La rimozione degli insediamenti illegali da due territori indigeni in Brasile
Il governo vuole espellere 1.600 famiglie non indigene, nello stato di Pará, pochi giorni dopo un'importante sentenza della Corte Suprema
L’Agenzia di intelligence brasiliana (ABIN) ha ordinato alle persone non indigene di andarsene dai territori di Apyterewa e Trincheira Bacajá, nello stato settentrionale di Pará, riconosciuti come territori indigeni protetti. Le autorità stimano che nella zona vivano 1.600 famiglie non indigene. In un comunicato del governo si dice che la presenza illegale di stranieri «minaccia l’integrità dei popoli indigeni e causa altri danni come la distruzione delle foreste». Negli insediamenti sono molto diffuse pratiche minerarie e agricole illegali, fra le principali cause della deforestazione in Brasile.
Si stima che nei territori di Apyterewa e Trincheira Bacajá vivano circa 2.500 persone indigene, delle etnie Parakanã, Mebengôkre Kayapó e Xikrin, distribuite fra 51 villaggi. Il governo brasiliano ha anche detto che ci sono delle tribù che vivono ancora isolate, praticamente senza nessun contatto con la società moderna. I due territori sono fra le riserve indigene più colpite dalla deforestazione in Brasile.
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Il governo ha fatto sapere di agire in base a direttive della Corte Suprema. L’intelligence ha detto di sperare che gli abitanti non indigeni se ne vadano in maniera volontaria e pacifica. Non è chiaro se l’agenzia intenda usare la forza, se gli abitanti non dovessero collaborare.
Il 21 settembre la Corte Suprema aveva stabilito con una sentenza l’incostituzionalità del principio del “limite temporale”, una tesi secondo cui le popolazioni indigene brasiliane non avrebbero potuto reclamare diritti esclusivi su terreni che non occupavano fisicamente, o su cui non era in corso una disputa legale prima del 1988, quando entrò in vigore la Costituzione del Brasile. Molte popolazioni non avevano ancora avuto contatti col governo federale, e ancora di più erano già state cacciate dai propri territori ancestrali, soprattutto durante i 21 anni della dittatura militare in Brasile, finita nel 1985.
La dottrina del “limite temporale“ era sostenuta anche dall’industria agroalimentare, uno dei gruppi più influenti nella politica brasiliana, che tipicamente si oppone al riconoscimento dei territori indigeni: quando un’area viene riconosciuta come tale, le popolazioni che vi si sono stabilite ottengono il diritto di proprietà e i diritti di sfruttamento esclusivi delle sue risorse. Le pratiche agricole diffuse in Brasile prevedono frequentemente la distruzione di ampie parti di foresta per far posto ai pascoli per il bestiame, allevato per la carne.
Dall’inizio dell’anno, quando è entrato in carica il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, di sinistra, il governo ha ripreso gli sforzi per tutelare le terre indigene del Brasile. Secondo i dati ufficiali, circa 20mila minatori illegali sono stati espulsi dal grande territorio indigeno degli Yanomami, nel nord del paese, e anche agli abitanti non indigeni del territorio dell’Alto Rio Guamá, nello stato di Pará, è stato ordinato di andarsene.
Il governo di Lula è stato anche il primo della storia brasiliana ad avere un ministero dei Popoli indigeni, guidato dall’attivista Sônia Guajajara. La nuova amministrazione ha anche dato un nuovo impulso a diverse istituzioni per la tutela dei diritti e delle terre delle popolazioni indigene, che erano state svuotate di fatto dei loro poteri durante la presidenza di Jair Bolsonaro, fra il 2018 e il 2022, fra cui la Fundação Nacional do Índio (FUNAI), l’agenzia governativa per la tutela della popolazione indigena.
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