Quando Neruda fu quasi espulso dall’Italia
Nel 1952 il poeta cileno riuscì poi a rimanere e pubblicò un libro di poesie grazie a un gruppo di intellettuali e comunisti italiani, tra cui Giorgio Napolitano
Nell’immaginario collettivo il rapporto tra l’Italia e Pablo Neruda, morto oggi cinquant’anni fa, è rappresentato da Il postino, il film di Michael Radford e Massimo Troisi in cui il grande poeta e politico cileno, durante il periodo passato sull’isola di Capri, fa amicizia con il figlio di un pescatore che gli fa appunto da postino. Il film racconta una storia inventata: è adattato da un romanzo del 1986 dello scrittore cileno Antonio Skármeta, che è ambientato in Cile e finisce con la morte di Neruda. Il poeta però trascorse veramente un periodo della sua vita in Italia, i cui momenti più significativi non riguardarono l’amicizia con un postino, bensì un tentativo di espulsione da parte del governo italiano, impedito da intellettuali e politici comunisti, e la pubblicazione di un libro di poesie anonimo in cui fu coinvolto, tra gli altri, Giorgio Napolitano, che è morto venerdì all’età di 98 anni.
Neruda visitò per la prima volta l’Italia, e in particolare Roma, nel 1950. All’epoca era in esilio: nel gennaio del 1948, al Senato cileno, aveva pronunciato un discorso molto duro contro il governo autoritario del presidente Gabriel González Videla, che per questo ne aveva ordinato l’arresto. Neruda però riuscì a evitare la cattura, visse in clandestinità per circa un anno e poi fuggì all’estero attraversando a cavallo le Ande; nel frattempo González Videla aveva dichiarato illegale il Partito Comunista di cui Neruda era membro, facendo decadere la sua carica di senatore.
Ormai in esilio, Neruda viaggiò in vari paesi europei, accolto dai politici di sinistra in quanto perseguitato politico, letterato già noto e apprezzato e antifascista durante la Guerra civile spagnola, quando era stato console a Madrid. Fu accolto anche in Italia, dove nel 1950 conobbe e fece amicizia con il critico letterario e politico del PCI Mario Alicata, con il pittore Renato Guttuso e con gli scrittori Carlo Levi ed Elsa Morante. Dopo aver fatto altri giri per l’Europa Neruda tornò in Italia alla fine del 1951: in quell’occasione si spostò tra varie città e infine a Napoli, dove era console per il Cile la poeta e premio Nobel per la Letteratura Gabriela Mistral.
Nel suo libro di memorie Confesso che ho vissuto, pubblicato postumo nel 1974, Neruda racconta di questo soggiorno dedicando una certa ironia alle attenzioni che gli rivolsero le autorità italiane:
Da un posto all’altro, in queste peripezie di esiliato, giunsi in un paese che allora non conoscevo e che imparai ad amare intensamente: l’Italia. In quel paese tutto mi sembrava favoloso. Specialmente la semplicità italiana: l’olio, il pane ed il vino della naturalezza.
Perfino quella polizia… Quella polizia che non mi ha mai maltrattato, ma che mi seguiva instancabile. Era una polizia che trovavo dovunque, perfino nei sogni e nella minestra.
Gli scrittori m’invitarono a leggere i miei versi. Li lessi in buonafede dappertutto, nelle università, negli anfiteatri, ai portuali di Genova, a Firenze, nel Palazzo della Lana, a Torino, a Venezia.
Leggevo con infinito piacere davanti a sale traboccanti di pubblico. Qualcuno accanto a me ripeteva poi le strofe in italiano supremo, e mi piaceva udire i miei versi con quello splendore che gli aggiungeva la lingua magnifica. Ma alla polizia non piaceva tanto. In spagnolo, passi, ma la versione italiana aveva punti e puntini.
Gli elogi alla pace, parola che era stata proscritta dagli «occidentali», e ancora di più il fatto che la mia poesia si rivolgeva alle lotte popolari, erano pericolosi.
Neruda ricevette la cittadinanza onoraria di varie città italiane per cui passò, sempre seguito dalla polizia. L’episodio più memorabile avvenne a Venezia, dove stando alle memorie del poeta ci fu una specie di inseguimento: il poeta, insieme al politico Vittorio Vidali e allo scrittore costaricano Joaquín Gutiérrez, scappò «sull’unica gondola a motore di Venezia, quella del sindaco comunista». I poliziotti veneziani cercarono di raggiungerli su una gondola normale «da lontano e senza speranza, come un’anatra può seguire un delfino».
L’11 gennaio 1952 l’allora ministro dell’Interno Mario Scelba firmò un decreto di espulsione per Neruda, ormai a Napoli, probabilmente su pressione del governo cileno e forse indirettamente degli Stati Uniti. Erano i primi anni della Guerra fredda e il governo democristiano di Alcide De Gasperi era alleato di quello statunitense, molto impegnato a contrastare le idee comuniste sia sul proprio territorio che nel resto del mondo. L’influenza di Mistral, che provò a difendere la posizione di Neruda usando un certificato medico che diceva che per motivi di salute il poeta aveva bisogno di risiedere a Napoli, non bastò a impedire la decisione.
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Il poeta ricevette la notizia dell’espulsione, che gli fu fatto capire era stata richiesta dall’ambasciata cilena, dopo essere stato chiamato in questura con una scusa. Lì ricevette l’ordine di prendere un treno per Roma, su cui viaggiò scortato da un gruppo di poliziotti, molto ossequiosi e gentili nei ricordi del poeta («Non ho mai visto una polizia più educata»).
Il viaggio si interruppe alla stazione Termini di Roma, dove Neruda avrebbe dovuto cambiare treno per andare verso nord e lasciare l’Italia: una folla di persone, «circa un migliaio» nel racconto del poeta, si era radunata per protestare contro la sua cacciata e si scontrò con la polizia. Tra i manifestanti c’erano Elsa Morante con Alberto Moravia, Guttuso e Levi, insieme ad altri artisti, giornalisti e politici, pronti ad accogliere Neruda con mazzi di fiori. «Nella mischia potei vedere la dolcissima Elsa Morante colpire con il suo ombrellino di seta la testa di un poliziotto», ricordò sempre lo stesso Neruda nelle sue memorie.
La folla gridava: – Neruda rimane a Roma! Neruda non se ne va dall’Italia! Rimanga il poeta! Rimanga il cileno! Fuori l’austriaco!
(L’«austriaco» era De Gasperi, primo ministro italiano).
A capo di mezz’ora di pugilato arrivò un ordine superiore grazie al quale mi veniva concesso il permesso di rimanere in Italia. I miei amici mi abbracciarono e mi baciarono e io mi allontanai da quella stazione calpestando con dispiacere i fiori rovinati dalla battaglia.
A Roma Neruda venne ospitato da un senatore comunista da cui lo aveva portato Guttuso e lì ricevette un invito per soggiornare a Capri da parte di Edwin Cerio, ingegnere, scrittore, naturalista anglo-italiano ed ex sindaco dell’isola, che il poeta aveva conosciuto in Sud America quando lavorava per la costruzione della ferrovia tra Buenos Aires, in Argentina, e Santiago del Cile. Neruda allora andò a Capri insieme alla sua compagna Matilde Urrutia e lì alloggiò per alcuni mesi in una casa di proprietà di Cerio, la cosiddetta “casetta Arturo”.
A Capri Neruda lavorò alle poesie che aveva iniziato a comporre nei vagabondaggi europei di quegli anni di esilio, che poi Urrutia batteva a macchina. Parte di quelle poesie fu raccolta nel libro Los Versos del Capitán (“I versi del capitano”), pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1952.
A pagare per la pubblicazione del libro, che venne stampato in una cinquantina di copie, furono Neruda, Urrutia e altre 41 persone – anche in questo caso politici e intellettuali comunisti – che si divisero le spese. La lista di questi “sottoscrittori” venne pubblicata in fondo al volume: tra loro c’erano oltre a Morante, Levi, Guttuso e Alicata, lo scrittore Vasco Pratolini e il poeta Salvatore Quasimodo, l’editore Giulio Einaudi, lo scrittore brasiliano Jorge Amado e il poeta turco Nazim Hikmet, il regista Luchino Visconti, il matematico Renato Caccioppoli e membri del PCI come il segretario Palmiro Togliatti, Pietro Ingrao e Mario Montagnana, peraltro direttore dell’Unità.
Il quarantaquattresimo e ultimo sottoscrittore fu l’allora ventisettenne Giorgio Napolitano. Nel 2016, in un’intervista al programma televisivo della Rai Il tempo e la storia, l’ex presidente della Repubblica raccontò che la quota di sottoscrizione per la pubblicazione del libro era di 5mila lire. Napolitano ricordò anche che di Neruda lo colpì in particolare, quando lo conobbe a Napoli alla fine del 1951, «la sua reazione infantile quasi, di stupore e di entusiasmo, alla mezzanotte di quel Capodanno». Los Versos del Capitán è una raccolta di poesie d’amore, ma i comunisti italiani vollero sostenerne la pubblicazione, sebbene non avesse un significato politico, per «il personaggio, la battaglia, la personalità» di Neruda, disse sempre Napolitano.
Una particolarità della prima edizione della raccolta è che, sebbene fosse noto che si trattava di un libro di Neruda, venne pubblicata anonima. Le poesie erano infatti dedicate a Urrutia, ma all’epoca Neruda era ancora sposato con la seconda moglie, Delia del Carril, anche se se ne stava separando, e non voleva offenderla col suo nome sulla copertina. Successivamente il libro venne ristampato, anche in Cile, con la firma.
Qualche tempo dopo la pubblicazione napoletana di Los Versos del Capitán l’ordine di cattura cileno nei confronti di Neruda venne annullato e ad agosto il poeta tornò in patria. Negli anni successivi continuò a scrivere e a partecipare alla vita politica del suo paese, a un certo punto candidandosi anche a presidente nel 1969. Alla fine però sostenne la candidatura di Salvador Allende, che fu eletto, e lo nominò ambasciatore cileno a Parigi. Nel 1971 Neruda vinse il premio Nobel per la Letteratura e l’anno successivo tornò definitivamente in Cile. Morì nel 1973, cinquant’anni fa, pochi giorni dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet. A oggi non è ancora stato escluso, ma nemmeno provato, che fu avvelenato.
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