Cos’è la giustizia riparativa
È stata concessa a Davide Fontana, condannato per il femminicidio di Carol Maltesi: in Italia esiste da anni ma solo da poco è prevista dalla legge
Sabato il tribunale di Busto Arsizio, in provincia di Varese, ha deciso di accogliere la richiesta di Davide Fontana, il 44enne milanese condannato a 30 anni di carcere per l’omicidio di Carol Maltesi, una donna italo-olandese di 26 anni, di accedere alla “giustizia riparativa”. Con questa espressione ci si riferisce a un percorso complementare alla pena in carcere, che prevede l’incontro e la mediazione tra la vittima, il colpevole e spesso anche la comunità all’interno della quale è avvenuto il reato. Lo scopo è che la pena non abbia più solo un valore “afflittivo”, cioè che porta limitazioni alla libertà personale, ma appunto “riparativo”, in cui il colpevole si impegni a rimediare attivamente al reato commesso.
Sui giornali è stato dato spazio ai commenti indignati della madre e del padre di Maltesi, che «si è detto sconvolto e schifato da una giustizia che ammette un assassino reo confesso, che ha ucciso, fatto a pezzi ed eviscerato una ragazza, di accedere ad un percorso simile». In realtà la giustizia riparativa può essere applicata a qualsiasi tipo di reato, e può essere avviata anche senza la partecipazione delle vittime. È un approccio alla giustizia che esiste da tempo e in Italia è stato a lungo praticato senza essere normato. Con la recente entrata in vigore della riforma della giustizia, la cosiddetta riforma Cartabia, ora invece l’opportunità e le modalità di un percorso di questo tipo sono state introdotte anche nel codice di procedura penale.
La giustizia riparativa si basa su due presupposti: che ogni reato causi una frattura di tipo relazionale e sociale – tra due persone o tra più persone, o tra una persona e una comunità – e che quasi mai la pena inflitta al colpevole sia di sollievo per le vittime coinvolte, che spesso continuano a soffrire dell’ingiustizia subìta anche dopo la sentenza di condanna. Le testimonianze delle vittime di violenze sessuali, per esempio, mostrano spesso che la condanna dell’aggressore non porta alcuna consolazione alla rabbia e alla sofferenza che si provano. Il criminologo americano Howard Zehr, considerato tra i primi promotori della giustizia riparativa, spiegò una volta in un’intervista che «siamo molto preoccupati del fatto che le vittime non siano solo escluse dal processo giudiziario, ma che questo diventi per loro un secondo trauma».
La giustizia riparativa sposta l’attenzione dalla punizione del colpevole e dal risarcimento puramente economico alla “riparazione”, attraverso un lavoro di incontro e soprattutto di assunzione di responsabilità. La filosofia che sta dietro questo approccio è molto antica, ma quello che viene considerato il primo esperimento di giustizia riparativa moderna avvenne a Kitchener, una cittadina dell’Ontario, in Canada. Due ragazzini furono giudicati colpevoli di aver rovinato alcune case nella via centrale del paese ma, anziché condannarli alle consuete attività previste per questi reati, l’educatore Mark Yantzi propose al giudice un programma di mediazione tra i ragazzi e le famiglie danneggiate, e un piano di lavoro per rimediare ai danni provocati.
Nell’ambito della giustizia minorile la mediazione tra vittima e colpevole – che è una possibile applicazione della giustizia riparativa ma non è l’unica – si affermò anche in altri paesi ed è tuttora molto diffusa anche in Europa. In Italia era spesso raccomandata dai servizi sociali e dai tribunali minorili già da prima dell’introduzione della riforma Cartabia, anche se raramente ci sono le risorse per metterla in atto.
Il più noto esperimento di giustizia riparativa avvenuto in Italia è quello iniziato nel 2007 e durato 8 anni, che coinvolse alcuni parenti delle vittime del terrorismo degli anni Settanta ed ex partecipanti alla violenza armata attivi in quegli anni. L’idea fu del gesuita Guido Bertagna e dei docenti dell’Università Cattolica di Milano Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, che fecero da mediatori per tutto il percorso e raccontarono poi la loro esperienza in un resoconto di oltre 400 pagine pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Il Saggiatore: Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Nel prologo, gli autori spiegano: «Il nostro proposito era, ed è tuttora, quello di compiere un tragitto insieme, noi mediatori nel “mezzo”, tra persone che avevano subito un male terribile e chi quel male l’aveva causato, tutti uniti da qualcosa di tanto misterioso, e per molti versi inspiegabile, quanto forte, ineludibile, decisivo: la domanda, o la ricerca, di giustizia».
Può capitare, come nel caso di Fontana, che le vittime (in questo caso le parti civili del processo: i genitori e l’ex marito di Maltesi) decidano di non partecipare al percorso di giustizia riparativa con il colpevole: in questo caso è possibile procedere comunque con quella che viene detta “vittima aspecifica”, cioè una o più persone che hanno subito lo stesso tipo di reato e che sentono il bisogno di partecipare a questo tipo di percorso. È quello che ha raccontato di aver fatto Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter Tobagi, ucciso nel 1980 da un gruppo terroristico di estrema sinistra, che ha sempre rifiutato la mediazione diretta con i responsabili della morte del padre, ma ha preso parte con soddisfazione a un percorso di giustizia riparativa diverso, con detenuti non direttamente coinvolti nella sua storia.
L’obiettivo è ridare alle vittime un senso di sicurezza, di integrità psicologica e di giustizia. Il processo di giustizia riparativa non è un ritorno all’idea di giustizia privata e neanche un’applicazione del concetto di perdono cristiano. Il requisito di partenza è che chi ha commesso i crimini si assuma la responsabilità delle proprie azioni e ne affronti le conseguenze, anche rispondendo onestamente a una persona danneggiata che gli chiede perché ha fatto quel che ha fatto.