Qui dentro ci sono pezzi di un asteroide
Li ha portati sulla Terra la sonda OSIRIS-REx dopo un lungo viaggio interplanetario alla ricerca delle origini della vita, e non solo
di Emanuele Menietti
Nella mattina di domenica 24 settembre nel deserto del Gran Lago Salato (Utah, Stati Uniti), alcuni tecnici della NASA si sono avvicinati con cautela a un oggetto da poco arrivato dallo Spazio e contenente materiale extraterrestre. Hanno esaminato l’esterno del contenitore annerito dall’alta temperatura, che si è sviluppata durante il suo turbolento rientro nell’atmosfera, e lo hanno poi trasportato in un hangar in attesa di aprirlo e svelarne il contenuto. A osservare le immagini diffuse in diretta dalla NASA la scena ricordava un film di fantascienza, ma la capsula nel deserto non c’entra con gli alieni: era partita dalla Terra sette anni fa per un viaggio di miliardi di chilometri per raccogliere alcuni frammenti di un asteroide e trasportarli sul nostro pianeta per poterli analizzare.
L’insolita consegna ha fatto parte di OSIRIS-REx, un’importante e ambiziosa missione organizzata per studiare da vicino gli asteroidi e comprendere meglio quale ruolo abbiano avuto nello sviluppo della vita sulla Terra, miliardi di anni fa. I frammenti che ci hanno da poco raggiunto sono pezzi di Bennu, un asteroide con una massa stimata intorno ai 70 milioni di tonnellate e un diametro massimo di 565 metri. Erano stati raccolti nel corso di un breve contatto con OSIRIS-REx avvenuto nell’ottobre del 2020, che aveva permesso di prelevare circa 250 grammi di materiale dalla superficie dell’asteroide. La sonda aveva poi lasciato Bennu nel maggio del 2021 per tornare verso la Terra, sganciare la capsula all’interno della quale aveva raccolto i campioni e farla infine arrivare sul nostro pianeta, più precisamente nello Utah.
Poco prima delle sette del mattino (le 13 in Italia) la capsula si trovava a circa 102mila chilometri dalla Terra e quattro ore dopo aveva iniziato il proprio ingresso nell’atmosfera viaggiando a una velocità di 44.500 chilometri orari. Nei dieci minuti successivi la capsula ha via via rallentato la propria corsa passando attraverso gli strati atmosferici sempre più densi e grazie a un paio di paracadute, che hanno reso più stabile la parte finale della sua discesa. L’impatto al suolo è avvenuto a una velocità di poco meno di 20 chilometri orari, non molto distante dall’area prevista dai calcoli della NASA.
Utilizzando radar, telescopi e speciali videocamere il gruppo di recupero ha identificato la capsula, la cui forma ricorda quella di una trottola, con un diametro di 80 centimetri e un’altezza intorno al mezzo metro. Una volta sul posto, i tecnici l’hanno ispezionata per assicurarsi che fosse integra, una delle verifiche più snervanti dell’intera missione. Se l’involucro protettivo non avesse resistito alle forti sollecitazioni del rientro, i campioni al suo interno si sarebbero distrutti o sarebbero rimasti contaminati dall’ambiente terrestre, rendendo impossibile lo studio delle sostanze che si trovano su Bennu. Uno scudo termico ha permesso di mantenere la temperatura dei campioni all’interno entro i 75 °C, pari alla temperatura massima registrata sulla superficie di Bennu.
Appurato che fosse integra, la capsula è stata avvolta in alcuni teli di plastica ed è stata poi trasportata in elicottero in una vicina struttura dove era stata allestita una camera ad atmosfera controllata (“camera bianca”), in attesa del successivo trasporto verso il Johnson Space Center di Houston, in Texas. All’arrivo la capsula è stata sottoposta a un flusso continuo di azoto, in modo da evitare che possano avvenire contaminazioni. L’azoto è inerte e la sua presenza fa sì che non si possano intrufolare altre sostanze nella capsula che potrebbero modificare le caratteristiche dei frammenti di Bennu.
Il contenitore sarà aperto a Houston in un ambiente sterile, il materiale sarà pesato e inserito in un inventario, frammento per frammento. Parte dei pezzi di roccia e della polvere dell’asteroide sarà distribuita in diversi laboratori in giro per il mondo, dove si conducono studi non solo sugli asteroidi ma anche di astrobiologia, la disciplina che si occupa di studiare come potrebbe svilupparsi la vita per come la conosciamo su altri corpi celesti, cercandone anche le tracce. Parte dei frammenti sarà invece conservata dalla NASA, in modo da avere materiale da analizzare in futuro, quando potenzialmente saranno sviluppati nuovi sistemi di analisi più accurati di oggi o basati su principi diversi, che ancora non immaginiamo.
Nell’immaginario collettivo gli asteroidi non sono molto interessanti rispetto alle stelle e ai pianeti: se ne parla quasi esclusivamente quando ne viene scoperto qualcuno con un remotissimo rischio di collisione con la Terra. In realtà, gli asteroidi possono aiutarci a comprendere molte cose su come si è formato il nostro pianeta e forse su come si sviluppò la vita.
Possiamo considerare gli asteroidi come parenti stretti dei pianeti rocciosi come il nostro, naturalmente su una scala molto più piccola e con forme meno regolari rispetto alla Terra. Gli studi più condivisi ipotizzano che gli asteroidi siano ciò che è rimasto del “disco protoplanetario”, l’enorme ammasso di polveri e gas in orbita intorno al Sole dal quale miliardi di anni fa si formarono i pianeti e i satelliti naturali del sistema solare. Parte di quel materiale sfuggì dal processo di formazione e si concentrò in una regione periferica del nostro vicinato cosmico.
Quasi tutti gli asteroidi si trovano infatti nella “fascia principale”, un grande anello di detriti tra le orbite di Marte e Giove, quindi a debita distanza dalla Terra. Può accadere che nella fascia principale si verifichino collisioni che turbano le orbite degli asteroidi interessati, con la conseguenza che qualcuno arrivi a sfiorare il nostro pianeta. A volte i giornali ne parlano con toni allarmati, ma in generale questi passaggi ravvicinati avvengono comunque a grandissima distanza dal nostro pianeta con rischi di impatto estremamente bassi. Bennu, l’asteroide dal quale OSIRIS-REx ha fatto il prelievo di materiale, fa parte del cosiddetto “gruppo Apollo”, un insieme di corpi celesti tenuti sotto controllo perché in futuro potrebbero interferire con l’orbita terrestre.
Nel 2020 OSIRIS-REx ha prelevato il materiale da una zona di Bennu dove secondo i gruppi di ricerca era più probabile trovare minerali con tracce di acqua e forse di materiale organico. Ciò non implica necessariamente che su Bennu ci siano forme di vita, ma potrebbe indicare la presenza di sostanze che sono necessarie a formarla, a cominciare dalle molecole di carbonio. Un’ipotesi è che nel periodo di formazione del sistema solare furono questi ingredienti a rendere possibile la formazione della vita.
OSIRIS-REx si trovava a 320 milioni di chilometri dalla Terra quando quasi tre anni fa effettuò il prelievo da Bennu. L’operazione, il cui esito positivo era tutt’altro che scontato, fu un successo: la sonda si avvicinò all’asteroide e ne sfiorò la superficie con un braccio robotico, emettendo un piccolo getto di azoto per fare sollevare detriti e polvere che sono confluiti in un piccolo cilindro in seguito inserito all’interno della capsula ora recuperata nello Utah.
La NASA non è la prima a effettuare prelievi interplanetari di questo tipo. La prima agenzia spaziale a riuscirci fu quella giapponese (JAXA) tra il 2003 e il 2010, anno in cui riportò sulla Terra meno di un grammo di materiale con la missione Hayabusa. Verso la fine del 2020 una seconda missione giapponese, Hayabusa-2, permise di portare circa 5 grammi di materiale prelevato da un asteroide. Con OSIRIS-REx la NASA stima di avere riportato sulla Terra fino a 50 volte più materiale, che potrà essere impiegato da un maggior numero di gruppi di ricerca in giro per il mondo.