L’Unione Europea ha smesso di allargarsi
Sono passati dieci anni dall'ultimo ingresso, e i motivi sono soprattutto politici: e se per esempio entrassero democrazie non ancora mature?
Giovedì inizia a Granada, in Spagna, una riunione della Comunità politica europea, un organo informale che comprende 47 stati dell’Europa geografica, fra cui molti paesi che aspirano ad entrare nell’Unione Europea. La Comunità era stata messa in piedi nel 2022 dall’Unione Europea proprio per rafforzare i legami con questi paesi, alcuni dei quali stanno negoziando da anni il loro ingresso, regolato da norme assai complesse.
Dalla riunione non ci si aspettano sviluppi concreti. Ma il fatto stesso che ormai si tenga a cadenza regolare, nonché la recente richiesta dell’Ucraina di entrare nell’Unione, hanno riaperto il dibattito su un ulteriore allargamento, e sul perché negli ultimi anni questo processo si sia fermato. Dalla sua fondazione nel 1992 a oggi altri 16 stati sono entrati nell’Unione Europea, e i trattati menzionano esplicitamente il fatto che qualunque stato dell’Europa geografica possa fare richiesta per entrare. L’ultimo in ordine di tempo, la Croazia, lo ha fatto però dieci anni fa. Da allora l’Unione ha addirittura perso un paese membro, il Regno Unito, che ne è uscito dopo il referendum del 2016 su Brexit.
Le ragioni di questo stallo sono diverse, e su più livelli.
Una prima ragione è di natura soprattutto politica. Negli anni successivi alla crisi economica del 2008-2011 l’esistenza stessa dell’Unione Europea fu messa in forte discussione sia dai partiti europei populisti e nazionalisti, che la consideravano emanazione di una classe dirigente globale che si metteva di traverso agli interessi dei singoli stati, sia dai partiti di sinistra radicale, che la ritenevano troppo compromessa con un approccio liberista nella politica economica. Il tasso di popolarità dell’Unione Europea e delle sue istituzioni è rimasto a lungo assai basso: nel giugno del 2013 il 48 per cento degli europei riteneva che l’appartenenza del proprio paese all’Unione non fosse una cosa né positiva né negativa, o che fosse negativa. Per anni insomma l’Unione non ha avuto la forza politica anche solo per ipotizzare di assorbire altri paesi membri.
Anche quando l’immagine dell’Unione è migliorata, prima grazie alla ripresa economica e poi alla risposta coordinata sulla fornitura di vaccini contro il coronavirus, diversi fra i paesi più ricchi e influenti hanno conservato dubbi di natura politica su un eventuale allargamento.
Sui benefici economici e commerciali di un allargamento nessuno ha da ridire o quasi: «ogni allargamento ha portato a una crescita economica in tutta l’Unione», ha sintetizzato efficacemente Cecilia Malmström, ex commissaria europea al Commercio fra 2014 e 2019. Oggi il PIL di tutti i paesi dell’Unione è superiore rispetto a quello pre-entrata. Un allargamento dell’Unione Europea significa fra le altre cose un accesso a nuovi mercati sia per i paesi che sono già membri sia per quelli che vogliono diventarlo, e molte altre opportunità economiche che derivano da questa appartenenza. Dal punto di vista politico le cose sono diverse.
Da qualche anno sempre più commentatori ritengono per esempio che il cospicuo allargamento verso est compiuto dall’Unione Europea fra il 2004 e il 2007 verso stati che facevano parte dell’Unione Sovietica o del Patto di Varsavia, e che quindi fino a trent’anni fa non conoscevano o quasi l’economia di mercato, lo stato di diritto o l’allargamento dei diritti civili, sia avvenuto in maniera troppo frettolosa. Inglobando paesi che non erano democrazie mature, sono state legittimate con fondi e appoggio politico classi dirigenti che hanno poi governato quei paesi in maniera semiautoritaria, cosa avvenuta per esempio in Polonia e Ungheria.
Per come è stata strutturata l’architettura istituzionale dell’Unione, inoltre, questi paesi non possono essere sospesi o espulsi facilmente. E al momento tutti i paesi che stanno negoziando il proprio ingresso nell’Unione fanno parte dell’Est Europa. Chi ci assicura, si sono chiesti negli anni scorsi paesi come la Francia o i Paesi Bassi, che un ulteriore allargamento non porti alla nascita di governi problematici, con cui poi andranno fatti i conti?
Dall’altra parte i paesi che stanno cercando di entrare nell’Unione si lamentano da anni di procedure di ingresso troppo complicate e soggette alla volubilità politica dei paesi che già oggi sono membri. Anche diversi commentatori sono d’accordo: Thomas de Waal, giornalista e analista per il think tank Carnegie Europe, ha scritto di recente che il processo di allargamento è «sia iper-tecnico sia eccessivamente politico».
Le norme per l’allargamento devono seguire dai cosiddetti “criteri di Copenhagen”, definiti nel 1993. Da allora sono stati più volte aggiornati, ma mai davvero riformati. Prevedono che un paese che desidera entrare nell’Unione si allinei agli standard europei in sei ambiti generali – questioni fondamentali; mercato interno; competitività e crescita; agenda verde; agricoltura e coesione; relazioni esterne – per un totale di 35 capitoli. I capitoli si affrontano uno alla volta. Un certo capitolo può essere chiuso soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo nel considerare chiuse le trattative.
I paesi che oggi stanno cercando di entrare nell’Unione Europea sono fra i più poveri e fragili dal punto di vista istituzionale di tutta l’Europa geografica. Spesso non hanno le risorse o il capitale politico per imporre le estese riforme chieste dai funzionari europei. Ormai da anni poi l’Unione Europea sta ampliando il cosiddetto acquis, cioè l’insieme degli obblighi giuridici previsti dall’Unione Europea: per i singoli paesi significa dover adattare le proprie leggi a quelle europee, con meccanismi diversi che richiedono grossi sforzi e risorse. Adottare l’acquis fu relativamente semplice per paesi ricchi e stabili come l’Austria, la Finlandia e la Svezia, che entrarono nell’Unione Europea nel 1995. Lo è molto meno oggi per paesi come quelli dei Balcani occidentali, il principale bacino a cui si rivolgono le politiche di allargamento dell’Unione.
Al contempo ci sono paesi che da anni stanno faticosamente facendo degli sforzi per applicare le riforme previste dall’Unione, ma i cui passi in avanti di fatto non sono stati riconosciuti per motivi politici. La Macedonia del Nord è uno dei paesi più stabili dei Balcani ed è considerata da tempo uno dei candidati più credibili per entrare nell’Unione Europea: ma ormai da anni sta cercando di andare incontro alle richieste politiche di alcuni paesi membri dell’Unione, che hanno il potere di veto sull’ingresso di nuovi membri. Nel 2018 ha cambiato nome su precisa richiesta della Grecia, e questa estate ha avviato una complessa riforma della Costituzione per venire incontro alle preoccupazioni della Bulgaria sui diritti della minoranza bulgara che vive in Macedonia del Nord.
Un esempio più recente è quello della Polonia, un paese in cui è in corso un’aspra campagna elettorale per le elezioni parlamentari del 15 ottobre. Il principale partito di governo, Diritto e Giustizia, raccoglie voti soprattutto nelle zone povere e rurali, cioè quelle che hanno subito le maggiori conseguenze dell’aumento dell’inflazione e dei prezzi dell’energia innescato dalla guerra in Ucraina, e a loro dire anche dall’accordo europeo sulle esportazioni di grano ucraino. E quindi da qualche settimana il governo polacco ha inasprito la propria retorica sull’Ucraina – per esempio ha annunciato che smetterà di fornirle armi, anche se l’annuncio è stato seguito da alcune precisazioni – e verosimilmente nella riunione della Comunità politica europea non prenderà alcun impegno sull’ingresso dell’Ucraina nell’Unione.
– Leggi anche: Fare entrare l’Ucraina nell’Unione Europea è molto più difficile di quanto si pensi
Ci sono anche opposizioni più strutturali. La Spagna, per esempio, è l’unico grande paese dell’Unione a non riconoscere l’indipendenza del Kosovo, uno dei paesi che secondo le istituzioni europee stanno facendo più passi in avanti nell’allineamento con gli standard europei. Nessun governo spagnolo finora ha mai cambiato posizione, temendo che un riconoscimento del Kosovo diventi una implicita legittimazione delle istanze indipendentiste della Catalogna.
Secondo alcuni, soltanto una riforma del processo di allargamento dell’Unione può sbloccare l’ingresso di nuovi paesi. «Il punto è che non puoi avere una procedura in balia delle dinamiche elettorali dei 27 paesi che sono già membri», spiega Luisa Chiodi, direttrice dell’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, che di recente si è occupata delle prospettive di allargamento dell’Unione Europea in un rapporto per il think tank IAI.
La proposta di Chiodi è quella di coinvolgere i governi soltanto nella fase finale del processo di allargamento, in modo da evitare eccessivi condizionamenti politici. «Il processo è lungo, richiede impegno e serietà, e questo si può fare se tutte le fasi intermedie sono messe nelle mani di un organo tecnico come la Commissione Europea. Poi è ovvio che il voto finale debba avvenire all’unanimità: basta che sia soltanto l’ultimo stadio», spiega Chiodi.
Per essere approvata, però, una riforma simile a quella di Chiodi dovrebbe ottenere l’approvazione unanime di tutti i paesi membri, come prevedono i trattati europei nel caso delle misure più ambiziose e strutturali. Proprio il principio dell’unanimità, finora, è stato un altro fattore che ha scoraggiato un ulteriore allargamento dell’Unione. E secondo alcuni è l’ostacolo istituzionale più grande per l’ingresso di eventuali altri paesi.
I paesi più grossi temono che un’ipotetica Unione Europea allargata a 32, 33 o 35 membri e con le stesse regole di oggi finisca bloccata sempre più spesso dai veti dei paesi più piccoli, come oggi accade in maniera sistematica con Polonia e Ungheria sulla riforma del regolamento di Dublino, quello che definisce quale paese deve esaminare la domanda dei richiedenti asilo che entrano in territorio europeo. Per cambiarle, ovviamente, avrebbero bisogno dell’approvazione dei paesi più piccoli: i quali però non sembrano d’accordo.
Questi paesi tengono parecchio al proprio potere di veto, e temono che un ulteriore allargamento possa comportare una riduzione del loro potere contrattuale: se più paesi minacciano di mettere un veto, è probabile che una certa proposta venga abbandonata. Se lo fa soltanto uno, verosimilmente gli altri paesi cercheranno di fare delle concessioni per convincerlo.
In questo stallo politico e istituzionale è difficile capire se a breve si riuscirà a trovare un compromesso e sbloccare l’ingresso di altri paesi nell’Unione: nessuno, finora, ha avuto idee concrete in questa direzione.