La numerosa comunità di esuli russi in Turchia
Dall’invasione dell’Ucraina centinaia di migliaia di russi hanno lasciato il proprio paese, per ragioni diverse: molti sono arrivati a Istanbul
di Eugenio Cau e Valentina Lovato
Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, il 24 febbraio del 2022, migliaia di russi sono scappati a Istanbul, la più grande città della Turchia e prima meta per chi non voleva avere niente a che fare con il regime di Vladimir Putin. Tante persone per esempio temevano rappresaglie per il proprio attivismo politico e non volevano essere reclutate nell’esercito diventando «assassini», come ha detto la moglie di uno di loro. Il giorno dell’invasione, e per molte settimane di fila, gli aerei che dalla Russia portavano alla più grande città della Turchia erano tutti pieni, e i biglietti erano arrivati a costare cifre altissime.
Le ragioni per cui molti russi hanno scelto Istanbul sono numerose. Alcune molto pratiche: la Turchia era uno dei pochi paesi che ancora accettavano cittadini russi senza bisogno di visto, dopo che i paesi dell’Unione Europea avevano vietato tutti gli arrivi dalla Russia.
La grande fuga di centinaia di migliaia di cittadini russi da quando Vladimir Putin ha deciso l’invasione dell’Ucraina è una delle principali storie che ruotano attorno alla guerra. Le comunità russe che si sono create fuori dal paese in quest’ultimo anno e mezzo sono al tempo stesso la prova del fatto che esiste una parte importante della popolazione russa che disapprova la guerra, e la dimostrazione della situazione molto dura in cui si trova oggi in Russia chi è contrario a Vladimir Putin: chi può cerca di fuggire, lasciandosi spesso indietro amici e famiglie, mentre chi non ha le possibilità economiche deve restare, e affrontare rischi e preoccupazioni.
Dall’inizio della guerra, la Turchia è stata la principale destinazione per gli esuli russi. Si stima che circa un milione di persone abbia lasciato il paese, e che di queste alcune centinaia di migliaia siano transitate in Turchia, spesso per poi ripartire per altre destinazioni. A un certo punto i russi che arrivavano in Turchia erano decine di migliaia al giorno. Secondo il ministero dell’Interno turco, quelli che sono rimasti con un permesso di residenza temporaneo erano a settembre più di 132 mila. In buona parte si trovano a Istanbul.
I russi che si sono trasferiti in Turchia nell’ultimo anno e mezzo appartengono tendenzialmente a due classi sociali. Ci sono i super ricchi, gli oligarchi o comunque gli imprenditori che non hanno lasciato la Russia per sempre, ma che magari trascorrono ampie parti dell’anno nelle località marittime come Antalya, lussuosa località balneare affacciata sul Mediterraneo, dove hanno comprato grandi ville e magari preso la cittadinanza turca: queste persone usano la Turchia come piano B, come luogo in cui rifugiarsi e in cui trasferire i loro beni nel caso in cui le cose finissero male in Russia.
Poi ci sono i russi che si sono trasferiti a Istanbul, che erano in gran parte membri della borghesia cittadina russa: persone che in Russia avevano magari un buon lavoro e un buon tenore di vita, ma che per varie ragioni, un po’ per paura e un po’ per attivismo, hanno deciso di lasciare il paese.
Il caffè Grao si trova nel quartiere di Kadiköy, l’antica Calcedonia, nella parte asiatica di Istanbul, in una zona che da diversi anni è oggetto di un forte processo di gentrificazione, e adesso è piena di locali e turisti. È un caffè come se ne trovano tanti nella zona, con le poltrone vintage e gli “specialty coffee”, cioè i caffè fatti con chicchi provenienti da regioni particolari. La differenza è che praticamente tutti i clienti parlano russo.
Igor Kolchin, uno dei due fondatori di Grao, racconta di essere arrivato a Istanbul alla fine di marzo del 2022. Non si trovava in Russia quando è cominciata l’invasione, ma a quel punto ha pensato che non fosse più il caso di tornarci. «Un anno e mezzo fa ho capito che dovevo trovare altri posti che non fossero la Russia» a causa del peggioramento della situazione politica ed economica. «Penso che tutti i miei amici di San Pietroburgo si siano spostati a Istanbul, Tbilisi, negli Stati Uniti. Ormai ho solo un paio di amici ancora lì».
Kolchin dice più volte che la sua idea non era di aprire un locale che fosse un luogo di ritrovo per russi: «Cerchiamo di fare qualcosa di internazionale», dice, e poi poco dopo aggiunge: «Non volevo aprire un locale soltanto per russi». Di fatto, però, Grao è uno dei punti di riferimento per la comunità russa a Istanbul. Kolchin organizza anche lezioni gratuite di lingua turca due volte alla settimana, sia di livello base sia di livello più avanzato, per le persone che vogliono stabilirsi in Turchia e imparare la lingua. Alla lezione a cui ha assistito il Post, tutti gli studenti erano russi.
Gli studenti delle lezioni di lingua turca al caffè Grao sono tendenzialmente persone giovani, tra i 25 e i 35 anni, e spesso benestanti. Professionisti che avevano un buon lavoro in Russia, per esempio nel settore dell’informatica, e che si sono spostati a Istanbul in maniera relativamente agevole: una di loro racconta che una delle difficoltà maggiori è stata portare a Istanbul il gatto domestico, per problemi con le vaccinazioni e con i trasporti aerei di animali.
Quasi tutti gli studenti sentiti dal Post dicono di essersi trasferiti a Istanbul soprattutto per ragioni di lavoro, non per questioni politiche. Ma poi, una volta spento il registratore e conclusa l’intervista, aggiungono che ovviamente hanno lasciato la Russia per scappare dalla guerra, ma che non vogliono che rimanga traccia di questa cosa: un giorno vorrebbero tornare in Russia e chissà che governo ci sarà.
La diaspora dei russi verso l’estero è stata segnata da alcuni momenti di svolta legati alle decisioni del regime russo di Vladimir Putin. Una parte consistente delle persone ha lasciato il paese all’inizio dell’invasione, quindi tra la fine di febbraio e marzo del 2022, anche a causa di una legge approvata poco dopo l’inizio della guerra che prevede fino a 15 anni di carcere o multe altissime per chiunque diffonda «notizie false» sulla Russia, sulla guerra (che il regime chiama «operazione militare speciale») e sulle forze armate: basta un post sui social network.
Un’altra decisione che ha spinto migliaia di russi a lasciare il paese è arrivata nel settembre del 2022, quando Vladimir Putin ha annunciato la «mobilitazione parziale» di alcune centinaia di migliaia di riservisti che sarebbero stati costretti ad andare al fronte in Ucraina: dopo quell’annuncio, moltissimi giovani uomini hanno lasciato il paese, temendo che sarebbero stati chiamati anche loro a combattere.
«Sono arrivata in Turchia poco dopo l’inizio della guerra. In realtà siamo scappati», dice Sania Galimova. «Ho capito che tutta la mia famiglia era in pericolo. Vivevamo a Mosca e siamo in quattro: io, mio marito, mia figlia e il nostro cane. Avrebbero potuto prendere mio marito e mandarlo in Ucraina e sarebbe stato un disastro, non soltanto perché avrebbe rischiato di morire, ma soprattutto perché avrebbe potuto diventare un assassino, e questo sarebbe stato ancora peggio».
Sania Galimova è una delle due fondatrici della libreria Poltory komnaty, che si trova nel centro di Istanbul a due passi dal Museo dell’Innocenza, un museo fondato dallo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk e che contiene oggetti ispirati al suo libro omonimo. Poltory komnaty vende soltanto libri in russo, e tra le altre cose ha una sezione di libri per bambini molto curata. Per Galimova, aprire una libreria di libri in russo a Istanbul è una forma di attivismo: «Non sono un soldato e non sono una famosa star di Instagram», dice, aggiungendo che aprire una libreria è il suo modo per aiutare la comunità dei russi che sono scappati dal regime di Putin.
I libri arrivano dalla Russia, e continuano ad arrivare nonostante qualche difficoltà legata soprattutto ai ritardi delle spedizioni: «Il mio passaporto russo è ancora valido», dice Galimova, che quindi agli occhi dello stato russo è semplicemente un’imprenditrice all’estero. «Inoltre, il settore dell’editoria è ancora generalmente contro il regime».
A Istanbul le librerie fondate nell’ultimo anno e mezzo da esuli russi sono due: oltre a Poltory komnaty c’è Black Mustache, aperto da Oleg e Sasha Chernousov. I due vivevano a San Pietroburgo in un grande appartamento del centro in stile liberty, ma hanno deciso di lasciare la Russia all’inizio della guerra. La loro libreria è differente da quella di Galimova: è specializzata in libri d’arte e sono quasi tutti in inglese. Sasha è un’artista e Oleg cura i bookshop di alcuni musei di San Pietroburgo: è una relazione di lavoro che ha mantenuto anche dopo essere scappato dalla Russia.
«Era diventato pericoloso per noi. Oggi si può vivere in Russia ma bisogna rimanere completamente in silenzio, completamente in silenzio. Bisogna essere in completo accordo con il governo», dice Sasha. «Noi abbiamo capito che non eravamo pronti a stare zitti, e che o avremmo lasciato il paese o saremmo finiti in prigione nel giro di qualche mese».
I due dicono di essere perfettamente coscienti di far parte di una minoranza privilegiata: «Sono sicuro che ci sono moltissime persone in Russia che sono contrarie a tutto questo, ma che rischiano di essere arrestate e di andare in prigione. Nell’ultimo anno è successo a tantissime persone, artisti, giornalisti, politici. Non bisogna essere politicamente attivi per essere in pericolo», dice Oleg. Lasciare la Russia li ha anche lasciati isolati a livello personale. «I miei genitori credono nella propaganda [di stato] e ho perso i contatti con loro. Lo stesso vale per i miei colleghi di lavoro», dice Sasha. «Per loro siamo diventati tossici», interviene Oleg, «perché non possono più parlare apertamente».
Come la maggior parte delle persone russe sentite dal Post a Istanbul, anche Oleg e Sasha non hanno progetti di tornare in Russia, o meglio: tutti sperano di tornare, ma tutti sanno che non potranno farlo finché il regime di Putin rimarrà al potere.
«Non stiamo pensando al futuro», dice Sasha. Poi tocca la gamba di Oleg e dice: «Noi abbiamo questo. Abbiamo nostra figlia e abbiamo i nostri gatti. Noi abbiamo questo. La storia del nostro paese ci mostra che possiamo perdere tutto in un momento, senza ragione. Ma noi abbiamo questo».