L’ostruzionismo dell’Egitto sul caso di Giulio Regeni va avanti da anni
Con tentativi di depistaggio, bugie, falsi documentari e tattiche burocratiche per ostacolare le indagini e rallentare il processo
Una nuova sentenza della Corte Costituzionale permetterà di riprendere il processo sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016. Il processo ha come imputati quattro agenti dei servizi segreti egiziani, tutti accusati di omicidio e altri reati, ma era bloccato per via dell’impossibilità di reperire gli imputati e notificare loro gli atti processuali, un prerequisito fondamentale secondo la legge italiana. La ragione principale per cui i quattro agenti erano irreperibili è l’ostruzionismo dell’Egitto, che non ha mai fornito all’Italia le informazioni necessarie a rintracciarli.
Sono anni che le autorità egiziane cercano in tutti i modi di rallentare e fuorviare le indagini sull’omicidio di Regeni: ora stanno cercando di impedire che si celebri il processo, o quanto meno di rallentarlo. Questi tentativi di occultamento e depistaggio sono stati negli anni di vario tipo: dalla pubblicazione di informazioni e documenti falsi alle banali tattiche processuali per allungare i tempi di un procedimento giudiziario. È anzi molto probabile che, ora che la Corte Costituzionale italiana ha sbloccato il processo, l’Egitto proverà qualche altra tattica.
Regeni, dottorando dell’università di Cambridge, fu ucciso tra fine gennaio e inizio febbraio del 2016 al Cairo, dove si trovava per fare alcune ricerche sui sindacati di base. L’Egitto è un paese non democratico, dove il generale Abdel Fattah al Sisi governa in maniera autoritaria e dove tutte le attività associative che non sono sotto il controllo dello stato sono sorvegliate e viste con sospetto, compresa quella dei sindacati.
Il 25 gennaio di quell’anno Regeni fu sequestrato, e da allora è sempre stato estremamente complicato sapere cosa gli successe. Il suo corpo fu trovato una settimana dopo in una strada alla periferia della capitale egiziana, pieno di abrasioni e contusioni e con varie fratture, anche a tutte le dita delle mani e dei piedi. Aveva inoltre molti segni di bruciature di sigarette e di coltellate, anche sotto la pianta dei piedi: erano tutti segni piuttosto chiari di tortura.
Fin dall’inizio fu avanzata l’ipotesi che Regeni fosse stato ucciso per motivi politici, con il possibile coinvolgimento del regime di Abdel Fattah al Sisi o di qualche suo apparato di sicurezza. È probabile che il lavoro di Regeni su sindacati e diritti dei lavoratori fosse visto con sospetto. Per via delle sue ricerche Regeni aveva molti contatti con i sindacati egiziani e con attivisti anti governativi, e aveva scritto sotto pseudonimo alcuni articoli sulla situazione sociale dell’Egitto, parlando di diritti dei lavoratori e delle limitazioni imposte dal regime. Regeni poi si occupava in particolare di sindacati dei venditori ambulanti, una categoria di cui al Sisi cercava da tempo di limitare la presenza, e in cui aveva infiltrato anche alcuni informatori per captare possibili progetti rivoluzionari.
Nelle ore precedenti al sequestro di Regeni, la polizia egiziana aveva infine compiuto migliaia di perquisizioni per bloccare iniziative e proteste contro il regime. Insomma, è possibile che i servizi egiziani si fossero convinti – a torto – che Regeni fosse una spia, o che la sua attività di ricerca con i sindacati potesse essere pericolosa e destabilizzante per il regime.
Le autorità egiziane fecero di tutto per sostenere che la morte di Regeni non avesse ragioni politiche e che non fosse in alcun modo collegata ai servizi egiziani. Parlarono di un incidente stradale, di un omicidio avvenuto nel corso di una relazione omosessuale, poi di un regolamento di conti tra trafficanti di droga, e infine di una banda specializzata nel rapinare gli stranieri che utilizzava uniformi della polizia. Per sostenere queste tesi le autorità egiziane dissero fin da subito una serie di falsità e misero in atto operazioni di depistaggio anche piuttosto elaborate, che però furono regolarmente smentite dai successivi sviluppi delle indagini.
Khaled Shalaby, che nel 2016 era il direttore generale della polizia investigativa di Giza (a cui sono state affidate le indagini), disse che Regeni era morto in un incidente stradale e che sul suo corpo non erano state trovate ferite da arma da taglio: le sue affermazioni sono state però smentite dai risultati dell’autopsia sul corpo di Regeni eseguita in Italia.
Due mesi dopo l’omicidio di Regeni avvenne uno dei tentativi di depistaggio più clamorosi: l’Egitto annunciò di aver risolto il caso e che i colpevoli erano quattro membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». I sequestratori erano stati tutti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia, quindi non poterono fornire la loro versione. Sul luogo venne trovata anche una borsa con dentro oggetti di proprietà di Regeni.
Quella versione fu smentita quasi subito: testimoni sul posto riferirono che non c’era stata nessuna sparatoria, ma che i quattro uomini erano stati uccisi dalle forze di sicurezza e i loro cadaveri erano stati sistemati sul posto per far credere alla tesi della sparatoria. Dai tabulati telefonici risultò poi che uno dei quattro uomini si trovasse a 100 chilometri dal Cairo nei giorni della scomparsa di Regeni. L’episodio rese inoltre molto evidente come le autorità egiziane fossero con tutta probabilità in possesso del suo cellulare, contrariamente a quanto avevano affermato in precedenza.
In quelle settimane del 2016, inoltre, i ministeri degli Esteri e dell’Interno egiziani si resero irreperibili per i colloqui richiesti dall’ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, e altre autorità come il ministero della Giustizia non risposero a lettere inviate dai loro equivalenti italiani. In un’altra occasione, sempre nel 2016, l’Egitto inviò al governo italiano un enorme faldone da 2mila pagine e le testimonianze di centinaia di persone, probabilmente con l’obiettivo di rallentare le indagini obbligando gli inquirenti a passare in rassegna un’enorme quantità di documenti privi di informazioni rilevanti. Altre volte le autorità egiziane si rifiutarono di fornire a quelle italiane dati telefonici necessari a procedere con le indagini citando questioni di privacy.
In risposta all’omicidio e ai depistaggi compiuti dalle autorità egiziane, ad aprile del 2016 il governo di Matteo Renzi decise di ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto. Mesi dopo, a settembre del 2016, la polizia egiziana ammise per la prima volta che in passato aveva indagato su Regeni, anche se sostenne di aver interrotto le indagini perché non lo aveva ritenuto pericoloso. Nell’agosto 2017, dopo circa un anno di assenza e in seguito a una maggiore collaborazione da parte della procura di Giza, il governo di Paolo Gentiloni nominò un nuovo ambasciatore in Egitto.
La volontà dell’Egitto di non collaborare alle indagini per l’omicidio di Regeni – e anzi, di ostacolarle – divenne ancora più esplicita nel 2020: in quell’anno la procura di Roma chiuse l’inchiesta sul caso e chiese di rinviare a giudizio cinque agenti della National Security, il servizio segreto civile egiziano, con l’accusa di aver rapito, torturato e ucciso Regeni. L’Egitto annunciò che il processo si sarebbe svolto senza la collaborazione dei magistrati egiziani, che avevano invece deciso di portare avanti un processo autonomo non contro i rapitori e gli assassini di Regeni, che giudicava «ignoti», ma nei confronti di chi rubò i suoi effetti personali.
In altre parole, la procura del Cairo decise di impostare il processo sull’omicidio di Regeni su un’accusa per furto, e non per omicidio, contro una presunta banda di truffatori, con una ricostruzione dei fatti che la procura di Roma definì «priva di ogni attendibilità».
L’Egitto disse anche che non avrebbe risposto alla rogatoria inviata più di un anno prima dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, con cui l’Italia chiedeva informazioni per verificare le dichiarazioni di due testimoni che avrebbero raccontato di aver visto Regeni mentre veniva rapito da agenti della National Security, condotto in una caserma e poi trasferito in un’altra. Fu in quell’occasione che l’Egitto disse che non avrebbe fornito gli indirizzi dei membri dei servizi segreti egiziani indagati dalla procura di Roma, rendendoli irreperibili e bloccando quindi l’avanzamento del processo. La procura del Cairo motivò le proprie decisioni esprimendo «riserve sulla solidità del quadro probatorio», e dicendo che non c’erano «prove sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio».
Ci fu poi il caso del finto documentario su Regeni, nel 2021: un lungo video apparso su YouTube, con autori ignoti e senza indicazioni sui produttori, che screditava Regeni con una serie di insinuazioni, invenzioni propagandistiche e teorie del complotto già allora in buona parte smentite dalle indagini. Il documentario era in arabo con due versioni di sottotitoli, una in italiano e una in inglese, e si intitolava The Story of Regeni (ora è stato rimosso): consisteva in una serie di interviste, sia a persone egiziane che italiane, tra cui l’ex ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri e l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta. C’erano inoltre attori per drammatizzare alcune scene.
Quasi tutti gli intervistati italiani si dissociarono dal contenuto e sostennero in seguito di essere stati raggirati. Per gran parte del video le attività di ricerca di Regeni venivano raccontate e presentate come molto sospette e potenzialmente pericolose per la stabilità del regime, spesso con letture forzate di azioni e comportamenti che non avevano nulla di sospetto, e liquidando sbrigativamente qualsiasi ipotesi di coinvolgimento delle autorità egiziane. Tra le persone intervistate, e sui cui racconti si basavano le tesi del video, c’erano Mohamed Abdallah, il sindacalista che denunciò Regeni alle autorità egiziane, e Fulvio Grimaldi, un ex giornalista della Rai e oggi collaboratore di siti complottisti.
Nel maggio del 2021 per l’uccisione di Regeni la procura di Roma rinviò a giudizio quattro ufficiali dei servizi egiziani, il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e il maggiore Magdi Sharif. I reati contestati sono sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali gravissime e omicidio. Da allora l’Egitto ha continuato a rifiutarsi di fornire alle autorità italiane le informazioni necessarie a rintracciare gli imputati, bloccando il processo.
La sentenza di mercoledì della Corte Costituzionale riguarda proprio questo punto: ha introdotto una deroga eccezionale al principio per cui si può celebrare il processo in assenza dell’imputato solo se si ha prova della piena consapevolezza della citazione a giudizio, permettendo così di riprendere il processo nonostante l’ostruzionismo dell’Egitto.