Sono tempi fortunati per l’arcipelago i cui siti internet finiscono con .ai

Anguilla, nei Caraibi, sta facendo un sacco di soldi registrando i siti delle aziende di intelligenza artificiale, e non è sola

L'isola di Anguilla (Flickr)
L'isola di Anguilla (Flickr)

L’arcipelago di Anguilla si trova nei Caraibi, a est di Portorico, e ha poco più di 15mila abitanti. È un territorio d’oltremare britannico, ovvero un’entità territoriale che si trova sotto la sovranità del Regno Unito, retaggio del suo vasto impero coloniale. Gli abitanti vivono soprattutto di turismo e pesca, ma il paese è anche un popolare paradiso fiscale, dato che non ha imposte sulle plusvalenze, sulla proprietà, sui profitti, sulle vendite o sulle società. Da un anno a questa parte, però, il governo di Anguilla sta guadagnando tantissimi soldi grazie a una fortunata coincidenza.

Così come il dominio di primo livello attribuito dall’Internet Assigned Numbers Authority (IANA) all’Italia è .it (il suffisso di indirizzi come www.ilpost.it, per capirci), quello assegnato ad Anguilla è .ai, che in inglese è anche l’abbreviazione di intelligenza artificiale. Per avere un indirizzo web diverso dagli altri, che comunichi immediatamente il settore in cui lavorano, negli ultimi mesi tante aziende che si occupano di software di intelligenza artificiale hanno cominciato a registrare indirizzi web che terminano con .ai, pagando il governo di Anguilla per ottenerlo. È il caso delle startup stability.ai e character.ai, ma anche delle pagine dedicate ai programmi di intelligenza artificiale di aziende molto più grosse, come google.ai, microsoft.ai e facebook.ai. Secondo stime recenti, il registro di domini attualmente genera circa 3 milioni di euro al mese per il governo di Anguilla, ovvero circa un terzo del suo budget mensile.

Nel 1974 l’Organizzazione internazionale per la normazione, che si occupa di definire standard a livello internazionale, assegnò a tutti i paesi e anche a molte entità territoriali prive di sovranità un codice che include un’abbreviazione per ogni paese. Nei decenni seguenti quel codice è stato integrato in varie nuove invenzioni, come i passaporti a lettura ottica o, appunto, i nomi dei domini dei siti internet (che, semplificando, servono a identificare una posizione su Internet, facilitando la memorizzazione e la digitazione degli indirizzi web).

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Inizialmente c’era così poca gente che usava internet nei vari paesi che i domini di primo livello erano amministrati da una singola persona: la prima fu il professor Jon Postel, inventore del concetto stesso di dominio di primo livello, che a partire dal 1985 divenne l’amministratore del dominio .us, per gli Stati Uniti. Una delle parti centrali del lavoro era quella di permettere alle persone che volessero registrare un nome di dominio per un sito di farlo.

Gli amministratori erano spesso accademici o ricercatori che si occupavano di informatica, ma talvolta erano persone a caso: a lungo, Postel delegò la responsabilità alla prima persona che ne facesse richiesta. Nel caso di Anguilla, per esempio, il dominio .ai venne affidato nel 1994 a un libertario californiano di nome Vince Cate, che aveva deciso di trasferirsi ad Anguilla per avviare un’attività di posta elettronica in un paradiso fiscale e, da lì, contattò Postel per offrirsi volontario.

Fino al 1995 ottenere un nome di dominio fu gratuito, dato che c’era poca richiesta e non c’era nessun valore particolare nell’avere uno specifico nome di dominio per il proprio sito web rispetto a un altro. Tutto cambiò con la cosiddetta bolla delle dot-com, la crisi finanziaria che seguì alla contrazione del settore delle aziende tecnologiche dopo l’enorme espansione avuta negli anni Novanta. In quegli anni, un numero crescente di persone cominciò ad accaparrarsi nomi di dominio da utilizzare per perpetrare truffe online e altre attività illegali. Altri investivano nel “cybersquatting”, la pratica di “occupare” un nome di dominio molto desiderabile – spesso perché associato a grossi brand che presto avrebbero potuto voler creare un proprio sito web – per cercare di rivenderlo poi alle aziende in questione a grosse cifre.

Da allora, i domini sono considerati non più infrastrutture pubbliche come era inizialmente, ma merce di scambio: vengono venduti, scambiati e messi all’asta, e piccoli governi come quello di Anguilla sono contenti di cederli a startup e investitori stranieri in cambio di ingenti somme di denaro. Vince Cate fa ancora il lavoro per cui si era offerto volontario nel 1994, anche se ora lavora per conto del governo: gran parte dei paesi hanno infatti ormai assunto il controllo della gestione del proprio dominio, e molti hanno introdotto regolamenti per limitare le registrazioni di nuovi nomi di dominio a individui o organizzazioni con legami effettivi con il paese.

Alcuni domini di primo livello, però, sono più ambiti di altri. C’è l’arcipelago della Micronesia, nel Pacifico occidentale, il cui dominio .fm è usato da molti siti di radio o servizi musicali, come last.fm o setlist.fm. C’è il Montenegro, piccolo stato dei Balcani, che dice di aver guadagnato tantissimi soldi vendendo nomi di dominio legati al suo .me.

E c’è il .tv dell’isola di Tuvalu, nel sud del Pacifico, che è nota per aver pagato il proprio ingresso nelle Nazioni Unite vendendo temporaneamente la licenza del suo dominio a un’azienda statunitense al picco della bolla dot-com: tra i siti famosi che ancora oggi usano .tv c’è per esempio twitch.tv. Il servizio di registrazione di nuovi nomi di dominio per .tv oggi è gestito dall’azienda GoDaddy, che cede una piccola percentuale dei propri guadagni al governo ogni volta che un nuovo sito viene registrato con il dominio .tv.

In alcuni casi, però, i governi non sono mai riusciti a riottenere il controllo del proprio dominio: è il caso dello stato insulare di Niue, nel Pacifico meridionale, che non ha mai ricevuto soldi dalle vendite dei nomi di dominio legati a .nu perché lo statunitense che ne aveva chiesto il controllo negli anni Novanta vendette poi la licenza a un’azienda svedese che si rifiuta di cederne il controllo al governo di Niue. Secondo lo stesso governo, questo ha causato una perdita di introiti tra i 27 e i 37 milioni di dollari. Dal 2018 c’è una causa in corso.

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Ancora più complesso è il caso delle isole Chagos, nell’oceano Indiano. Occupate dal Regno Unito nel 1968 per costruire una base militare, denominata “Territorio britannico dell’Oceano Indiano”, le Chagos hanno comunque un dominio collegato, .io, molto ambito tra le aziende tecnologiche in quanto abbreviazione di un termine molto usato nel settore, “input/output”. Non è chiaro a chi arrivino i soldi dei tanti nomi di dominio registrati con il suffisso .io però: il Regno Unito nega di averli ricevuti, ma i nativi delle isole Chagos che sono stati espulsi negli anni Sessanta e ancora oggi sono organizzati in gruppi di rifugiati dicono che i profitti non sono mai arrivati nemmeno a loro.

Infine, interi territori che non fanno parte delle Nazioni Unite non hanno mai ottenuto un codice di identificazione internazionale e quindi non hanno neanche un dominio proprio. È il caso del Kosovo e del Somaliland. «Il diritto alla codificazione è, quindi, un atto politico: stabilisce, negozia e respinge le pretese di autonomia e sovranità degli individui e delle comunità», ha scritto il giornalista Tianyu Fang. «E l’economia dei nomi di dominio è fragile quanto i territori. L’esistenza di Tuvalu è minacciata dall’innalzamento del livello del mare: il paese potrebbe diventare inabitabile entro la fine del secolo. È possibile che un giorno il Territorio britannico dell’Oceano Indiano non esista più: i tribunali internazionali si sono pronunciati contro l’occupazione britannica delle Isole Chagos e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha chiesto la decolonizzazione dell’arcipelago nel 2019. Se questi nomi verranno cancellati dall’elenco dei territori dell’ISO, potremmo ritrovarci con tantissimi link morti».