Perché scrivere molte volte una parola può renderla strana
Il “jamais vu” è l'opposto del déjà vu: l’impressione di vivere per la prima volta una situazione che è allo stesso tempo molto familiare
Il déjà vu, che in francese significa “già visto” e descrive la sensazione ingannevole di aver già vissuto un’esperienza in realtà mai vissuta prima, è uno dei fenomeni più studiati nelle moderne scienze cognitive, tra quelli già descritti oltre un secolo fa da autori famosi e influenti come il filosofo francese Henri Bergson e il neurologo austriaco e fondatore della psicanalisi Sigmund Freud. In tempi recenti alcuni dei ricercatori che da diversi anni analizzano e riproducono in laboratorio l’esperienza del déjà vu hanno ampliato le conoscenze su un fenomeno opposto, in un certo senso, oltre che più raro e meno studiato: il jamais vu (in francese, “mai visto”).
Se il déjà vu è definito come un’impressione illusoria di familiarità di un’esperienza presente in rapporto a un passato indefinito, il jamais vu è un’impressione illusoria di estraniazione di un’esperienza presente rispetto a un passato in cui quell’esperienza si è già certamente verificata altre volte. Il jamais vu, in altre parole, si verifica quando una qualsiasi situazione che dovrebbe essere estremamente familiare non viene riconosciuta come tale dall’osservatore. Implica spesso un senso di disagio e inquietudine, perché l’impressione di trovarsi in una certa situazione per la prima volta coesiste con la consapevolezza che non sia la prima volta.
Un’esperienza di jamais vu nella vita quotidiana, spesso riportata dalle persone coinvolte negli studi su questo fenomeno, è scrivere a mano più volte una stessa parola, correttamente, al punto da soffermarsi poi su quella parola con l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato o di anomalo nel modo in cui è scritta. Un’altra è ripetere a voce una parola più e più volte, e avere a un certo punto l’impressione che quella parola sia un suono privo di significato.
Situazioni di questo tipo furono ricreate in laboratorio da un gruppo di psicologi e neuroscienziati dell’Università di Grenoble in Francia, di Helsinki in Finlandia e di St. Andrews in Scozia per un esperimento sull’«alienazione delle parole e la sazietà semantica», condotto su 94 studenti di psicologia della University of Leeds. I risultati furono pubblicati nel 2020 in una ricerca recentemente premiata con l’Ig Nobel, i premi attribuiti ogni anno alle ricerche più bizzarre e insolite.
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Il primo esperimento della ricerca prevedeva che i partecipanti trascorressero del tempo scrivendo ripetutamente una stessa parola. Come possibile stimolo del jamais vu furono scelte dodici parole, alcune molto comuni come door, money e room, e altre meno come ting (“tintinnio”) e ague (“febbre malarica”). I ricercatori chiesero a ciascun partecipante di scrivere a mano una parola più volte il più velocemente possibile, e strutturarono l’esperimento in modo che i partecipanti potessero smettere di scrivere nel momento in cui fossero sopraggiunti o male alla mano, o noia o un senso di estraniazione.
Il senso di estraniazione fu la ragione più frequente per cui i partecipanti, circa il 70 per cento, decidevano di smettere di scrivere. E si verificava di solito per parole familiari e dopo circa un minuto, cioè dopo aver scritto la stessa parola mediamente 33 volte. La stessa sensazione fu riportata dal 55 per cento dei partecipanti ma in un tempo ancora più breve – in media dopo aver scritto la stessa parola 27 volte – anche in un secondo esperimento, per cui fu utilizzata come parola soltanto l’articolo the, scelta dai ricercatori in quanto una tra le più comuni in assoluto nella lingua inglese.
I ricercatori trovarono le descrizioni dei partecipanti riguardo all’esperienza da loro provata pienamente compatibili con la caratteristiche del jamais vu: la non familiarità e la dissociazione delle parole dal loro significato. Alcuni dissero che più osservavano le parole, più le parole sembravano strane e prive di significato. «Sembrano soltanto serie di lettere invece che parole intere», disse uno dei partecipanti. «Sembra quasi che non sia nemmeno una parola, ma che qualcuno mi abbia ingannato facendomi credere che lo sia», disse un altro. La maggior parte di loro disse inoltre di aver provato un’esperienza del genere altre volte in passato, in contesti quotidiani e non sperimentali.
Come hanno scritto su The Conversation due coautori della ricerca, il neuropsicologo inglese Chris Moulin e il neuroscienziato cognitivo inglese Akira O’Connor, il metodo da loro seguito – chiedere di scrivere ripetutamente una parola – non è una novità nella ricerca scientifica nel campo della psicologia. Nel 1907 la psicologa statunitense Margaret Floy Washburn, una delle più influenti del XX secolo, pubblicò i risultati di un esperimento simile condotto sui suoi studenti, da cui emerse una «perdita del potere associativo» delle parole quando gli studenti fissavano le parole per tre minuti.
Sul piano teorico il jamais vu condivide inoltre alcune caratteristiche con un concetto reso noto nel 1919 da Freud, il «perturbante» (Unheimliche), poi diventato una delle più importanti categorie filosofiche ed estetiche del Novecento. Freud definì perturbante il sentimento che si prova quando qualcosa di massimamente familiare diventa nella percezione soggettiva il contrario di sé: qualcosa che turba, familiare e allo stesso tempo per niente familiare. E l’effetto perturbante, scrisse Freud, può scaturire in particolare dalle situazioni in cui uno stesso fatto, gesto o fenomeno si ripete identico a sé stesso.
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Secondo Moulin e O’Connor il jamais vu è un fenomeno che richiede maggiori studi e approfondimenti, ma la loro ipotesi è che sia una particolare impressione che può presentarsi quando la ripetizione porta in generale a una trasformazione e a una perdita di significato delle parole e delle esperienze. O’Connor ha citato un altro esempio, un caso di jamais vu capitato a lui direttamente: stava guidando in autostrada, quando a un certo punto provò un senso di estraniazione e sentì il bisogno di fermarsi sulla corsia di emergenza per «resettare» l’elaborazione delle informazioni e ritrovare familiarità con i pedali e il volante.
Il jamais vu potrebbe essere, secondo Moulin e O’Connor, un sorta di segnale cognitivo che qualcosa è diventato «troppo automatico, troppo fluido, troppo ripetitivo». E potrebbe essere un modo per interrompere una sensazione di irrealtà emergente e recuperare il controllo sulle cose, in modo da dirigere l’attenzione dove è necessario e non rischiare di perderla durante l’esecuzione di compiti ripetitivi per un lungo periodo di tempo.
La ricerca sul jamais vu potrebbe inoltre espandere le conoscenze su altri fenomeni che hanno caratteristiche simili. La perdita di significato dovuta alla ripetizione continua di una stessa parola è associata, per esempio, all’effetto della trasformazione verbale nella percezione dei suoni delle parole. Si verifica quando sentire ripetere una stessa parola più volte porta l’ascoltatore o l’ascoltatrice a distorcere la percezione del suono, dopo un certo numero di ripetizioni, fino a renderlo compatibile con parole diverse da quella iniziale e quindi con altri significati.
Capire perché scrivere una parola ripetutamente genera un senso di estraniazione e fa sì che la realtà cominci a sfuggire, secondo Moulin e O’Connor, potrebbe anche servire a spiegare alcuni comportamenti studiati in relazione al disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), tra cui la tendenza a controllare di continuo e fissare a lungo gli oggetti che possono generare incertezza, come i fornelli del gas o le porte. Controllare più volte che la porta sia chiusa – come scrivere ripetutamente una parola, appunto – potrebbe rendere quel compito privo di significato e quindi inefficace, rendendo difficile o impossibile sapere se la porta sia chiusa oppure no, in un circolo vizioso.