Il peronismo, una religione politica
Storia di cosa fu e quando nacque il movimento sociale e politico di Juan ed Eva Perón, che continua ancora oggi a stare al centro della politica argentina
Evita Perón è ovunque, in Argentina: in un gigantesco murales sulla sede del ministero dello Sviluppo sociale, nel centro della capitale Buenos Aires, ma anche sugli striscioni appesi in un ex centro di detenzione e tortura dei tempi della dittatura, oltre che nella stessa politica nazionale, che spesso si divide in ciò che è “peronista” e ciò che non lo è. Eva Perón fu il simbolo più amato e lo “strumento” forse più potente del peronismo, quel movimento politico e sociale creato dal marito Juan Domingo Perón.
Il peronismo nacque nel contesto del governo militare del 1943, uscì vincitore e rinnovato dalle elezioni del 1946, divenne poi un regime e venne infine travolto dal conflitto con la Chiesa e con l’esercito nel 1955. Fu un movimento che cambiò la storia dell’Argentina e con il quale ogni persona da lì in poi fu in qualche modo obbligata a confrontarsi, non potendo sottrarsi alla scelta di abbracciarlo o prenderne le distanze.
Peronismo e populismo
Juan Domingo Perón è storicamente il leader che più viene associato alla parola populismo, che non è semplice da definire. Il populismo non è un’ideologia come la si intende di solito, ossia un sistema fornito di presupposti teorici e di un insieme definito di principi. È per questo che gli storici spesso ne parlano al plurale e che, pur indicando nei populismi alcune caratteristiche che li rendono riconoscibili, preferiscono analizzare i casi singoli nei quali si sono manifestati.
In generale, e semplificando, si può dire che i soggetti che fanno il populismo sono tre. C’è il popolo, naturalmente: è la parte considerata più “vera” e “autentica” e che nel populismo rappresenta l’entità sovrana e l’unica vera fonte del potere. Poi c’è il leader, carismatico e personalista, che si presenta come parte e “voce del popolo”, come colui che ne interpreta e ne incarna sentimenti, interessi, volontà, aspirazioni e sofferenze e che esercita un potere fondato sull’appoggio e sul rapporto diretto con il popolo stesso. Nel caso del peronismo il vero popolo era rappresentato dagli umili, i cosiddetti descamisados, i “senza camicia”, verso i quali il leader Juan Domingo Perón e la moglie Eva, familiarmente chiamata Evita dal “suo” popolo, mostrarono un amore tenero e appassionato, come quello di un padre e di una madre.
Il terzo necessario soggetto del populismo che si intromette nel legame di devozione quasi spirituale tra popolo e leader è chi vi si oppone, chi non ne fa parte. Che gioca allo stesso tempo un ruolo avverso e funzionale: se da una parte il populismo ha cioè bisogno di sostenitori, dall’altra ha bisogno di nemici, spesso identificati con le élite e le oligarchie che hanno escluso o vessato il popolo, o con le potenze straniere che lo vogliono assoggettare.
Il peronismo fu intriso di nazionalismo, di avversione per il pluralismo e per qualunque cosa che dall’interno o dall’esterno potesse mettere in pericolo l’unità e l’armonia della nazione. Organizzò le masse e i diversi ambiti sociali articolandoli in corporazioni, e avviò un processo di “sacralizzazione” della politica, fatto di simboli, liturgie e miti, come quello della purezza dell’argentinità. E fu profondamente religioso, una sorta di culto secolarizzato che fece leva, in un momento di grandi cambiamenti, sulla necessità di integrazione sociale delle masse fino a quel momento escluse e su un desiderio comune di appartenenza.
Prima del peronismo
Non è possibile capire il peronismo senza raccontare l’Argentina prima di Perón.
Tradizionalmente considerata come il “granaio del mondo”, negli anni Trenta l’Argentina era uscita prima e meglio di altri dalla grande crisi del ’29 e dalla Grande Depressione, la più grande crisi economica che si sia verificata nell’epoca moderna, avviando una rapida trasformazione della propria struttura produttiva. Cominciò a fare da sé quel che un tempo importava, ridusse le importazioni di quasi la metà smarcandosi dai mercati europei resi insicuri dalla guerra, e aumentò la produzione industriale del doppio rispetto a quella agricola.
Le industrie si concentrarono rapidamente nella capitale e in poche altre città. Accanto alla moltitudine di quelle piccole nate per soddisfare la domanda interna, c’erano quelle più grandi e potenti che rimasero orientate all’esportazione e che erano perlopiù di proprietà straniera. Il capitale straniero, e in particolare quello inglese, controllava anche le infrastrutture nazionali: le ferrovie, i telefoni, i trasporti pubblici, la rete elettrica. E poiché era legato all’élite argentina, esercitava anche una forte influenza sulla vita economica e politica.
Il rapido processo di industrializzazione trasformò in modo dirompente e quasi incontrollato le città, le periferie, i modi di vita, i consumi, le aspettative e la società tutta, ancora fresca della gigante ondata migratoria degli anni precedenti. L’industrializzazione portò nella capitale e nelle altre poche grandi città nuove masse di persone migranti, che stavolta provenivano dalle province e della campagne interne, e che cominciarono a formare, accanto alla vecchia aristocrazia operaia, una nuova e informe massa di lavoratori priva di organizzazione e di radici ideologiche.
Il 1930 era iniziato con il colpo di stato del generale José Félix Uriburu contro il presidente Hipólito Yrigoyen che aprì un’era che più tardi sarà definita come la “década infame”, segnata da corruzione, brogli elettorali e una profonda incapacità di rappresentare quella realtà sociale in rapida trasformazione. In questo clima crebbe una fortissima sfiducia e avversione verso la democrazia liberale e il liberalismo, considerati inadatti ad affrontare un mondo che era cambiato, un capitalismo percepito come sempre più individualista in cui stavano penetrando i conflitti di classe e le idee rivoluzionarie.
Il liberalismo, ha scritto qualche tempo fa in un libro intitolato Peronismo lo storico dell’America Latina all’università di Bologna Loris Zanatta, «pareva l’anticamera della rivoluzione sociale: per taluni perché attraverso le porte che spalancava alle moderne libertà penetrava l’infezione sovversiva; per altri, perché sancendo l’autonomia dell’uomo da Dio minava le basi dell’ordine sociale tradizionale (…); per altri ancora perché elevando a sacro dogma la proprietà privata e le leggi del libero mercato mercificava i rapporti sociali e poneva le basi del conflitto di classe».
Contro la democrazia liberale da una parte e lo statalismo comunista dall’altra, in Argentina cominciò dunque a radicarsi l’idea di una terza via: quella di una nazione organica e armoniosa nel funzionamento tra le sue parti, identitaria e unita nella sua “argentinità”. I maggiori interpreti di questo diffuso sentimento nazionalista furono l’esercito e la Chiesa che dagli anni Trenta in poi si rafforzò sul piano sociale, politico, istituzionale e intellettuale.
Il 4 giugno del 1943 le forze armate guidate da una loggia segreta nazionalista chiamata GOU, acronimo che si ritiene stesse per Grupo de Oficiales Unidos, presero il potere e proclamarono la Revolución. Come spiega Zanatta, le prime dichiarazioni dei militari che fecero il golpe ne mostrarono chiaramente la prospettiva: contenevano invocazioni a Dio, Patria, argentinità e nazione cattolica. E contenevano il disprezzo per i partiti, per il pluralismo, il liberalismo e per le ideologie straniere. A Dio e alla Patria, Juan Domingo Perón, che aveva preso parte al golpe militare e che faceva parte del GOU, unì la parola Popolo.
Croce, Spada e Popolo
Il peronismo viene fatto iniziare con il golpe militare del 1943, o poco dopo, poiché Perón cominciò a esercitare la propria influenza ben prima di essere eletto presidente, nel 1946.
Juan Domingo Perón era nato nel 1895 a Lobos, città della provincia di Buenos Aires, era entrato nell’esercito da adolescente, aveva fatto il professore di storia militare alla Escuela Superior de Guerra, dal 1936 al 1938 aveva lavorato all’ambasciata argentina in Cile e per due anni, a partire dal 1939, aveva prestato servizio in Italia. Lì conobbe il fascismo, rimase affascinato dal grado di organizzazione delle masse, dalla liturgia politica, dalle piazze e dal ruolo assegnato da Mussolini ai sindacati all’interno dell’apparato statale.
Dopo il successo del golpe, Perón finì al ministero della Guerra, ottenendo il controllo dell’esercito e riuscendo nel tempo a far prevalere sulle altre la propria corrente interna, meno oltranzista e più disposta a compromessi. E poi prese il comando della Secretaría de Trabajo y Previsión (che in sostanza era l’allora ministero del Lavoro) con la quale riuscì a dare alla Revolución una svolta sociale.
A questo punto Perón decise di assorbire il movimento sindacale epurandolo dalle influenze marxiste e da ogni velleità di organizzazione autonoma: per Perón il posto del sindacato era dentro lo stato. Prese questa misura per diverse ragioni: per evitare una rivoluzione, per dare al regime una base sociale di massa attraverso cui consolidarsi, per impedire il ritorno dei partiti tradizionali e per riequilibrare il rapporto tra le classi in nome di una nazione unita e organica.
Soprattutto, Perón attuò una legislazione sociale a favore di quella nuova e vasta massa operaia che in anni di lotte aveva ottenuto ben poco: introdusse il salario familiare per dipendenti pubblici, contratti collettivi, aumenti salariali, pensioni, assicurazioni per gli infortuni, malattia, maternità, ferie retribuite, colonie estive, edilizia popolare e tribunali del lavoro.
Perón aveva guadagnato una grande influenza nel governo nato dal golpe. Nel corso del 1944 si liberò delle correnti più conservatrici, costruì alleanze con gli industriali, rafforzò i propri legami con i sindacati e con l’esercito epurato dalle correnti nemiche. Strinse rapporti solidi anche con la Chiesa, che vide in lui una specie di “uomo della Provvidenza” in grado di restaurare l’ordine cristiano. Ma fu soprattutto il popolo, che Perón aveva sostenuto con le sue riforme, a mobilitarsi e a rappresentare la solida base del suo successo.
Nell’ottobre del 1945, di fronte alle forti proteste e alle pressioni esterne per ristabilire nel paese un ordine democratico, Perón fu costretto a dimettersi e mandato al confino. Una enorme massa di manifestanti si mosse per lui: la mattina del 17 ottobre 1945 i manifestanti arrivarono a Buenos Aires e occuparono Plaza de Mayo, la piazza principale della capitale, invocando la liberazione del loro leader. La ottennero e Perón poté dunque presentarsi alle elezioni dell’anno successivo, vincendole.
Il 4 giugno 1946 Perón entrò ufficialmente in carica. Nonostante fosse arrivato al potere tramite elezioni e giurando fedeltà a una Costituzione che lo impegnava a rispettare la separazione dei poteri, i diritti individuali, la libertà di stampa e d’opinione e il pluralismo, agì sentendosi investito di una legittimità quasi sacra che andava, e che di fatto andò, ben oltre i limiti di quella Costituzione.
Mentre concentrava il potere su di sé e svuotava le istituzioni rappresentative, rese possibile una vivace mobilità sociale dei ceti medi e popolari attraverso la riforma del sistema scolastico, che finanziò copiosamente. Al monopolio sindacale su cui poteva esercitare un ampio controllo contrappose l’aumento dei salari, del potere di acquisto e la nazionalizzazione delle imprese dei servizi realizzando una sintesi fra industria pubblica e lavoratori. Mentre epurava le università e i media e assorbiva nella propria orbita il potere giudiziario, migliorò la situazione degli ospedali, avviò efficaci campagne di prevenzione, investì nella rete fognaria facendo diminuire l’indice di mortalità infantile, investì nell’edilizia popolare e sviluppò il sistema pensionistico.
Perón costruì infine una solida macchina di marginalizzazione delle opposizioni e riorganizzò in modo funzionale la società su basi corporative di cui le forze armate, la Chiesa e il sindacato erano le principali. Lavorò affinché tali corporazioni mettessero a disposizione del peronismo la loro influenza e Eva Perón contribuì in modo determinante a questo orientamento.
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Nel 1949 Perón, osannato dal popolo e riverito dalle corporazioni più potenti, volle riformare la Costituzione inserendo accanto alla possibilità di rielezione illimitata del presidente anche i nuovi diritti sociali dei lavoratori, degli anziani, dei minori e delle famiglie. Il peronismo, spiega Zanatta, «si costituzionalizzò», trasformandosi a quel punto in un regime.
Nel 1951 Perón vinse nuovamente le elezioni, ma il peggioramento delle condizioni economiche, la peronizzazione sempre più spinta che avviò in ogni ambito dell’organizzazione dello stato e della società, uno sfrenato culto della personalità e la pulsione di fondere stato, nazione e partito a scapito delle corporazioni portarono alla rottura dell’armonia e degli equilibri di quell’organismo-nazione che aveva messo in piedi negli anni precedenti.
Lentamente cominciarono a diffondersi insofferenza e dissenso all’interno delle forze armate, del sindacato e soprattutto della Chiesa, che negli ultimi anni della sua presidenza Perón attaccò in modo frontale denunciandone le attività antiperoniste. «Il tentativo di trasformarsi da veicolo di una politica religiosa in regime fondatore di una religione politica costò al peronismo la crisi che segnò la fine del suo regime», scrive Zanatta.
Il 19 settembre del 1955 alcuni settori delle forze armate organizzarono il colpo di stato che portò alla destituzione di Perón, sostenute da alcuni partiti di opposizione e da una parte della Chiesa. Furono dunque le corporazioni su cui si era retto Perón a decretarne la fine, ma da lì in poi né Perón né il peronismo scomparvero, continuando anzi ad occupare il centro della politica argentina.
Oggi il presidente argentino, Alberto Fernández, è considerato un peronista moderato, così come il raggruppamento di forze politiche che guida, Unión por la Patria, di centrosinistra. Ma non solo: c’è anche il peronismo più vicino al centrodestra, come quello dell’attuale governatore di Cordoba, Juan Schiaretti, che alle primarie di agosto aveva superato la soglia dell’1,5 per cento dei voti prevista per potersi presentare alle elezioni presidenziali che si terranno il 22 ottobre.