Le classifiche delle migliori università del mondo lasciano il tempo che trovano
Periodicamente ottengono grandi attenzioni, e l'Italia sembra sempre arrancare, ma non è chiaro a chi servano veramente
Ogni anno dai primi del Duemila, e più volte all’anno, vengono pubblicate classifiche che nelle intenzioni di chi le stila dovrebbero elencare le migliori università del mondo. Pochi giorni fa, per esempio, è stata pubblicata la prima edizione del QS World University Rankings: Europe 2024, classifica degli atenei europei che prende in considerazione 690 università in 25 paesi. Ad agosto era stato pubblicato l’Academic Ranking of World Universities, curato dall’organizzazione indipendente Shanghai Ranking Consultancy, e in Italia se n’era parlato perché la Sapienza di Roma si era collocata tra le prime 150 della lista. E ogni ottobre esce la classifica (in gergo più nota come “ranking”, dall’inglese) della rivista britannica Times Higher Education (THE), che valuta 1799 università tra le circa 30mila che esistono al mondo, tra cui 55 atenei italiani.
Ogni volta che uno di questi ranking viene pubblicato, circola moltissimo: se ne scrive sui principali quotidiani nazionali, le università che figurano in una posizione piuttosto alta pubblicano post o inviano newsletter agli iscritti per vantarsene, talvolta si genera qualche dibattito sul fatto che gli atenei italiani non abbiano mai punteggi veramente alti. Diverse università hanno persino creato specifici “uffici ranking” per cercare di migliorare il proprio posizionamento e si avvalgono dei servizi di consulenza messi a disposizione dalle stesse società che stilano le classifiche per cercare di ottenere un punteggio più alto.
Nonostante l’indubbia attenzione che ottengono, però, queste classifiche sono da anni molto criticate. Un po’ perché si basano su criteri arbitrari, che riflettono poco la moltitudine di ruoli sociali e culturali che le università svolgono sul territorio. Un po’ perché sono progettate quasi sempre sulla base del sistema d’istruzione inglese e statunitense, che riflette male come funzionano le università nel resto del mondo. Un po’, semplicemente, perché non è chiaro a cosa servano, se non a indirizzare attenzione e fondi verso le società che le stilano e le università che figurano ai primi posti.
Negli Stati Uniti le prime classifiche che individuavano i migliori college e università del paese sono nate negli anni Ottanta: la più seguita è tuttora quella stilata dal giornale U.S. News & World Report a partire dal 1983, che è nota per influenzare fortemente la scelta dell’ateneo a cui fare domanda d’ammissione per milioni di studenti. La prima istituzione che ha cominciato a fare un confronto internazionale tra le varie università nel tentativo di decretare la migliore fu, nel 2003, l’Università Shanghai Jiao Tong, ma nel tempo le classifiche prese in maggiore considerazione nel settore sono diventate due: quelle della rivista inglese Times Higher Education (THE) e quelle stilate dalla società di consulenza londinese Quacquarelli Symonds, che pubblica il QS World University Ranking globale, uno diviso per materia, uno dedicato alla sostenibilità e uno soltanto sulle università europee.
A queste si aggiungono le classifiche condotte all’interno dei singoli paesi da istituti di statistica locali, considerate meno problematiche perché prendono in maggiore considerazione il contesto storico e culturale in cui gli atenei si inseriscono: in Italia la stila il CENSIS.
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Se l’esistenza dei ranking negli Stati Uniti ha già da tempo portato allo sviluppo di forti ansie e malesseri tra gli adolescenti chiamati a scegliere l’università migliore possibile, in Italia questa pressione all’interno delle famiglie esiste per ora molto meno. La crescente popolarità delle classifiche internazionali ha però comunque contribuito a un forte aumento della competizione tra università per l’attrazione di fondi e talenti, soprattutto nel campo della ricerca scientifica e tecnologica. Esiste infatti a livello istituzionale una forte convinzione comune secondo la quale le classifiche aiutano a mantenere e costruire la reputazione di un ateneo, assicurandogli un posto in un “élite” internazionale. E secondo la quale i governi e le aziende le utilizzano per informare le proprie decisioni in termini di finanziamenti, collaborazioni e reclutamento dei dipendenti. Secondo uno studio commissionato dall’UNESCO nel 2013, già dieci anni fa il 63 per cento delle università interpellate diceva di aver preso alcune proprie decisioni strategiche con l’obiettivo di migliorare il proprio posizionamento nelle classifiche.
In Italia quasi tutte le università principali hanno dei dipendenti – se non degli interi uffici – il cui lavoro è raccogliere i dati e le informazioni da fornire alle società che stilano i vari ranking. L’università di Padova, oltre ad avere dal 2013 un ufficio dedicato, da un anno ha anche un sito apposito che aiuta a spiegare ai futuri studenti le differenze tra le metodologie delle varie classifiche, oltre alle ragioni del posizionamento dell’università in una o nell’altra.
«Non possiamo esattamente decidere di non dare informazioni alle varie società, perché in qualsiasi caso appariremmo nelle classifiche», spiega Mara Thiene, prorettrice dell’Università con delega ai ranking. «Ma le vediamo anche come strutture che ci aiutano a fare una serie di ragionamenti: invece di subire i posizionamenti in modo passivo, li utilizziamo come una sorta di cartina tornasole, in modo da migliorare e attuare una serie di politiche strategiche che migliorino l’ateneo nei diversi ambiti, dalla ricerca alla sostenibilità e la didattica».
Di conseguenza, i ranking sono vissuti come strumenti di gestione e di monitoraggio, per capire gli effetti delle politiche delle amministrazioni universitarie – specie rispetto alla sostenibilità – e per imparare dalle altre università. Questo non vuol dire che al posizionamento in sé non si presti attenzione: in particolare, all’università di Padova interessano quelli di QS, che a livello mediatico e di traffico web sono i più seguiti. «Ci dà la possibilità di creare, amplificare, fortificare così il senso di appartenenza dei nostri studenti e dei nostri laureati», dice Thiene.
Negli anni si sono però stratificate varie critiche al sistema delle classifiche, che hanno a che fare sia con la loro metodologia sia con le implicazioni alla base dell’idea che sia possibile eleggere “l’università migliore del mondo”. In primo luogo, benché società come Quacquarelli Symonds (QS) promettano di «confrontare le migliori università del mondo», i ranking prendono in considerazione soltanto una piccola percentuale delle decine di migliaia di università che esistono al mondo. «Classificarsi tra le prime 500 università a livello globale implica già rientrare almeno nel 3 per cento delle migliori istituzioni universitarie del mondo», ha scritto la professoressa Ellen Hazelkorn. «Ma le classifiche hanno generato una logica perversa in base a cui soltanto quelle che si trovano nelle prime 20, 50 o 100 posizioni sono degne di essere definite eccellenti».
Secondo Hazelkorn, che nel suo articolo riassume molte critiche avanzate negli anni nei confronti dei ranking internazionali, le classifiche sono così popolari perché mettono a disposizione un dato apparentemente semplice da leggere e da discutere. I risultati si basano infatti su una serie di fattori che variano da classifica a classifica, incentrati perlopiù più sulle capacità di ricerca e pubblicazione di studi accademici che sulla qualità di insegnamento, e valutati molto spesso tramite sondaggi e interviste somministrati a persone che lavorano nel settore.
Non tutti i fattori hanno lo stesso peso sul punteggio finale, e alcuni sono estremamente soggettivi: QS, per esempio, basa gran parte del proprio punteggio (il 40 per cento del totale) sulla “reputazione accademica” di un’università, mentre THE dà molta più importanza all’”ambiente di apprendimento” e all’impatto della ricerca prodotta dagli atenei. «Molti indicatori hanno, nei migliori dei casi, una relazione indiretta con la qualità dei docenti o dell’istruzione», scrive Hazelkorn. «La loro influenza deriva dall’apparenza di obiettività scientifica».
L’importanza data alla ricerca – misurata attraverso fattori come il numero di studi pubblicati su grandi pubblicazioni scientifiche internazionali – sballa i risultati in diversi modi. In primo luogo, mette in difficoltà le università che si trovano in paesi (soprattutto in via di sviluppo) che raramente pubblicano in inglese e su grandi riviste accademiche mondiali, che richiedono tariffe anche molto alte per la pubblicazione degli articoli. Inoltre, valorizzano soprattutto le università che producono specifici tipi di ricerca, quasi sempre legata alle cosiddette materie STEM (scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche o matematiche), rispetto a quelle che si specializzano nelle materie umanistiche.
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La centralità data alla reputazione delle università nei ranking di QS è invece spesso criticata in quanto eccessivamente soggettiva e autoreferenziale. Da una parte è un dato che può essere mistificato con la giusta narrazione e il giusto lobbying, dall’altra per gli atenei più giovani è difficile competere con le università più antiche e ricche, che hanno costruito una solida reputazione nel corso dei secoli e hanno formato la classe dirigente dei paesi in cui si trovano. Questo però non significa necessariamente che università di fondazione più recente o meno ricche siano di qualità inferiore.
«Le università sono delle organizzazioni molto complesse, con svariate missioni: l’università deve fare ricerca, deve fare didattica a tutti i livelli, deve coinvolgere il pubblico, deve lavorare con le imprese, con le istituzioni», dice Juan Carlos De Martin, autore del libro Università futura e candidato al rettorato del Politecnico di Torino. «Prendere questa missione multidimensionale e schiacciarla in una classifica monodimensionale è impossibile. Questo non vuol dire che siano completamente inutili: si possono prendere una per una, andare a vedere come sono fatte e cercare di capirne i ragionamenti: in questo modo si può estrarre qualche informazione utile. Ma la maggior parte delle persone non ha il tempo e la pazienza di andare ad approfondire in questo modo».
Le università italiane, per esempio, sono spesso criticate perché raramente ottengono punteggi davvero alti. Osservando le metodologie dei ranking, che sono stati sviluppati a partire dal sistema universitario americano e britannico, caratterizzati da un numero relativamente piccolo di università molto ricche e prestigiose, non è difficile capire il perché.
«Il sistema europeo è un sistema molto più diffuso, con tante università, con una qualità media elevata, ma senza grandi star: non c’è una Harvard continentale europea, per capirci», dice De Martin. «Quindi queste classifiche contengono questa distorsione congenita, basata anche sul fatto che università come Harvard, Stanford o il MIT hanno un bilancio incomparabile a quello delle università italiane. Se proprio ci piacciono queste classifiche, è bene guardare a quelle che rispecchiano meglio il modello continentale europeo, che ha i suoi vantaggi, dato che possiede una qualità media diffusa sul territorio molto superiore a quella americana. Guardando i dati in maniera differente, si nota che le università italiane sono tutto sommato collocate in un percentile elevato di tutte le università del mondo, e che gli studenti italiani hanno il privilegio, a costi che sono una frazione delle grandi prestigiose università americane, di poter frequentare ottime università».
Alcuni paesi, come la Francia, hanno cominciato invece a fare ragionamenti più ampi per poter competere meglio in un contesto dominato dal sistema anglosassone. Nel 2019, per esempio, varie università della regione di Parigi sono state fuse per creare l’università di Paris-Saclay con lo scopo esplicito di arrivare in cima alle classifiche delle migliori università del mondo, riuscendoci. «L’idea di modificare il proprio sistema universitario, invece di chiedersi di che tipo di sistema abbia bisogno un paese, i suoi studenti, le sue imprese e le sue istituzioni, a me sembra demenziale», commenta De Martin.
A fronte del fatto che i ranking non riflettono effettivamente la qualità di gran parte delle università prese in esame – e che cercare di definire con un numero la qualità di un’istituzione sia di per sé impossibile – è difficile capire a chi servano, effettivamente, queste classifiche. Alcuni, cinicamente, ritengono che servano soprattutto alle riviste e alle società che le stilano: QS, per esempio, è già stata accusata di conflitto d’interessi in passato perché oltre a stilare le proprie influenti classifiche offre anche una serie di servizi di consulenza per le università stesse.
«Anche se cambiassero le metodologie, non cambierà il fatto che i ranking sono dei giochetti artificiali a somma zero», spiega la professoressa Jelena Brakovic. «Artificiali perché impongono una rigida gerarchia, e non è realistico che un ateneo possa migliorare la propria reputazione soltanto a scapito della reputazione di altre università. E artificiali perché la reputazione non è di per sé una risorsa scarsa, ma i ranking la fanno sembrare tale».