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  • Giovedì 21 settembre 2023

Crescere femmina nella Striscia di Gaza

La storia della scrittrice Asma' al-Atawna, che l'ha lasciata nel 2001, dall'ultimo numero di The Passenger sulla Palestina

Una giovane donna che vive nella Striscia di Gaza (Paddy Dowling, The Passenger)
Una giovane donna che vive nella Striscia di Gaza (Paddy Dowling, The Passenger)
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La Striscia di Gaza è il pezzo di terra tra Israele ed Egitto abitato esclusivamente da persone palestinesi, e che dal 2007 è controllato dal gruppo politico-terrorista Hamas. Ospita due milioni di persone (di cui 1,5 milioni di profughi) su una superficie grande quanto un nono della Valle d’Aosta: è uno dei posti più densamente abitati al mondo. Per la scrittrice Asma’ al-Atawna, beduina palestinese nata in questo territorio nel 1978, e fuggitane nel 2001, è anche una «prigione a cielo aperto» per le terribili condizioni di vita delle persone che ci vivono, e in particolare delle donne. Al-Atawna lo ha raccontato in uno degli articoli dell’ultimo numero di The Passenger, il libro-rivista della casa editrice Iperborea sui luoghi del mondo, dedicato alla Palestina. Ne pubblichiamo un estratto.

***

Era l’estate del 1995, per essere precisi. Mentre mia sorella Amal stendeva il bucato nel cortile, è passata davanti a lei un’anziana signora e la mamma l’ha invitata a entrare. Era grassa, indossava una lunga veste nera sopra i vestiti e un foulard bianco lungo che le copriva la testa. La signora è entrata in salotto e la mamma mi ha chiesto di preparare il caffè, poi ha chiuso la porta e ci ha spedito a giocare fuori. La donna è tornata il giorno dopo insieme a suo figlio. Era un ragazzo alto, sulla quarantina, con i capelli sale e pepe. La sua presenza, insieme a sua madre, mi metteva a disagio. La mamma ha chiesto ad Amal di mettersi il profumo e di farsi bella per servire il caffè agli ospiti. Avevo i crampi allo stomaco e l’ho seguita in salotto. Ha fatto un giro su se stessa su richiesta dell’anziana signora che le passava le dita tra le ciocche di capelli neri sciolti sulle spalle. Ho levato la sua mano dalla testa di Amal e le ho urlato: «Giù le mani da mia sorella.»

(Paddy Dowling, The Passenger)

La mamma mi ha picchiata e mi ha cacciata fuori. Sono scoppiata a piangere e sono corsa al campo dei fichi d’india ad aspettare il tramonto. Quando sono tornata a casa, origliando ho sentito che la mamma parlava a papà del tizio sconosciuto e della vecchia. Dopo una settimana da quella strana visita, le vicine sono venute a casa nostra per fare gli auguri a mia madre, lanciando trilli di gioia, mentre offrivamo baklava agli ospiti. Da quel momento, Amal non ebbe più il permesso di giocare fuori casa. Più tardi, sono venuta a sapere che mia sorella Amal di soli 14 anni era stata promessa a quello sconosciuto. Siamo tornati negli Emirati senza di lei perché il matrimonio è stato celebrato in fretta e furia, prima che ricominciasse la scuola. Siamo ripartiti lasciandola prigioniera dello sconosciuto. Non ho mai perdonato mia madre e mio padre è morto con il cuore lacerato dai sensi di colpa.

Da quando Amal si era sposata, ero sempre arrabbiata e mi ribellavo a mio padre e mia madre. Sognavo soltanto di tornare a vivere con mia sorella a Gaza. Era l’unico posto che mi avrebbe permesso di scappare lontano dai miei. Mi dicevo che stare da sola in quell’enorme prigione era meglio che essere prigioniera dei miei genitori. Il mio desiderio è diventato realtà quando ho finito l’ultimo anno delle superiori. Mio padre ha deciso di spedirmi a Gaza a vivere con mia sorella maggiore Iman, che faceva l’università, e con Amal, che ogni volta ci telefonava in lacrime per la vita dura che faceva con suo marito e l’anziana suocera. Mi ricordo che fu anche picchiata perché aveva osato lamentarsi con mia madre delle sofferenze nel suo matrimonio. La mamma e la nonna Amina le chiedevano di portare pazienza e di non chiedere il divorzio perché le divorziate non sono donne per bene.

(Paddy Dowling, The Passenger)

(…) Studiavo inglese all’università con Iman e lavoravo in un fast food per rendermi economicamente indipendente da mio padre. Facevo anche volontariato per l’Unrwa e così ho stretto amicizia con gli europei e americani che venivano apposta qui. Ero molto felice di lavorare con loro. Sentivo che il mondo era grande, vasto, e non confinato alla prigione di Gaza e a quella di mio padre nel deserto degli Emirati. Leggevo romanzi di autrici inglesi come Virginia Woolf. Leggere mi permetteva di evadere dalla realtà. Sognavo di diventare una scrittrice come loro, capace di parlare di ragazze e donne che soffrono nell’ombra. Mio padre telefonava più volte al giorno per controllare cosa facevamo. Mi ricordo che una volta mi ha chiesto dov’ero e gli ho risposto: «A casa!» E lui è sbottato: «Ma se sento la musica in sottofondo!»

(Paddy Dowling, The Passenger)

La sua paranoia cresceva a causa della distanza. A un certo punto ho smesso di rispondergli. (…) Ero sorvegliata dai vicini e dalla polizia solo perché avevo osato togliermi il velo e facevo quello che mi pareva alla luce del sole. Ricevevo telefonate da numeri anonimi che con la voce camuffata mi ordinavano di chiudere la finestra e di spegnere la luce della cucina. Le mie sorelle erano terrorizzate e mi consigliavano di non uscire di casa. Io non seguivo il loro suggerimento perché ero convinta di non fare del male a nessuno, ma cercavo di non fargli capire che anche io ero spaventata. I vicini hanno telefonato a mio padre che, senza farselo dire due volte, è venuto a Gaza per uccidermi. Mi ha picchiato brutalmente davanti alla gente del nostro vicinato, urlandomi che ero una vergogna per lui e per la famiglia.

Il giorno dopo sono andata in università e ho cercato il mio professore di spagnolo Andrés per parlargli. Quando ha visto la mia faccia sfigurata, con i lividi blu e il sangue raggrumato, ha perso le staffe. Mi ha promesso che mi avrebbe aiutato a fuggire in Europa.