Napolitano e la corrente dei “miglioristi”
Prima di diventare il primo presidente della Repubblica della storia a essere rieletto era stato leader della corrente del PCI più moderata, che fece per anni opposizione a Berlinguer
Nel portale storico della Presidenza della Repubblica ci sono archivi, documenti, fotografie, dati e racconti sui capi di stato dell’Italia repubblicana. Di Napolitano, che è morto venerdì sera a 98 anni, si dice che è stato uno degli esponenti storici «della corrente della “destra” del PCI», il cui principale esponente fu Giorgio Amendola e di cui Napolitano si definì sempre un allievo. Dopo la morte di Amendola, negli anni Ottanta, Napolitano fondò una propria corrente di cui restò a lungo il capo, i “miglioristi”: una corrente, si dice sempre nella biografia di Napolitano, che era «estranea a utopie rivoluzionarie».
Il primo statuto del Partito Comunista Italiano, nato dalla scissione di Livorno del 21 gennaio del 1921, vietava il frazionamento del partito e l’organizzazione di minoranze organizzate e riconosciute. Ma al suo interno e per tutta la sua storia ci furono pluralità di posizioni, che la segreteria di Palmiro Togliatti riuscì a non far emergere, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta.
Le differenze divennero maggiori ed evidenti a partire dalla rivelazione del rapporto del leader sovietico Nikita Kruscev sui crimini di Stalin nel 1956, e poi con la rivolta in Ungheria duramente repressa dall’intervento armato delle truppe sovietiche. Il partito si trovò davanti a delle scelte: mantenere o rompere il legame con i sovietici, innanzitutto. E poi come leggere le nuove trasformazioni che stava attraversando il capitalismo, come rappresentare al proprio interno l’organizzazione del dissenso e la composizione delle divergenze. Insomma, alla fine degli anni Cinquanta maturarono considerazioni alternative rispetto al ruolo che doveva avere il partito nelle istituzioni e nella società, sulla politica delle alleanze e più in generale su come attuare il socialismo.
La contrapposizione principale fu tra la destra amendoliana, conosciuta anche come corrente riformista, e la sinistra di Pietro Ingrao che rappresentava l’ala più radicale e movimentista del partito, contraria alle alleanze con forze non ideologicamente allineate.
Per i riformisti, la strada per arrivare al socialismo non era la contrapposizione netta al capitalismo né la rivoluzione. Era invece necessario portare avanti riforme graduali, con l’aiuto dei partiti socialisti italiani e ispirandosi ai partiti socialdemocratici europei. Ed era necessario far conservare al PCI un ruolo di guida nella lotta per la trasformazione della società: un’idea contraria a quella di Ingrao, che sosteneva una democratizzazione del partito e la necessità di creare un nuovo rapporto con le organizzazioni autonome in lotta nelle fabbriche, ma anche con i movimenti nati dal Sessantotto.
I riformisti, radicati nell’apparato del partito e nella gestione delle cooperative rosse, si scontrarono apertamente con l’ala più a sinistra dopo la morte di Togliatti all’XI Congresso, nel 1966. In quella sede l’idea di Ingrao, cioè una via al socialismo possibile soltanto con un’azione di forze ideologicamente omogenee tra loro, uscì sconfitta. Prevalsero, invece, le tesi di Amendola favorevoli a un’alleanza con tutte le forze disposte a realizzare un programma riformistico e democratico.
All’interno del PCI Napolitano fece a lungo parte di questa corrente. I giornali e i biografi li descrivevano anche fisicamente come due opposti: Amendola era un ex pugile, robusto e con una retorica fiammeggiante. Napolitano, alto e magro, dall’aria aristocratica e dal linguaggio più moderato. La giornalista Miriam Mafai soprannominò Napolitano “Giorgio o’ sicco” (il magro) per distinguerlo da “Giorgio o’ chiatto” (il grasso), cioè Amendola.
Dopo la morte di Amendola Napolitano ne raccolse l’eredità e fondò la sua corrente. «Fummo etichettati come “miglioristi”», ricorderà in seguito Napolitano. «E quella etichettatura era polemica e perfino spregiativa, anche se a ben pensarci poi tante volte come PCI avevamo detto di voler lottare per un’Italia migliore».
Il “migliorismo” derivava il suo nome dall’idea che fosse possibile “migliorare” gradualmente il capitalismo, attraverso una serie di riforme da portare avanti con una partecipazione attiva al governo, e attraverso un dialogo con partiti moderati piuttosto che tramite uno scontro aperto con le “forze capitalistiche”, o tramite una rivoluzione. E individuarono nel Partito Socialista di Craxi un interlocutore privilegiato.
La corrente, e Napolitano, rappresentarono l’opposizione interna più forte al PCI del segretario più noto e celebrato, Enrico Berlinguer, di cui contestarono le scelte politiche, rimproverandogli l’abbandono del cosiddetto “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana, e quelle ideologiche, come la questione morale.
Lo scontro più ricordato dell’epoca del “migliorismo” fu la lettera con cui, nel 1981, Napolitano criticò sull’Unità la guida di Berlinguer a causa del famoso articolo in cui il segretario aveva parlato della «questione morale» e dell’orgogliosa «riaffermazione della nostra diversità». Fino ad allora gli scontri nel PCI si erano quasi sempre consumati all’interno del partito, senza incrinare l’immagine di unità esterna. Ma in quell’occasione Napolitano accusò Berlinguer di “settarismo” e di “elitismo”. E per farlo usò le riflessioni di Togliatti, di cui Berlinguer era considerato l’erede, sulla centralità della politica.
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Poco tempo dopo quell’articolo, Napolitano venne accusato dalla dirigenza del partito di essere troppo vicino e «connivente» con il PSI di Craxi. Come scrisse Miriam Mafai: «Poche settimane dopo lascerà la responsabilità della sezione di organizzazione del partito per assumere l’incarico di presidente dei deputati comunisti (che allora nel PCI veniva considerato assai meno importante di quello di responsabile dell’organizzazione, ndr). Ormai, Napolitano è indicato esplicitamente, nelle file comuniste, come un “destro”, un “riformista”».
Quando nel 1984 Berlinguer morì, Bettino Craxi era presidente del Consiglio da un anno, sostenuto da un’ampia coalizione che escludeva il PCI. All’epoca alla guida del partito c’era Alessandro Natta, che a causa di problemi di salute fu sostituito nel giugno del 1988 da Achille Occhetto. Nel frattempo Mikhail Gorbaciov era diventato leader di un’Unione Sovietica in crisi profonda. Durante la segreteria di Occhetto iniziò un grande dibattito interno al partito sul rinnovamento, proprio a partire dal nome e dalla parola “comunista”. Il primo a introdurlo apertamente fu Giorgio Napolitano, responsabile a quel tempo della commissione internazionale del PCI, che disse:
Se il Partito comunista decidesse di cambiare nome, la scelta più opportuna sarebbe quella di Partito del lavoro o Partito dei lavoratori. (…) Io do grandissima importanza alla sostanza del nostro cambiamento: decidere di cambiare il nome del partito potrebbe dare l’impressione che vogliamo dimenticare la nostra storia. Noi non la dimentichiamo e credo che per essere credibili dobbiamo fare i conti, apertamente, con il nostro passato. In ogni caso non mi scandalizzerei di un cambiamento del nome, ma vorrei che fosse legato a dei fatti politici, nel senso di una ricomposizione della sinistra in Italia e in Europa, del superamento pieno delle divisioni e di tutto ciò che di storicamente vecchio e non più sostenibile c’è nella sinistra nel suo complesso.
Era il febbraio del 1989 e il settimanale Epoca realizzò un sondaggio proprio sulla questione del nome: solo il 27,7 per cento dell’elettorato comunista risultò favorevole a un’ipotesi di cambiamento. Nonostante questo al XVIII Congresso del partito, nel marzo 1989, Occhetto iniziò a definire meglio la nuova prospettiva che avrebbe dovuto assumere il PCI. In gioco non c’era solo la questione del nome, ma anche quella di un possibile ricongiungimento fra socialisti e comunisti, che i miglioristi non avevano mai disdegnato, anzi.
La sera del 9 novembre 1989 crollò il Muro di Berlino. Tre giorni dopo Occhetto fece il celebre annuncio della “svolta della Bolognina” che portò, il 3 febbraio del 1991, allo scioglimento del PCI. Per Napolitano iniziò un periodo in cui si distaccò sempre più dalla vita operativa del partito, allontandosi dai giochi politici e aprendosi la possibilità di assumere cariche per cui era richiesta una certa imparzialità: anche in virtù della sua storia di leader dell’ala più moderata del PCI.