata molto criticata per le implicazioni che avrebbe potuto avere per l’intera produzione artistica di Banksy, un artista che nonostante rimanga nell’anonimato ha uno stile riconosciuto a livello globale.
In seguito a una richiesta d’appello, tuttavia, questa decisione era stata ribaltata nel 2022. Come spiegato da Artnet News, dopo un ulteriore esame delle argomentazioni e delle prove fornite da Full Colour Black, la Corte ha concluso che queste non dimostrano davvero un «comportamento disonesto» da parte di Banksy, che di conseguenza ha il diritto di mantenere i suoi marchi registrati, anche mantenendo l’anonimato.
Nonostante i rischi, in tutti questi anni Banksy è riuscito a evitare di dover rivelare la sua identità ed è quindi poco probabile che proprio per un caso che non riguarda neanche i suoi diritti d’autore, ma una denuncia per diffamazione, le cose andranno diversamente. Anche nel caso si arrivasse ad un processo, Banksy ha diritto come imputato di scegliere se presentarsi o meno in tribunale. E sebbene esista la possibilità che il suo vero nome possa prima o poi comparire nei documenti ufficiali di un processo, sembra comunque abbastanza improbabile. Questo anche perché alcuni esperti del settore credono che ormai dietro all’identità di Banksy non ci sia più una sola persona ma un collettivo di street artist con una nutrita squadra di avvocati ed esperti di marketing, dedita alla produzione artistica ma anche al mantenimento di un marchio che negli anni è diventato molto lucrativo.