Un piano di evacuazione dei Campi Flegrei c’è, ma andrebbe aggiornato
Lo chiedono sindaci e alcuni vulcanologi preoccupati per un eventuale terremoto particolarmente intenso o di un'eruzione
Nella notte tra martedì e mercoledì migliaia di persone che abitano nella zona dei Campi Flegrei sono state svegliate da un terremoto di magnitudo 4.2, il più forte registrato negli ultimi 39 anni. Parliamo dell’area vulcanica che comprende il quartiere napoletano di Bagnoli e i comuni di Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Quarto e Giugliano. La scossa ha creato un certo allarme, ma da una prima ricognizione sembra che non ci siano stati feriti o danni alle abitazioni. Negli ultimi giorni ci sono state molte altre scosse avvertite dalla popolazione: anche se gli abitanti sono abituati a convivere con questo fenomeno, l’aumento della frequenza e dell’intensità dei terremoti segnalato dall’inizio dell’anno sta alimentando i timori di una possibile eruzione.
Da tempo i sindaci dei comuni intorno ai Campi Flegrei sollecitano un aggiornamento del piano di evacuazione, che risale al 2019. La scorsa settimana anche il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, si è unito alla richiesta dopo i dubbi sulle attuali misure di sicurezza espressi da alcuni esperti dell’INGV, l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
I terremoti nella zona dei Campi Flegrei sono causati da un fenomeno chiamato bradisismo, che consiste nel sollevamento del suolo dovuto a gas e fluidi molto caldi. Negli ultimi decenni sono stati fatti diversi studi per spiegare le ragioni del sollevamento e ci sono varie teorie: secondo quella principale, il magma che si trova in profondità rilascia grandi quantità di vapore acqueo, riscaldando le rocce che dividono lo stesso magma dal suolo e causando deformazioni nel terreno, scosse e un’attività più intensa delle fumarole (piccoli crateri nel terreno da cui fuoriescono vapore e gas vulcanici).
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Tra il 1982 e il 1984 ci fu una fase di intenso sollevamento, il suolo si sollevò di circa 3 metri con una serie di scosse di terremoto intense. Dopo un periodo di relativa tranquillità, nel 2005 venne segnalato l’inizio di una nuova fase di sollevamento che negli ultimi anni è stato costante fino all’inizio dell’anno. Negli ultimi mesi, secondo i dati dell’osservatorio vesuviano dell’INGV, il sollevamento è stato di 15 millimetri al mese e gli strumenti hanno rilevato oltre 1.500 scosse.
A metà settembre i sindaci di Pozzuoli, Bacoli, Quarto, Monte di Procida e il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi hanno incontrato il ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci, per chiedere un nuovo piano di emergenza. Vorrebbero che fossero aggiornate le vie di fuga e che fossero controllate puntualmente la tenuta degli edifici e lo stato di manutenzione della rete stradale. L’obiettivo è aggiornare l’attuale piano del 2019 e integrare il lavoro commissionato dalla Regione Campania, che in aprile aveva approvato uno studio sul piano di «allontanamento» che identifica i «flussi» di persone e auto in caso di emergenza grave.
Il piano attuale è davvero complesso. L’area dei Campi Flegrei è divisa in due zone: la zona rossa, dove abitano circa 500mila persone, comprende Bacoli, Pozzuoli, Monte di Procida e Quarto, parte di Giugliano e Marano e alcune aree di Napoli come Bagnoli, Fuorigrotta, Pianura, Soccavo, Posillipo e parte di Vomero, Chiaiano, Arenella e San Ferdinando. È la più esposta al rischio di colate piroclastiche, formate cioè da rocce e ceneri. La zona gialla, l’area esterna alla zona rossa dove potrebbero cadere ceneri vulcaniche, è abitata da circa 800mila persone e comprende i comuni di Villaricca, Calvizzano, Marano di Napoli, Mugnano di Napoli, Melito di Napoli e Casavatore, oltre a 24 quartieri di Napoli.
L’allontanamento della popolazione dalla zona rossa inizia con una fase di allarme dichiarata sulla base dei dati dell’INGV e della valutazione della commissione grandi rischi, di cui fanno parte molti esperti dell’osservatorio vesuviano. Chi decide di spostarsi in auto deve seguire i percorsi stabiliti dai piani per evitare ingorghi. Le persone che scelgono il trasferimento in nave, treno o pullman devono raggiungere aree di attesa stabilite dalla Protezione civile di ogni comune. Da lì verrebbero poi trasferite in altre aree, fuori dalla zona rossa, per raggiungere altre regioni.
La Protezione civile stima che il tempo complessivo per portare a termine l’evacuazione è di 72 ore: le prime 12 per permettere alle persone di prepararsi, le successive 48 per la partenza da tutti i comuni della zona rossa. La partenza è la fase più delicata per via del rischio di ingorghi che potrebbero rallentare le operazioni e diffondere panico.
Le scelte contenute nel piano sono state fatte sulla base di uno studio probabilistico che ha considerato gli ultimi 5.000 anni di attività dei Campi Flegrei. In caso di attivazione del vulcano, dice lo studio, si avrebbe circa il 95 per cento di probabilità che si verifichi un’eruzione minore o uguale a quella definita di taglia media. Significa che ci sarebbe una colonna eruttiva composta di gas e brandelli di lava incandescenti alta fino a decine di chilometri, che cadrebbe materiale vulcanico di grosse dimensioni lungo la direzione del vento, e scorrerebbero colate piroclastiche per alcuni chilometri.
Giuseppe Mastrolorenzo, primo ricercatore dell’INGV, da diversi anni sostiene che il piano di emergenza non sia adeguato proprio perché basato su uno scenario probabilistico. «È grave che si dia per scontato che si riuscirà a prevedere l’eruzione addirittura con 72 ore di anticipo, un’ipotesi molto ottimistica, quasi come se avessimo firmato un contratto con il vulcano», ha detto al Corriere del Mezzogiorno.
Secondo Mastrolorenzo bisogna abbandonare l’approccio probabilistico e adottarne uno più realistico e pragmatico, con un piano che preveda l’allontanamento della popolazione anche a fase eruttiva già iniziata: «Dobbiamo essere in grado di salvare la popolazione anche in caso di eruzione, attraverso vie di fuga radiali e non tangenziali, ma questo tipo di scenario non è contemplato dagli attuali piani. Insomma, anche se l’eruzione ci coglie di sorpresa dovremmo poter sapere cosa fare e come aiutare la gente, ma tutto questo oggi semplicemente non è stato previsto».
Il 18 settembre Giuseppe De Natale, dirigente di ricerca dell’INGV e già direttore dell’osservatorio vesuviano, ha inviato una mail di posta certificata alla prefettura di Napoli per avvertire le autorità delle conseguenze del bradisismo in corso. Nella mail De Natale ha spiegato che l’attuale fase di sollevamento avrebbe potuto causare scosse pari a quelle registrate negli anni Ottanta, cosa che è effettivamente avvenuta la scorsa notte. Per questo il vulcanologo ha sollecitato l’avvio di un piano di verifica della stabilità degli edifici e l’evacuazione preventiva delle case nell’area di Agnano-Solfatara, la più colpita dai terremoti negli ultimi mesi. «È l’accorgimento minimo più immediato», ha scritto.
L’apprensione dei tecnici in merito al piano di evacuazione è motivata anche dall’esperienza. Il 7 ottobre del 2015, in seguito a una scossa di magnitudo 2.5, migliaia di persone in auto intasarono la zona di collegamento tra Pozzuoli, Bagnoli e Agnano. Fu uno degli episodi che convinsero la Protezione civile a rivedere i piani di emergenza. Un altro rischio che i sindaci dicono di non sottovalutare riguarda la manutenzione delle vie di fuga indicate nel piano di allontanamento: in molti casi sulle strade ci sono cantieri, alcune sono del tutto chiuse o solo parzialmente, con deviazioni che rischiano di rallentare l’evacuazione.
È complicato capire cosa succederebbe in caso di emergenza anche perché all’ultima esercitazione organizzata nell’ottobre del 2019 parteciparono meno persone del previsto. Al punto di raccolta di Pozzuoli per il trasferimento alla stazione di Napoli si presentarono poche decine di persone e furono sufficienti soltanto due autobus.
Finora esperti e ricercatori hanno comunque invitato la popolazione e i sindaci alla calma, poiché grazie alle rilevazioni continue fatte sull’area dei Campi Flegrei non c’è ragione di pensare che ci sarà un’eruzione. Antonio Di Vito, direttore dell’osservatorio vesuviano, ha spiegato che la scossa registrata nella notte tra martedì e mercoledì è il segnale di una «lieve accelerazione» del sollevamento dovuto al bradisismo. Al momento insomma non ci sono elementi che suggeriscano un cambiamento della situazione a breve termine, «fermo restando che una eventuale futura variazione dei parametri monitorati (sismologici, geochimici e delle deformazioni del suolo) può comportare una diversa evoluzione degli scenari di pericolosità».