Il governo è troppo ottimista sulle privatizzazioni
Prevede di incassare 20 miliardi entro il 2026 da usare per ridurre il debito pubblico senza misure impopolari: è poco plausibile
Nel fine settimana il governo ha pubblicato il testo della Nota di Aggiornamento al DEF, il documento che viene redatto ogni anno per aggiornare le previsioni economiche su vari aspetti della finanza pubblica, come la crescita del PIL, l’indebitamento degli anni successivi, l’andamento del debito pubblico e così via. È un documento in cui il governo dice solo a grandi linee che cosa intende fare a livello economico – per esempio quali misure introdurre o quali togliere – ma che è importante per capire in quale contesto economico prevede di agire, su quali entrate crede di poter contare e quanti soldi intende spendere.
Nella NADEF appena pubblicata, la prima elaborata interamente dal governo di Giorgia Meloni, tra le altre cose è comparso un dato piuttosto eccezionale sui proventi che il governo prevede di ottenere entro il 2026 dalle privatizzazioni, ossia dalla vendita di aziende pubbliche o di partecipazioni che lo stato ha in aziende private. Secondo la NADEF infatti nel triennio 2024-2026 dovrebbe ottenere in questo modo circa l’1 per cento del PIL, pari a 20 miliardi di euro. A prescindere dalle valutazioni politiche sull’opportunità di realizzare le privatizzazioni, a livello quantitativo è un obiettivo assai ambizioso e per la maggior parte degli osservatori addirittura irrealistico e poco credibile: significherebbe dismettere una grossa parte delle aziende pubbliche nel giro di pochissimo tempo.
I grandi piani di privatizzazioni sono sempre piuttosto allettanti per i governi, perché per legge i proventi che ne derivano devono essere destinati alla riduzione del debito pubblico. Le regole europee sui conti pubblici prevedono che gli stati con un alto debito come l’Italia debbano impegnarsi per ridurlo in un percorso credibile e costante, la cui dimensione è ogni anno oggetto di negoziati assai complicati con la Commissione europea. Per questo le privatizzazioni rappresentano una scorciatoia: vendendo pezzi di aziende o aziende intere di proprietà dello stato, i governi si impegnano implicitamente a diminuire il debito, senza dover passare per politiche impopolari come la riduzione della spesa pubblica o l’introduzione di nuove tasse.
Nella NADEF appena pubblicata il governo si è posto l’obiettivo di ridurre il debito pubblico complessivamente di 0,6 punti percentuali di PIL entro il 2026: significa che dipenderà integralmente dalle privatizzazioni, che dovrebbero valere quasi il doppio in rapporto al PIL. Gli economisti hanno grandi perplessità sulla credibilità di questo obiettivo, principalmente riconducibili a tre tipi.
Il primo è che ancora non esiste un piano concreto del governo su come intenda raggiungere l’obiettivo, che indichi per esempio quali aziende vendere e a quanto. Anzi, finora il governo si è mosso nella direzione opposta, ossia quella di acquisire partecipazioni: come nel caso di Tim, di cui il governo comprerà il 20 per cento della rete nell’ambito della trattativa con cui il fondo statunitense KKR ha intenzione di acquisirla.
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Il secondo motivo è che gli ambiziosi piani di privatizzazione del passato sono stati spesso disattesi. Come ha ricostruito Luciano Capone sul Foglio, l’ultima volta che un governo si pose obiettivi simili era il 2019, quando il primo governo di Giuseppe Conte, composto da Lega e Movimento 5 Stelle, aveva previsto privatizzazioni proprio per 1 punto percentuale di PIL per lo stesso anno e per lo 0,3 per cento nel 2020. Alla fine non ne fu fatta nessuna. Anche negli anni precedenti non erano stati raggiunti quasi mai gli obiettivi: nel 2011 il governo di Mario Monti si pose l’obiettivo di ottenere quasi 10 miliardi l’anno dalle privatizzazioni, senza riuscirci; anche nel 2014, con al governo Matteo Renzi, le vendite dovevano garantire proventi per lo 0,7 per cento del PIL, ma ne procurarono solo lo 0,2; solo nel 2015 l’obiettivo dello 0,4 per cento fu raggiunto con la quotazione in borsa di Poste Italiane e la vendita della partecipazione dello stato in Enel. Dal 2017 in poi le entrate da privatizzazioni sono state sostanzialmente nulle.
Il terzo motivo è legato al fatto che realisticamente non sono poi così tante le aziende pronte per la vendita e che garantirebbero il raggiungimento dell’obiettivo in così poco tempo. Al momento ci sono già due operazioni che il governo Meloni ha ereditato dal passato e che potrebbe realisticamente portare a termine: la vendita di ITA Airways e quella di Monte dei Paschi di Siena.
Sulla prima, a maggio il governo aveva annunciato di aver raggiunto un accordo con Lufthansa per la vendita di una quota di ITA Airways: attualmente è del 100 per cento dello stato. L’accordo prevede la vendita del 41 per cento per 325 milioni di euro. Al momento l’operazione è però ferma perché si attende l’approvazione della Commissione europea, che deve pronunciarsi sul rispetto o meno delle regole sulla concorrenza.
La vendita di MPS è ben più indietro. Dopo varie operazioni di risanamento, dal 2017 il ministero dell’Economia ne detiene il 64 per cento in deroga alle regole europee sulla concorrenza. Varie volte sono iniziate delle trattative con banche private per la vendita, l’ultima nel 2021 con Unicredit: finì con un nulla di fatto, perché Unicredit chiedeva che lo stato mettesse ancora soldi nella banca per risanarla e soprattutto perché non fu trovato un accordo sul prezzo.
Ciclicamente la Commissione europea chiede al governo di sbrigarsi con la vendita: ha dovuto concedere una proroga dopo che è fallita la trattativa con Unicredit (che avrebbe consentito di rispettare la scadenza originaria), ma nel frattempo ha proibito alla banca di fare alcune operazioni, come la distribuzione degli utili o nuove acquisizioni.
Rispetto a due anni fa oggi il bilancio di MPS è molto migliorato ed è plausibile pensare che possano esserci altre banche interessate all’acquisto. In ogni caso MPS vale complessivamente 3 miliardi di euro, e la quota dello stato circa 2 miliardi.
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Se il governo effettivamente riuscisse a portare a termine queste due operazioni – ed è plausibile che ci riesca – otterrebbe poco più di 2 miliardi, un decimo rispetto all’obiettivo di 20 miliardi entro il 2026.
Lo stato ha comunque molte quote in altre aziende, come Enel, Eni, Poste, Leonardo, Enav, Ferrovie dello Stato, STMicroelectronics e Autostrade per l’Italia. Ma per vari motivi è difficile pensare che il governo possa decidere di venderle nell’immediato.
Per esempio, le partecipazioni nelle aziende energetiche come Enel o Eni hanno garantito negli ultimi anni dei buoni utili, ed è piuttosto implausibile pensare che il governo possa rinunciarci. In più la crisi energetica dello scorso anno è ancora piuttosto fresca nell’opinione pubblica, ed è probabile che il governo voglia mostrarsi ancora presente in un settore così delicato. Tanto che a dicembre dello scorso anno aveva addirittura preso il controllo temporaneo della raffineria petrolifera di Priolo, andando quindi in direzione opposta alla logica della privatizzazione.
Le partecipazioni che potrebbero portare buoni incassi da un’eventuale vendita sono quella in Poste Italiane e nelle Ferrovie dello Stato: in entrambi i casi sono settori in cui servono enormi capitali e conoscenze, in cui le regole sono molto vincolanti e in cui è improbabile ci siano davvero degli acquirenti privati disposti a entrare.
Ci sono poi aziende che sono in settori piuttosto sensibili a livello politico. Leonardo è nel settore della difesa, e non è detto che il governo decida di venderla e di rinunciare agli utili che genera proprio in periodo di guerra. Autostrade per l’Italia è appena tornata sotto il controllo pubblico, dopo le forti pressioni pubbliche e politiche seguite al crollo del Ponte Morandi. C’è poi STMicroelectronics, un’azienda che produce semiconduttori, un settore in cui è in corso una grande guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina per il controllo della tecnologia: sarebbe piuttosto azzardato per il governo cedere a un privato un’azienda così strategica in questo momento.
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