La storia complicata dell’archivio del processo del Vajont
In parte fu rovinato da una perdita di liquami, poi rischiò di essere danneggiato dal terremoto dell'Aquila: ora è a Belluno
Negli ultimi anni i 256 faldoni di carte processuali del processo sul disastro del Vajont, la frana che sessant’anni fa distrusse una serie di paesi della provincia di Belluno e uccise quasi duemila persone, sono stati completamente digitalizzati. Con l’eccezione dei documenti sulle vittime, secretati fino al 2041, dovrebbero essere resi disponibili online entro la fine del 2023. L’archivio però ha avuto una storia complicata e tuttora si discute su dove dovrebbe essere conservato fisicamente: per legge dovrebbe stare all’Aquila, dove si fece il processo sul disastro, ma attualmente si trova a Belluno, dove fu portato in seguito al terremoto abruzzese del 2009.
In occasione dell’anniversario di quest’anno se ne è parlato parecchio, e proprio dalla storia dell’archivio inizia anche uno dei libri pubblicati di recente sul Vajont, L’acqua non ha memoria. Storia salvata del disastro del Vajont (Utet), scritto dallo storico ed ex deputato Piero Ruzzante con il giornalista Antonio Martini. Il libro, di cui pubblichiamo una parte dell’introduzione, mette insieme una serie di testimonianze raccontate o ricavate dai documenti sul disastro, sul processo e sulle numerose persone coinvolte.
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Il terremoto dell’Aquila si è verificato alle 3:32 del 6 aprile 2009 e ha causato 309 vittime. Sotto le macerie di quella città rischiava di scomparire la memoria di un’altra tragedia, avvenuta quarantacinque anni e sei mesi prima.
Era il 9 ottobre del 1963 quando una frana staccatasi dal monte Toc precipitò nel bacino artificiale, alzando un’onda imponente che distrusse Longarone e le frazioni di Erto e Casso e Castellavazzo.
Le carte originali del processo del Vajont, che aveva avuto il suo avvio a Belluno, si trovavano proprio all’Aquila, dove il procedimento era stato trasferito, nel 1968, dalla Corte di cassazione per legittima suspicione. Un istituto giuridico che in quell’epoca non veniva quasi mai utilizzato, ma che vantava un precedente importante: il trasferimento, durante il fascismo, da Roma a Chieti, del processo per il delitto Matteotti. La stessa procedura avrebbe determinato, nel 1972, il trasferimento da Milano a Catanzaro del processo per la strage di piazza Fontana.
Quei documenti sono rimasti presso il tribunale del capoluogo abruzzese fino al marzo del 2009, per poi essere consegnati all’Archivio di stato della stessa città. Con poco più di un anno di anticipo rispetto ai quaranta che, secondo la legge, devono trascorrere dalla fine di un procedimento.
Se ciò è avvenuto, il merito è dello storico Maurizio Reberschak, che ricorda così quella travagliata vicenda: «Nel 2000 le carte erano ammassate nello scantinato del tribunale e una parte di esse era stata sommersa dai liquami degli scarichi che si erano rotti. Un cancelliere, Guglielmo Grippo, che aveva seguito il processo, alla vigilia del suo pensionamento le aveva fatte spostare al primo piano, in una sala adiacente a un’aula del tribunale. Una sede infelice, ma almeno distante dagli scarichi. Quelle carte noi abbiamo dovuto restaurarle e io feci la mia prima consultazione in quella stanza buia, illuminata solo da una lampadina».
Sempre il professor Reberschak presentò un progetto di ricerca al Ministero dei beni culturali, che si basava sulla salvaguardia dell’archivio processuale. Questo indusse il Ministero ad anticipare il trasferimento all’Archivio di stato.
Perché è importante questa circostanza? Perché, appena un mese dopo, la scossa tellurica che ridusse il centro storico di quella città a un cumulo di macerie non risparmiò nemmeno il palazzo del tribunale.
Ma il trasferimento non sarebbe stato sufficiente a salvare una parte così significativa della storia del Vajont. Perché l’Archivio di stato era ospitato presso il palazzo della Prefettura, ugualmente colpito dal sisma.
Il direttore dell’archivio, fortunatamente, non appena entrò in possesso della documentazione, la custodì in alcuni armadi metallici, che la protessero dal crollo. Le carte del processo non furono solo messe al sicuro, in quella manciata di settimane, ma fu effettuato un inventario non più solo sommario, ma analitico di tutto il prezioso materiale.
Una delle due archiviste che ci lavorarono, Giovanna Lippi, è morta proprio durante il terremoto. Così ne scrisse il Centro, il più diffuso quotidiano regionale: «L’Archivio di stato era la sua seconda casa. Era sempre pronta a dare una mano a chi si perdeva tra gli scaffali, con competenza e uno spirito tutto toscano (era originaria dell’isola d’Elba, n.d.r.). Studenti e colleghi se la ricordano lì, Giovanna, in mezzo alla polvere dei manoscritti medievali, a studiare, catalogare e tradurre dal latino gli antichi codici custoditi a L’Aquila, in un palazzo che ora non c’è più. Come quello in via D’Annunzio 24, dove Giovanna Lippi, detta “Gianna”, cinquantaquattro anni, è morta insieme al padre e alla madre». L’unico a essere stato estratto ferito ma ancora vivo dalle macerie fu il figlio di Giovanna: Francesco Iovinelli.
L’altra archivista che ha lavorato alle carte del Vajont, Daniela Nardecchia, dal 9 marzo 2015 è la direttrice dell’Archivio di stato dell’Aquila.
C’è una terza archivista in questa storia. Casualmente di origini abruzzesi, ma impiegata presso l’Archivio di stato di Belluno. È stata lei a prendere in consegna le carte provenienti dall’Aquila, nel dicembre di quello stesso 2009. Si chiama Silvia Miscellaneo.
«Arrivarono», ricorda, «durante una nevicata. I contenitori sono perfettamente conservati per essere restituiti».
Questo è quanto accadde: dopo aver messo in sicurezza il palazzo della Prefettura, o meglio ciò che ne era rimasto ancora in piedi, i vigili del fuoco estrassero le carte del Vajont dalle macerie e le consegnarono presso la nuova sede dell’Archivio di stato, un capannone industriale dismesso. A quel punto, non fu difficile al professor Reberschak convincere il direttore generale degli archivi, in una riunione al Ministero dei beni culturali, dell’impossibilità di consultarle in quella provvisoria collocazione.
Se ne decise, così, il momentaneo trasferimento a Belluno, dove sono tuttora custodite.
Ma nella loro nuova sede le carte non furono solo oggetto di consultazione: venne stabilito infatti che l’intera documentazione fosse trasferita su supporto digitale. Scampate prima all’inondazione dei liquami in tribunale e poi alla distruzione del palazzo della Prefettura, le carte del processo sarebbero state ora definitivamente salvaguardate. Ci sono voluti tre anni di lavoro.
E proprio nei giorni in cui sto scrivendo, quelle carte, le carte dell’Archivio processuale del Vajont, hanno ricevuto un importante riconoscimento: sono state iscritte nel Registro internazionale del Programma Unesco “Memoria del mondo”. Una candidatura avanzata più di dieci anni fa dall’Associazione Tina Merlin, dalla Fondazione Vajont, con la collaborazione degli Archivi di Stato di Belluno e dell’Aquila.
I bellunesi hanno vissuto il ritorno a casa di quelle vite spezzate attraverso le carte che ne raccontano le storie, come una sorta di risarcimento, seppur temporaneo, dopo che di quel patrimonio di memorie erano stati privati al momento dello spostamento del processo all’Aquila.
Venne presentato anche un emendamento alla legge che impone la permanenza dei fascicoli di un processo presso l’Archivio di stato della città nel quale lo si celebra, affinché si potesse legittimare il caso d’eccezione per le carte del Vajont. Ma la richiesta cadde nel vuoto e nessuna eccezione venne accolta. Per questa ragione, e non solo per questa, l’archivio del Vajont non può che essere un archivio diffuso.
[…] Finalmente c’è il finanziamento da parte del Ministero dei beni culturali per la realizzazione di un sito web che verrà inserito nella Rete degli archivi per non dimenticare. Come si legge sulla homepage, la Rete è un insieme di «numerosi archivi privati, centri di documentazione e associazioni, che hanno lavorato per conservare e tutelare la memoria storica del nostro paese riguardo alle tematiche legate al terrorismo, alla violenza politica e alla criminalità organizzata».
L’archivio digitale del Vajont trova qui la sua naturale collocazione perché considerato non una catastrofe naturale, bensì una strage. Sandro Canestrini, l’avvocato di parte civile della comunità di Erto e Casso, lo ha definito per l’appunto il «genocidio dei poveri».
© 2023, Piero Ruzzante e Antonio Martini, in accordo con AC2 Literary Agency.
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