È morto Matteo Messina Denaro
Era uno dei più noti e importanti mafiosi italiani, latitante per 30 anni e poi arrestato lo scorso gennaio: soffriva da tempo di un tumore al colon
È morto Matteo Messina Denaro, che era considerato il capo di Cosa Nostra ed era uno dei più noti e importanti mafiosi italiani: prima del suo arresto, avvenuto il 16 gennaio del 2023 alla clinica La Maddalena di Palermo, era rimasto latitante per trent’anni. Messina Denaro aveva 61 anni e soffriva da tempo di un tumore al colon in stadio avanzato, motivo per cui era stato costretto a curarsi a Palermo e uscire di più allo scoperto, riducendo le cautele della latitanza.
Le prime indagini su di lui iniziarono alla fine degli anni Ottanta e diventò ricercato all’inizio degli anni Novanta, in un periodo in cui gestiva il racket delle estorsioni, lo smaltimento illegale dei rifiuti, il riciclaggio di denaro e il traffico di droga per la mafia siciliana. Nel 2006, dopo l’arresto di Bernardo Provenzano, diventò di fatto il capo dell’organizzazione criminale.
Messina Denaro era stato a lungo il primo della lista dei ricercati italiani più pericolosi. Di lui si sapeva molto poco, era sempre riuscito a far trapelare pochissimo di sé. Si sapeva, da vecchi racconti, che amava passare ore a giocare ai videogiochi, che si considerava intelligente e colto e amava citare scrittori e filosofi, che ci teneva a essere elegante. E soprattutto che era prudente fino all’ossessione, almeno prima della malattia: per questo non riuscivano a prenderlo.
Matteo Messina Denaro era nato a Castelvetrano, nella valle del Belice, in provincia di Trapani, nel 1962. Fece lì le scuole elementari e medie, poi si iscrisse all’Istituto tecnico commerciale Ferrigno di Castelvetrano ma si ritirò dopo due anni. Nel 2015 fu trovata una lettera in cui esprimeva rimpianto per non aver studiato. Lo definiva uno dei più grandi errori della sua vita. Si raccontava anche come un bravo studente, distratto però poi da altre cose della vita.
Le altre cose della vita per Messina Denaro furono le prime azioni criminali e poi l’ingresso “ufficiale” nella cosca di Castelvetrano che era comandata dal padre, Francesco, conosciuto come don Ciccio.
Messina Denaro divenne presto uno dei giovani mafiosi che gravitavano intorno alla figura di Totò Riina ed ebbe un ruolo nella guerra che i corleonesi, guidati dallo stesso Riina, fecero contro alcune famiglie mafiose ribelli di Marsala e della valle del Belice. Secondo le ricostruzione giudiziarie, commise il primo omicidio a 18 anni. Disse anni dopo a un amico: «Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero».
Il suo nome comparve per la prima volta in un fascicolo d’indagine nel 1989. Un funzionario di polizia di Castelvetrano, Rino Germanà, aveva iniziato a indagare su di lui: era il figlio del boss e amava mostrarsi ricco e potente. Si faceva vedere a bordo di auto di lusso, esibiva al polso orologi costosissimi.
Messina Denaro tentò di uccidere Germanà. Con Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, e Giuseppe Graviano preparò un agguato su lungomare di Mazara del Vallo. A bordo di una Fiat Tipo affiancarono l’auto del funzionario di polizia e iniziarono a sparare. Germanà scese dall’auto e sparò a sua volta, poi fuggì verso il mare. Fu inseguito da Bagarella che però non riuscì a colpirlo. Messina Denaro commentò anni più tardi: «Bagarella non ha mai saputo sparare».
Il nome di Messina Denaro venne iscritto nella lista dei ricercati il 2 giugno del 1992. Quel giorno iniziò ufficialmente la sua latitanza.
Il passaggio di consegne da padre a figlio era avvenuto all’inizio degli anni Novanta. Matteo Messina Denaro era diventato il capo del mandamento di Castelvetrano e referente per la provincia di Trapani dei corleonesi, la cosca vincente del palermitano. Secondo il racconto di mafiosi divenuti poi collaboratori di giustizia, Messina Denaro incrementò notevolmente la quantità di denaro che affluiva alla cosca.
I soldi arrivavano principalmente dalle estorsioni e dal controllo su tutti gli appalti che venivano affidati nel trapanese dagli enti locali ad aziende private. La cosca controllava poi il traffico di droga e il mercato dello smaltimento illegale dei rifiuti nella zona. Il denaro veniva riciclato grazie a prestanome in Francia, nei Paesi Bassi, in Spagna e in Sud America. Oltre a comandare, Messina Denaro prendeva ordini da Totò Riina a cui era indissolubilmente legato. Fu a lui che Riina affidò il compito di preparare l’attentato a Maurizio Costanzo e fu lui a suggerire ai corleonesi di attaccare lo Stato attraverso gli attentati a monumenti e luoghi simbolici.
I testimoni di giustizia raccontarono che Messina Denaro, in una riunione che si tenne in una azienda produttrice di calcestruzzo che faceva capo alla sua famiglia, si presentò con guide turistiche e spiegò agli altri capi mafiosi quali obiettivi fosse meglio attaccare.
Partecipò direttamente, trasferendosi a Roma, alla preparazione dell’attentato a Costanzo. Scelse alcuni uomini che portò con sé: Francesco Geraci, Vincenzo Sinacori, Giuseppe Graviano e Fifetto Cannella. Comprarono vestiti eleganti e iniziarono a frequentare locali dove incontravano personaggi dello spettacolo. Studiarono i movimenti di Costanzo, andarono almeno due volte al teatro Parioli dove il giornalista registrava la sua trasmissione. L’attentato fu organizzato in via Fauro, a Roma, il 14 maggio 1993: Costanzo e la moglie Maria De Filippi ne uscirono illesi.
Fu sempre Messina Denaro ad autorizzare il rapimento di Giuseppe Di Matteo, figlio tredicenne di Santino Di Matteo, mafioso e collaboratore di giustizia. Il ragazzino fu rapito a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, il 23 novembre del 1993. Venticinque mesi dopo venne ucciso e il suo corpo sciolto nell’acido da Giovanni Brusca, oggi testimone di giustizia.
A chi indagava, Messina Denaro è sempre apparso diverso dalla figura tipica del mafioso, almeno sotto alcuni aspetti. Ci teneva a far sapere che leggeva libri, nelle sue lettere citava per esempio lo scrittore brasiliano Jorge Amado, e dava ai suoi interlocutori nomi di copertura ispirandosi alla storia e alla letteratura.
Dopo l’arresto di Totò Riina, avvenuto nel gennaio del 1993, il suo potere all’interno di Cosa Nostra aumentò e diventò la personalità più autorevole, anche se non ricevette mai un’investitura ufficiale. Il comando del coordinamento tra le varie cosche siciliane è sempre stato nelle mani dei corleonesi e comunque mai affidato a mafiosi che non fossero della zona di Palermo.
Messina Denaro non era sposato. A Sonia, una sua fidanzata, scrisse nel primo periodo di latitanza: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato».
Un’altra fidanzata, Maria Mesi, fu arrestata per favoreggiamento. Nel 1995 fece consegnare a Messina Denaro una lettera in cui scrisse: «Ti prego non dirmi di no, desidero tanto farti un regalo. Sai, ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella di Secret Maya 2 ancora non è arrivata. Sei la cosa più bella che ci sia».
Seguendo Maria Mesi la polizia arrivò vicinissima ad arrestare Messina Denaro. Accadde nel 1998, quando gli investigatori scoprirono un appartamento-rifugio a Bagheria, in via Milwaukee 40. Gli agenti fecero irruzione ma lui se n’era già andato. Vennero trovati un barattolo di Nutella, uno di caviale, un puzzle incompleto, una stecca di sigarette Merit. Si pensò che Messina Denaro potesse avere confidenti tra le forze dell’ordine che lo avevano avvertito.
Prima di Maria Mesi e Sonia c’era stata una donna austriaca, Andrea Haslehner, che lui chiamava Asi. Erano stati fidanzati per quattro anni, dal 1989 al 1993. Si erano conosciuti a Castelvetrano quando lei faceva la receptionist all’hotel Paradise Beach. Messina Denaro, Graviano e altri mafiosi iniziarono a frequentare assiduamente l’albergo. Il direttore Nicola Consales fece capire ad Andrea Haslehner che quelle persone non erano gradite: fu assassinato il 21 febbraio 1991.
Tra il 1995 e il 1996 ebbe una relazione anche con un’altra donna di Castelvetrano, Franca Alagna. I due nel 1996 ebbero una figlia, Lorenza. Da allora Franca Alagna perse qualsiasi autonomia: costretta sempre in casa, quando usciva era accompagnata dai parenti. Nel 2013, quando la figlia stava per diventare maggiorenne, la donna chiese di poter lasciare Castelvetrano. Il boss, dalla latitanza, diede il suo assenso. La figlia assunse il cognome della madre e solo recentemente si è riavvicinata al padre decidendo di riprendere il suo cognome.
A gestire i contatti del latitante con gli uomini delle cosche fu per molti anni la sorella Patrizia. Venne arrestata nel 2014 e condannata a 14 anni di carcere per associazione mafiosa. Da allora Messina Denaro ha comunicato con altri mafiosi solo attraverso pizzini, e cioè semplici foglietti di istruzioni e richieste.
Mentre era latitante venne condannato a più di dieci ergastoli. Tra questi, quello per l’omicidio di Giuseppe Montalto, guardia carceraria in servizio nel carcere Ucciardone di Palermo. Altri ergastoli gli furono dati per gli attentati di Capaci e di via D’Amelio, per quelli del luglio 1993 a Firenze, Roma e Milano e per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo. Venne condannato a più ergastoli anche per la partecipazione, assieme a molti altri mafiosi, a oltre 100 omicidi commessi durante la guerra di mafia avvenuta nei primi anni Novanta nel trapanese.
Nel novembre del 2022 un collaboratore di giustizia ha detto che Messina Denaro era gravemente malato. L’informazione si è rivelata vera, quando Messina Denaro è stato arrestato alla clinica La Maddalena di Palermo doveva iniziare un ciclo di chemioterapia. Ha trascorso gli ultimi mesi nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila, in Abruzzo, e poi nell’edificio L4 dell’ospedale della città.