Il governo Meloni fa decreti-legge come nessun altro
Dovrebbero essere usati solo «in casi straordinari di necessità e urgenza», ma il governo ne ha approvati più di 40 in quasi un anno
Da quando è in carica, cioè da quasi un anno, il governo di Giorgia Meloni ha approvato 43 decreti-legge, in media più di qualsiasi altro governo degli ultimi 15 anni. Non è una pratica propria solamente di questa legislatura, ma il governo Meloni l’ha decisamente consolidata e resa un’abitudine: più della metà di tutte le leggi entrate in vigore in quest’anno di governo erano inizialmente decreti, mentre soltanto il 19 per cento erano leggi ordinarie (il resto erano ratifiche di trattati internazionali, decreti legislativi e leggi costituzionali o legate al bilancio dello Stato).
È una pratica contraria ai limiti costituzionali, ritenuta rischiosa da molti esperti di diritto e già più volte criticata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ma sta causando problemi anche pratici, per esempio intasando i lavori del parlamento, che dopo l’approvazione di un decreto-legge da parte del governo ha 60 giorni per convertirlo in legge: in questi mesi di governo Meloni è già successo quattro volte che le Camere non facessero in tempo.
Secondo l’articolo 77 della Costituzione, i decreti-legge sono provvedimenti che dovrebbero essere utilizzati solo «in casi straordinari di necessità e urgenza». Proprio per via di queste caratteristiche entrano in vigore subito, e solo dopo vengono esaminati e votati dal parlamento, che però deve farlo in tempi brevi. È uno dei pochi casi in cui la funzione legislativa dello Stato viene affidata direttamente al governo, mentre in condizioni normali dovrebbe essere esercitata dal parlamento.
L’iter abituale di un progetto di legge prevede invece che il testo venga prima esaminato e discusso in entrambe le camere, che poi eventualmente lo approvano. L’iniziativa può partire da membri del parlamento stesso o del governo: nel primo caso vengono chiamate proposte di legge, nel secondo disegni di legge. Nella sostanza comunque cambia poco. Il parlamento può anche approvare leggi delega, che hanno il valore di leggi ordinarie, ma sono piuttosto rare e servono appunto a delegare la funzione legislativa al governo, dandogli alcune linee guida. Dopodiché il governo segue le indicazioni con un atto normativo definito decreto legislativo.
Altri due tipi di legge approvati dal parlamento su proposta del governo sono la legge europea e la legge di delegazione europea: la prima serve a modificare o abrogare norme in contrasto con le leggi dell’Unione Europea, la seconda a recepire direttive o altri tipi di norme sovranazionali. Assai più rare sono invece le leggi costituzionali, che integrano o modificano la Costituzione. I vari tipi di decreto come il decreto legislativo e il decreto-legge non sono leggi ordinarie ma «atti aventi forza di legge».
Il passaggio dei provvedimenti dal parlamento permette di progettarli meglio e con più tempo a disposizione, facendoli passare prima da studi e verifiche puntuali da parte delle commissioni parlamentari. Ma garantisce anche il rispetto di un principio democratico fondamentale: a differenza del governo infatti il parlamento è votato direttamente dai cittadini e rappresenta una maggiore pluralità di posizioni, comprendendo sia i partiti di maggioranza che quelli di opposizione.
Il governo Meloni – ma lo hanno fatto anche diversi dei precedenti, di ogni orientamento – ha utilizzato i decreti-legge anche per provvedimenti assolutamente non urgenti, che normalmente verrebbero affidati a leggi ordinarie. Un esempio noto e di cui si è discusso anche al di fuori degli ambienti più strettamente politici è quello del decreto-legge sulla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina: un progetto di cui si parla da decenni, e la cui eventuale realizzazione sarebbe certamente non immediata.
Un altro è quello del decreto-legge sul lavoro che il governo presentò simbolicamente il primo maggio, il giorno della festa dei lavoratori. Prevedeva misure decisamente non straordinarie come il taglio del cuneo fiscale e la sostituzione del reddito di cittadinanza, che il governo diceva di progettare da mesi. Dato che i decreti-legge entrano subito in vigore, però, il governo ha potuto rivendicare di stare facendo qualcosa di immediatamente efficace per i lavoratori, nel giorno in cui si sarebbe parlato di più dei loro problemi.
È uno schema replicato anche con altre misure: in diverse occasioni, non appena un problema o una questione è finita al centro del dibattito pubblico il governo è intervenuto con decreti-legge mirati. Spesso però si sono rese necessarie modifiche pesanti al testo di legge prima della conversione in parlamento, secondo molti un segno evidente dell’eccessiva fretta con cui quei provvedimenti erano stati presentati. È successo negli ultimi giorni con la discussa tassa sugli extraprofitti, annunciata in un modo e poi fortemente ridimensionata dopo le critiche.
Un uso eccessivo dei decreti-legge era già stato notato coi due governi precedenti a quello di Meloni: il secondo governo di Giuseppe Conte e quello di Mario Draghi. Entrambi questi governi però hanno a parziale giustificazione di questo atteggiamento il fatto che hanno governato negli anni della pandemia, quando la decretazione d’urgenza era stata in molte occasioni necessaria. Una recente analisi della fondazione Openpolis ha messo in fila i dati sul ricorso ai decreti-legge nei governi degli ultimi 15 anni, usando come parametro comune la media mensile dei decreti-legge approvati, in modo da poterli confrontare prescindendo dalla durata variabile dei governi.
Il governo Meloni è primo con 3,55 decreti-legge approvati al mese, segue il governo Draghi con 3,2 e poi il secondo governo Conte con 3,18. Quello che ne approvò di meno fu il governo di Paolo Gentiloni, durato circa un anno e mezzo: 1,18.
Pur essendo una tendenza di quasi tutti i governi, nel caso di quello in carica c'è un ulteriore aspetto che rende più grave la stortura: cioè che la conversione dei decreti-legge passa a volte da una questione di fiducia in una delle due camere. Così facendo il governo evita la discussione in aula sul provvedimento e chiede di votarlo direttamente per fare più in fretta. Può permetterselo, perché è sostenuto da un'ampia e solida maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia recente. In questo modo però il ruolo del parlamento nel fare le leggi, che dovrebbe essere la sua principale funzione, è fortemente limitato. La stessa Meloni e Fratelli d'Italia peraltro quando erano all'opposizione erano stati spesso molto critici con questo genere di pratiche.
In generale con il governo Meloni sempre più spesso le leggi vengono discusse in una sola camera, mentre nell'altra viene posta la fiducia, tanto che alcuni esperti hanno parlato di «monocameralismo di fatto» (l'ordinamento italiano prevede invece il “bicameralismo perfetto”, cioè un equilibrio assoluto tra i poteri di Camera e Senato).
Di recente persino un esponente in parlamento di Fratelli d'Italia, il principale partito di governo, si è detto preoccupato per questa situazione: Alfredo Balboni, presidente della commissione Affari costituzionali alla Camera, ha definito l'abuso di decreti-legge «una prassi sulla quale credo che quest'aula e il parlamento intero debbano riflettere attentamente». Balboni ne ha parlato in particolare in relazione al cosiddetto “decreto-legge giustizia”, che è stato convertito in legge dal parlamento lo scorso giovedì e che la sua commissione avrebbe dovuto esaminare ed eventualmente emendare. Balboni ha espresso da parte sua e dei suoi colleghi di commissione «il disagio per non aver potuto adempiere al mandato parlamentare, al nostro lavoro e alla nostra funzione nell'esaminare e votare questo provvedimento».
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Portare avanti il lavoro del governo “a colpi di decreti”, come si dice, ha come conseguenza che nei decreti ci finisca di tutto. In gergo questo genere di provvedimenti vengono appunto definiti decreti “omnibus”, e contengono misure di ambiti fra loro molto diversi. Il decreto “Asset” convertito giovedì per esempio si occupava di taxi, granchio blu nel Mediterraneo, rincaro dei biglietti aerei, stipendi dei manager della società che dovrebbe occuparsi del ponte sullo Stretto di Messina. Dei 43 decreti-legge approvati dal governo Meloni, 11 erano di questo tipo. La legge 400 del 1988, che regola l'uso dei decreti-legge, stabilisce che questi debbano avere un contenuto «specifico, omogeneo e corrispondente al titolo», proprio per via dell'urgenza che dovrebbe renderli necessari.
Finora le lamentele delle opposizioni su questo tema sono state limitate, anche perché i due principali partiti di opposizione, PD e M5S, non si erano comportati in modo molto diverso nelle loro recenti esperienze di governo (seppure con alcune attenuanti dovute alla pandemia, come abbiamo detto). Questa settimana però il leader di +Europa, Riccardo Magi, ha proposto a tutti i partiti di opposizione di andare «insieme dal presidente Mattarella» per sottoporgli la questione, che definisce «un'urgenza democratica». In diversi casi, in realtà, nel convertire alcune leggi Mattarella ha già fatto richiami al governo affinché eviti di legiferare in modo abituale con i decreti-legge e usandoli in modo improprio, come nel caso dei “decreti omnibus”: il suo ruolo non gli permette di fare molto più di questo in merito.
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